< Dei delitti e delle pene (1821)
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XXII XXIV

§ XXIII


Proporzione fra i delitti e le pene.


Non solamente è interesse comune che non si commettano delitti, ma che siano più rari a proporzione del male che arrecano alla società. Dunque più forti debbono essere gli ostacoli, che risospingono gli uomini dai delitti, a misura che sono contrari al ben pubblico, ed a misura delle spinte che ve li portano. Dunque vi deve essere una proporzione fra i delitti e le pene.

Se il piacere e il dolore sono i motori degli esseri sensibili, se tra i motivi che spingono gli uomini anche alle più sublimi operazioni, furono destinati dall’invisibile legislatore il premio e la pena, dalla inesatta distribuzione di queste ne nascerà quella tanto meno osservata contraddizione, quanto più comune, che le pene puniscano i delitti che hanno fatto nascere. Se una pena eguale è destinata a due delitti che disugualmente offendono la società, gli uomini non troveranno un più forte ostacolo per commettere il maggior delitto, se con esso vi trovino unito un maggior vantaggio. Chiunque vedrà stabilita la medesima pena di morte, per esempio, a chi uccide un fagiano, ed a chi assassina un uomo, o falsifica uno scritto importante, non farà alcuna differenza tra questi delitti, distruggendosi in questa maniera i sentimenti morali, opera di molti secoli e di molto sangue, lentissimi e difficili a prodursi nell’animo umano, per far nascere i quali fu creduto necessario l’aiuto de’ più sublimi motivi, e un tanto apparato di gravi formalità.

È impossibile di prevenire tutti i disordini nell’universale combattimento delle passioni umane. Essi crescono in ragion composta della popolazione e dell’incrocicchiamento degl’interessi particolari, che non è possibile di dirigere geometricamente alla pubblica utilità. Alla esattezza matematica bisogna sostituire nell’aritmetica politica il calcolo delle probabilità. Si getti uno sguardo sulle storie, e si vedranno crescere i disordini coi confini degli imperi; e scemando nell’istessa proporzione il sentimento nazionale, la spinta verso i delitti cresce in ragione dell’interesse che ciascuno prende ai disordini medesimi; perciò la necessità di aggravare le pene si va per questo motivo sempre più aumentando.

Quella forza simile alla gravità che ci spinge al nostro ben essere, non si trattiene che a misura degli ostacoli che le sono opposti. Gli effetti di questa forza sono la confusa serie delle azioni umane: se queste si urtano scambievolmente e si offendono, le pene che io chiamerei ostacoli politici, ne impediscono il cattivo effetto senza distruggere la causa impellente, che è la sensibilità medesima inseparabile dall’uomo; e il legislatore fa come l’abile architetto, di cui l’officio è di opporsi alle direzioni ruinose della gravità, e di far cospirare quelle che contribuiscono alla forza dell’edifìcio.

Data la necessità della riunione degli uomini, dati i patti che necessariamente risultano dalla opposizione medesima degl’interessi privati, trovasi una scala di disordini, dei quali il primo grado consiste in quelli che distruggono immediatamente la società, e l’ultimo nella minima ingiustizia possibile fatta ai privati membri di essa. Tra questi estremi sono comprese tutte le azioni opposte al ben pubblico, che chiamansi delitti, e tutte vanno per gradi insensibili decrescendo dal più sublime al più infimo. Se la geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure combinazioni delle azioni umane, vi dovrebbe essere una scala corrispondente di pene che discendesse dalla più forte alla più debole; se vi fosse una scala esatta ed universale delle pene e dei delitti, avremmo una probabile e comune misura dei gradi di tirannia e di libertà, del fondo di umanità o di malizia delle diverse nazioni: ma basterà al saggio legislatore di segnarne i punti principali senza turbar l’ordine, non decretando ai delitti del primo grado le pene dell’ultimo.

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