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§ XV.
Dolcezza delle pene.
Dalla semplice considerazione delle verità fin qui esposte egli è evidente che il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, nè di disfare un delitto già commesso. Può egli in un corpo politico, che ben lungi di agire per passione è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà, strumento del furore e del fanatismo, o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo, che non retrocede, le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini, e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole su gli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.
Chi nel leggere le storie non si raccapriccia d’orrore pe’ barbari ed inutili tormenti che da uomini che si chiamavano savi, furono con freddo animo inventati ed eseguiti? Chi può non sentirsi fremere tutta la parte più sensibile nel vedere migliaia d’infelici, che la miseria o voluta, o tollerata dalle leggi, che hanno sempre favorito i pochi ed oltraggiato i molti, trasse ad un disperato ritorno nel primo stato di natura, o accusati di delitti impossibili e fabbricati dalla timida ignoranza, o rei non d’altro che di esser fedeli ai propri principii, da uomini dotati dei medesimi sensi, e per conseguenza delle medesime passioni, con meditate formalità e con lente torture lacerati, giocondo spettacolo di una fanatica moltitudine?
Perchè una pena ottenga il suo effetto, basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male dev’essere calcolata l’infallibilità della pena, e la perdita del bene che il delitto produrrebbe: tutto il di più è dunque superfluo, e perciò tirannico. Gli uomini si regolano per la ripetuta azione dei mali che conoscono, e non su quelli che ignorano. Si facciano due nazioni, in una delle quali nella scala delle pene proporzionata alla scala dei delitti la pena maggiore sia la schiavitù perpetua, e nell’altra la ruota: io dico che la prima avrà tanto timore della sua maggior pena, quanto la seconda; e se vi è una ragione di trasportar nella prima le pene maggiori della seconda, l’istessa ragione servirebbe per accrescere le pene di quest’ultima, passando insensibilmente dalla ruota ai tormenti più lenti e più studiati, e sino agli ultimi raffinamenti della scienza troppo conosciuta dai tiranni.
A misura che i supplizi diventano più crudeli, gli animi umani, che come i fluidi si mettono sempre a livello cogli oggetti che li circondano, s’incalliscono; e la forza sempre viva delle passioni fa che dopo cent’anni di crudeli supplizi la ruota spaventi tanto, quanto prima la prigionia.
L’atrocità stessa della pena fa che si ardisca tanto di più per ischivarla, quanto è grande il male a cui si va incontro; fa che si commettano più delitti, per fuggir la pena di un solo. I paesi e i tempi dei più atroci supplizi furono sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni; poichè il medesimo spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario: sul trono dettava leggi di ferro ad anime atroci di schiavi che ubbidivano; nella privata oscurità stimolava ad immolare i tiranni per crearne dei nuovi.
Due altre funeste conseguenze derivano dalla crudeltà delle pene, contrarie al fine medesimo di prevenire i delitti. La prima è, che non è sì facile il serbare la proporzione essenziale tra il delitto e la pena; perchè quantunque un’industriosa crudeltà ne abbia variate moltissimo le specie, pure non possono oltrepassare quell’ultima forza a cui è limitata l’organizzazione e la sensibilità umana. Giunto che si sia a questo estremo, non si troverebbe a’delitti più dannosi e più atroci pena maggiore corrispondente, come sarebbe d’uopo per prevenirli.
L’altra conseguenza è, che l’impunità stessa nasce dall’atrocità dei supplizi. Gli uomini sono racchiusi fra certi limiti, sì nel bene che nel male; ed uno spettacolo troppo atroce per l’umanità non può essere che un passeggero furore, ma non mai un sistema costante, quali debbono essere le leggi; che se veramente sono crudeli, o si cangiano, o l’impunità fatale nasce dalle leggi medesime.
Conchiudo con questa riflessione, che la grandezza delle pene dev’essere relativa allo stato della nazione medesima. Più forti e sensibili devono essere le impressioni su gli animi induriti di un popolo appena uscito dallo stato selvaggio: vi vuole il fulmine per abbattere un feroce leone che si rivolta al colpo del fucile. Ma a misura che gli animi si ammolliscono nello stato di società, cresce la sensibilità, e crescendo essa, deve scemarsi la forza della pena, se costante vuol mantenersi la relazione tra l’oggetto e la sensazione.