< Dei delitti e delle pene (1821)
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XI XIII

§ XII.


Della Tortura.


Una crudeltà consagrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo, mentre si forma il processo, o per costringerlo a confessare un delitto, o per le contraddizioni nelle quali incorre, o per la scoperta de’ complici, o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia, o finalmente per altri delitti, di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato.

Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, nè la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali gli fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo, o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo, o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perchè inutile è la confessione del reo; se è incerto, non devesi tormentare un innocente, perchè tale è, secondo le leggi, un uomo i cui delitti non sono provati.

Qual è il fine politico delle pene? Il terrore degli altri uomini. Ma qual giudizio dovremo noi dare delle segrete e private carnificine che la tirannia dell’uso esercita su i rei e su gl’innocenti? Egli è importante che ogni delitto palese non sia impunito; ma è inutile che si sveli chi abbia commesso un delitto che sta sepolto nelle tenebre. Un male già fatto, ed a cui non v’è rimedio, non può esser punito dalla società politica, che in quanto influisce su gli altri colla lusinga della impunità. S'egli è vero che sia maggiore il numero degli uomini che o per timore, o per virtù rispettano le leggi, che di quelli che le infrangono, il rischio di tormentare un innocente deve valutarsi tanto più, quanto è maggiore la probabilità che un uomo, a dati uguali, le abbia piuttosto rispettate che disprezzate.

Ma io aggiungo di più, ch’egli è un voler confondere tutt’i rapporti l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato; che il dolore divenga il crociuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. La legge che comanda la tortura, è una legge che dice: “Uomini, resistete al dolore; e se la natura ha creato in voi uno inestinguibile amor proprio, se vi ha dato un inalienabile diritto alla vostra difesa, io creo in voi un affetto tutto contrario, cioè un eroico odio di voi stessi, e vi comando di accusare voi medesimi, dicendo la verità anche fra gli strappamenti dei muscoli, e gli slogamenti delle ossa.„

Questo infame crociuolo della verità è un monumento ancora esistente dell’antica e selvaggia legislazione, quando erano chiamati giudizi di Dio le prove del fuoco e dell’acqua bollente, e l’incerta sorte delle armi; quasi che gli anelli dell’eterna catena che è nel seno della prima Cagione, dovessero ad ogni momento essere disordinati e sconnessi pe’ frivoli stabilimenti umani. La sola differenza che passa fra la tortura e le prove del fuoco e dell’acqua bollente, è che l’esito della prima sembra dipendere dalla volontà del reo, e delle seconde da un fatto puramente fisico ed estrinseco: ma questa differenza è solo apparente e non reale. È così poco libero il dire la verità fra gli spasimi e gli strazi, quanto lo era allora l’impedire senza frode gli effetti del fuoco e dell’acqua bollente. Ogni atto della nostra volontà è sempre proporzionato alla forza della impressione sensibile che ne è la sorgente; e la sensibilità di ogni uomo è limitata. Dunque l’impressione del dolore può crescere a segno, che occupandola tutta, non lasci altra libertà al torturato, che di scegliere la strada più corta pel momento presente, onde sottrarsi di pena. Allora la risposta del reo è così necessaria, come le impressioni del fuoco o dell’acqua. Allora l’innocente sensibile si chiamerà reo, quando egli creda con ciò di far cessare il tormento. Ogni differenza tra essi sparisce per quel mezzo medesimo che si pretende impiegato per ritrovarla.

Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati, e di condannare i deboli innocenti. Ecco i fatali inconvenienti di questo preteso criterio di verità, ma criterio degno di un cannibale, che i Romani, barbari anch’essi per più di un titolo, riserbavano ai soli schiavi, vittime di una feroce e troppo lodata virtù. Di due uomini ugualmente innocenti, o ugualmente rei, il robusto ed il coraggioso sarà assoluto, il fiacco ed il timido condannato in virtù di questo esatto raziocinio: “Io giudice doveva trovarvi rei di un tal delitto, tu vigoroso hai saputo resistere al dolore, e però ti assolvo; tu debole vi hai ceduto, e però ti condanno. Sento che la confessione strappata fra i tormenti non avrebbe alcuna forza; ma io vi tormenterò di nuovo, se non confermerete ciò che avete confessato.„

L’esito dunque della tortura è un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e detta sua sensibilità; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo problema: “Data la forza dei muscoli e la sensibilità delle fibre di un innocente, trovare il grado di dolore che lo farà confessar reo di un dato delitto.„

L’esame di un reo è fatto per conoscere la verità; ma se questa verità difficilmente scuopresi all’aria, al gesto, alla fisonomia di un uomo tranquillo, molto meno scuoprirassi in un uomo in cui le convulsioni del dolore alterano tutti i segni, pei quali dal volto della maggior parte degli uomini traspira qualche volta loro malgrado, la verità. Ogni azione violenta confonde e fa sparire le minime differenze degli oggetti, per cui si distingue talora il vero dal falso.

Una strana conseguenza che necessariamente deriva dall’uso della tortura è, che l’innocente è posto in peggior condizione che il reo; perchè se ambidue sieno applicati al tormento, il primo ha tutte le combinazioni contrarie; perchè o confessa il delitto, ed è condannato, o è dichiarato innocente, ed ha sofferto una pena indebita. Ma il reo ha un caso favorevole per sè, cioè, quando resistendo alla tortura con fermezza, deve essere assoluto come innocente, ha cambiato una pena maggiore in una minore. Dunque l’innocente non può che perdere, il colpevole può guadagnare.

Questa verità è finalmente sentita, benchè confusamente, da quei medesimi che se ne allontanano. Non vale la confessione fatta durante la tortura, se non è confermata con giuramento dopo cessata quella; ma se il reo non conferma il delitto, è di nuovo torturato. Alcuni dottori ed alcune nazioni non permettono questa infame petizione di principio che per tre volte; altre nazioni ed altri dottori la lasciano ad arbitrio del giudice.

