< Decameron < Giornata settima
Questo testo è completo.
Giornata settima - Conclusione
Giornata settima - Novella decima Giornata ottava

Zefiro era levato per lo sole che al ponente s’avvicinava, quando il re, finita la sua novella né altro alcun restandovi a dire, levatasi la corona di testa, sopra il capo la pose alla Lauretta, dicendo: — Madonna, io vi corono di voi medesima reina della nostra brigata; quello ornai che crederete che piacer sia di tutti e consolazione, sí come donna, comanderete — e riposesi a sedere.

La Lauretta, divenuta reina, si fece chiamare il siniscalco, al quale impose che ordinasse che nella piacevole valle alquanto a migliore ora che l’usato si mettesser le tavole, acciò che poi ad agio si potessero al palagio tornare; ed appresso, ciò che a fare avesse mentre il suo reggimento durasse, gli divisò. Quindi, rivolta alla compagnia, disse: — Dioneo volle ieri che oggi si ragionasse delle beffe che le donne fanno a’ mariti: e se non fosse che io non voglio mostrare d’essere di schiatta di can botolo, che incontanente si vuol vendicare, io direi che domane si dovesse ragionare delle beffe che gli uomini fanno alle lor mogli. Ma lasciando star questo, dico che ciascun pensi di dire di quelle beffe che tutto il giorno o donna ad uomo o uomo a donna o l’uno uomo all’altro si fanno; e credo che in questo sará non meno di piacevole ragionare che stato sia questo giorno. — E cosí detto, levatasi in piè, per infino ad ora di cena licenziò la brigata.

Levaronsi adunque le donne e gli uomini parimente, de’ quali alcuni scalzi per la chiara acqua cominciarono ad andare, ed altri tra’ belli e diritti alberi sopra il verde prato s’andavano diportando. Dioneo e la Fiammetta gran pezza cantarono insieme d’Arcita e di Palemone: e così, vari e diversi diletti pigliando, il tempo infino all’ora della cena con grandissimo piacer trapassarono; la qual venuta, e lungo al pelaghetto a tavola postisi, quivi al canto di mille uccelli, rinfrescati sempre da un’aura soave che da quelle montagnette da torno nasceva, senza alcuna mosca, riposatamente e con letizia cenarono. E levate le tavole, poi che alquanto la piacevole valle ebbero circuita, essendo ancora il sole alto a mezzo vespro, sí come alla loro reina piacque, inverso la loro usata dimora con lento passo ripresero il cammino, e motteggiando e cianciando di ben mille cose, cosí di quelle che il dì erano state ragionate come d’altre, al bel palagio assai vicino di notte pervennero. Dove con freschissimi vini e con confetti la fatica del piccol cammin cacciata via, intorno della bella fontana di presente furono in sul danzare, quando al suono della cornamusa di Tindaro e quando d’altri suon carolando: ma alla fine la reina comandò a Filomena che dicesse una canzone; la quale cosí incominciò:

     Deh! lassa la mia vita!
sará giá mai ch’io possa ritornare
donde mi tolse noiosa partita?
     Certo io non so, tanto è ’l disio focoso,
che io porto nel petto
di ritrovarmi ov’io, lassa! giá fui;
o caro bene, o solo mio riposo,

che ’l mio cuor tien’distretto,
dch! dilmi tu, ché ’l domandarne altrui
non oso, né so cui;
dch! signor mio, dch! fammelo sperare,
sí ch’io conforti l’anima smarrita.
     Io non so ben ridir qual fu ’l piacere
che sí m’ha infiammata,
che io non trovo dí né notte loco;
per che l’udire e ’l sentire e ’l vedere,
con forza non usata,
ciascun per sé accese nuovo foco,
nel qual tutta mi coco:
né mi può altri che tu confortare
o ritornar la vertú sbigottita.
     Deh! dimmi s’esser dèe e quando fia
ch’io ti trovi giá mai
dov’io basciai quegli occhi che m’han morta;
dimmel, caro mio bene, anima mia,
quando tu vi verrai,
e col dir — Tosto — alquanto mi conforta;
sia la dimora corta
d’ora al venire e poi lunga allo stare,
ch’io non men curo, sí m’ha Amor ferita.
     Se egli avvien che io mai piú ti tenga,
non so s’io sarò sciocca,
com’io or fui, a lasciarti partire;
io ti terrò, e che può si n’avvenga,
e della dolce bocca
convien ch’io sodisfaccia al mio disire:
d’altro non voglio or dire;
dunque vien’tosto, vienmi ad abbracciare,
ché ’l pur pensarlo di cantar m’invita.

Estimar fece questa canzone a tutta la brigata che nuovo e piacevole amore Filomena strignesse; e per ciò che per le parole di quella pareva che ella piú avanti che la vista sola n’avesse sentito, tenendonela piú felice, invidia per tali vi furono, ne le fu avuta. Ma poi che la sua canzon fu finita, ricordandosi la reina che il dí seguente era venerdí, cosí a tutti piacevolemente disse: — Voi sapete, nobili donne, e voi giovani, che domane è quel dì che alla passione del nostro Signore è consecrato, il quale, se ben vi ricorda, noi divotamente celebrammo essendo reina Neifile, ed a’ ragionamenti dilettevoli demmo luogo; ed il simigliante facemmo del sabato susseguente. Per che, volendo il buono esemplo datone da Neifile seguitare, estimo che onesta cosa sia che domane e l’altro dì, come i passati giorni facemmo, dal nostro dilettevole novellare ci astegnamo, quello a memoria riducendoci che in cosí fatti giorni per la salute delle nostre anime addivenne. — Piacque a tutti il divoto parlare della loro reina; dalla quale licenziati, essendo giá buona pezza di notte passata, tutti s’andarono a riposare.




Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.