< Dei delitti e delle pene (1821)
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V VII

§ VI.

Della Cattura.

Un errore non meno comune che contrario al fine sociale, che è l’opinione della propria sicurezza, è il lasciare arbitro il magistrato esecutore delle leggi, d’imprigionare un cittadino, di togliere la libertà ad un nemico per frivoli pretesti, e il lasciare impunito un amico ad onta degl’indizi più forti di reità. La prigionia è una pena che per necessità deve, a differenza di ogni altra, precedere la dichiarazione del delitto; ma questo carattere distintivo non le toglie l’altro essenziale, cioè che la sola legge determini i casi, nei quali un uomo è degno di pena. La legge dunque accennerà gli indizi di un delitto che meritano la custodia del reo, che lo assoggettano ad un esame e ad una pena. La pubblica fama, la fuga, la stragiudiciale confessione, quella d’un compagno del delitto, le minaccie e la costante inimicizia con l’offeso, il corpo del delitto, e simili indizi, sono prove bastanti per catturare un cittadino. Ma queste prove devono stabilirsi dalla legge e non dai giudici, i decreti de’ quali sono sempre opposti alla libertà politica, quando non sieno proposizioni particolari di una massima generale esistente nel pubblico codice. A misura che le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri, che la compassione e l’umanità penetreranno le porte ferrate e comanderanno agli inesorabili ed induriti ministri della giustizia, le leggi potranno contentarsi d’indizi sempre più deboli per catturare. Un uomo accusato di un delitto, carcerato ed assoluto, non dovrebbe portar seco nota alcuna d’infamia. Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati poi innocenti, furono dal popolo riveriti e di magistrature onorati! Ma per qual ragione è così diverso ai tempi nostri l’esito di un innocente? perchè sembra che nel presente sistema criminale, secondo l’opinione degli uomini, prevalga l’idea della forza e della prepotenza a quella della giustizia; si gettano confusi nella stessa caverna gli accusati e i convinti; perchè la prigione è piuttosto un supplizio, che una custodia del reo, e perchè la forza interna tutrice delle leggi è separata dalla esterna difenditrice del trono e della nazione, quando unite dovrebbono essere. Così la prima sarebbe per mezzo del comune appoggio delle leggi combinata colla facoltà giudicativa, ma non dipendente da quella con immediata podestà; e la gloria che accompagna la pompa ed il fasto di un corpo militare, toglierebbero l’infamia, la quale è più attaccata al modo che alla cosa, come tutti i popolari sentimenti; ed è provato dall’essere le prigionie militari nella comune opinione non così infamanti come le forensi. Durano ancora nel popolo, ne’ costumi e nelle leggi, sempre di più di un secolo inferiori in bontà ai lumi attuali di una nazione, durano ancora le barbare impressioni e le feroci idee dei settentrionali cacciatori padri nostri.

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