È superfluo di raddoppiare il lume citando gl’innumerabili esempi d’innocenti che rei si confessarono per gli spasimi della tortura; non vi è nazione, non vi è età, che non citi i suoi; ma ne gli uomini si cangiano, nè cavano conseguenze. Non vi è uomo, che abbia spinto le sue idee al di là dei bisogni della vita, che qualche volta non corra verso natura, che con segrete e confuse voci a se lo chiama; l’uso, il tiranno delle menti, lo rispinge e lo spaventa.

Il secondo motivo è la tortura, che si dà ai supposti rei, quando nel loro esame cadono in contraddizione, quasi che il timor della pena, l’incertezza del giudizio, l’apparato e la maestà del giudice, l’ignoranza, comune a quasi tutti gli scellerati e gl’innocenti, non debbano probabilmente far cadere in contraddizione e l’innocente che teme, e il reo che cerca di coprirsi; quasi che le contraddizioni, comuni agli uomini quando sono tranquilli, non debbano moltiplicarsi nella turbazione dell’animo, tutto assorbito nel pensiero di salvarsi dall’imminente pericolo.

Dassi la tortura per discoprire, se il reo lo è per altri delitti fuori di quelli di cui è accusato; il che equivale a questo raziocinio: “Tu sei il reo di un delitto, dunque è possibile che lo sii di cent’altri delitti: questo dubbio mi pesa, voglio accertarmene col mio criterio di verità: le leggi ti tormentano, perchè sei reo, perchè puoi esser reo, perchè voglio che tu sii reo.„

La tortura è data ad un accusato per discoprire i complici del suo delitto; ma se è dimostrato ch’ella non è un mezzo opportuno per iscoprire la verità, come potrà ella servire a svelare i complici, che è una delle verità da scoprirsi? quasi che l’uomo che accusa sè stesso, non accusi più facilmente gli altri. È egli giusto il tormentare gli uomini per l’altrui delitto? Non si scopriranno i complici dall’esame de’ testimoni, dall’esame del reo, dalle prove, e dal corpo del delitto, in somma da tutti quei mezzi medesimi che debbono servire per accertare il delitto nell’accusato? I complici per lo più fuggono immediatamente dopo la prigionia del compagno; l’incertezza della loro sorte li condanna da sè sola all’esilio, e libera la nazione dal pericolo di nuove offese, mentre la pena del reo che è nelle forze ottiene l’unico suo fine, cioè di rimuovere col terrore gli altri uomini da un simil delitto.

Un altro ridicolo motivo della tortura è la purgazione dell’infamia; cioè un uomo giudicato infame dalle leggi deve confermare la sua deposizione collo slogamento delle sue ossa. Questo abuso non dovrebbe esser tollerato nel decimottavo secolo. Si crede che il dolore, che è una sensazione, purghi l’infamia che è un mero rapporto morale. È egli forse un crociuolo? E l’infamia è forse un corpo misto impuro? Ma l’infamia è un sentimento non soggetto nè alle leggi, nè alla ragione, ma alla opinione comune. La tortura medesima cagiona una reale infamia a chi ne è la vittima. Dunque con questo metodo si toglierà l’infamia dando l’infamia.

Non è difficile il rimontare all’origine di questa ridicola legge, perchè gli assurdi stessi che sono da una nazione intera adottati, hanno sempre qualche relazione ad altre idee comuni e rispettate dalla nazione medesima. Sembra quest’uso preso dalle idee religiose e spirituali, che hanno tanta influenza su i pensieri degli uomini, su le nazioni e su i secoli. Un dogma infallibile ci assicura che le macchie contratte dall’umana debolezza, e che non hanno meritata l’ira eterna del grand’Essere, debbono da un fuoco incomprensibile esser purgale; ora l’infamia è una macchia civile; e come il dolore ed il fuoco tolgono le macchie spirituali ed incorporee, perchè gli spasimi della tortura non toglieranno la macchia civile, che è l’infamia? Io credo che la confessione del reo, che in alcuni tribunali si esige come essenziale alla condanna, abbia una origine non dissimile, perchè nel misterioso tribunale di penitenza la confessione dei peccati è parte essenziale del sagramento. Ecco come gli uomini abusano dei lumi più sicuri della rivelazione; e siccome questi sono i soli che sussistono nei tempi d’ignoranza, così ad essi ricorre la docile umanità in tutte le occasioni, e ne fa le più assurde e lontane applicazioni.

Queste verità sono state conosciute dai romani legislatori, presso i quali non trovasi usata alcuna tortura che su i soli schiavi, ai quali era tolta ogni personalità: sono adottate dall’Inghilterra, nazione in cui la gloria delle lettere, la superiorità del commercio e delle ricchezze, e perciò della potenza, e gli esempi di virtù o di coraggio, non ci lasciano dubitare della bontà delle leggi. La tortura è stata abolita nella Svezia: abolita da uno de’ più saggi monarchi dell’Europa, che avendo portata le filosofia sul trono, legislatore amico de’ suoi sudditi, gli ha resi uguali e liberi nella dipendenza delle leggi, che è la sola uguaglianza e libertà che possono gli uomini ragionevoli esigere nelle presenti combinazioni di cose. La tortura non è creduta necessaria dalle leggi degli eserciti, composti per la maggior parte della feccia delle nazioni, che sembrerebbono perciò doversene più d’ogni altro ceto servire. Strana cosa per chi non considera quanto sia grande la tirannia dell’uso, che le pacifiche leggi debbano apprendere dagli animi induriti alle stragi ed al sangue il più umano metodo di giudicare!


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