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Coronata di rose e di viole
Scendea di Giano a rinserrar le porte
3La bella Pace pel cammin del sole,
E le spade stringea d’aspre ritorte,
E cancellava con l’orme divine
6I luridi vestigi de la morte;
E la canizie de le pigre brine
Scotean dal dorso, e de le verdi chiome
9Si rivestian le valli e le colline;
Quand’io fui tratto in parte, io non so come,
Io non so con qual possa o con quai piume,
12Quasi sgravato da le terree some.
E mi ferì le luci un vivo lume ,
Ove non potea l’occhio essere inteso,
15E vinto fu del mio veder l’acume,
Com’uom che da profondo sonno è preso,
Se una vivida luce lo percote,
18Onde subitamente è l’occhio offeso,
Le confuse palpebre agita e scote,
Né può serrarle, né fissarle in lei,
21Che sua virtute sostener non puote;
Così vinti cadevan gli occhi miei,
Ma il Ciel forze lor diè più che mortali,
24Da sostener la vista de gli Dei.
Non cred’io già che fosser questi frali
Occhi deboli e corti e spesso infidi,
27Cui non lice fissar cose immortali.
Forse fu, s’egli è ver che in noi s’annidi,
Parte miglior che de le membra è donna;
30Onde come io non so, so ben ch’io vidi.
Vidi una Dea; nulla era in lei di donna,
Non era l’andar suo cosa mortale ,
33Né mai fu tale che vestisse gonna.
Di portamento altera , e quanta e quale
Su gli astri incede quella al maggior Dio
36Del talamo consorte e del natale.
Nobile, umano, maestoso e pio
Era lo sguardo, e l’armonia celeste
39Comprenderla non può chi non l’udio.
Sovra l’uso mortal fulgida veste
Copre le sante immacolate membra,
42E svela in parte le fattezze oneste.
Tessuta è in Paradiso, e un velo sembra;
Ma a tanto già non giunge uman lavoro;
45Oh con quanto stupor me ne rimembra!
Siede su cocchio di finissim’oro
Umilemente altera, ed il decenne
48Berretto il crine affrena, aureo decoro.
Stringe la manca la fatal bipenne,
E l’altra il brando scotitor de’ troni,
51Onde a cotanta altezza e poter venne
La gran madre de’ Fabj e de’ Scipioni;
Sotto cui vide i Regi incatenati
54Curvar l’alte cervici umili e proni.
Pronte a’ suoi cenni stanle d’ambo i lati
Due Dive, dal cui sdegno e dal cui riso
57Pendon de l’universo incerti i fati.
L’una è soave e mansueta in viso,
E stringe con la destra il santo ulivo,
60E il mondo rasserena d’un sorriso.
E l’altra è la ministra di Gradivo,
Che si pasce di gemiti e d’affanni,
63E tinge il lauro in sanguinoso rivo.
Due bandiere scotean de l’aure i vanni;
Su l’una scritto sta: Pace a le genti,
66Su l’altra si leggea: Guerra ai Tiranni.
Taceano al lor passar l’ire de’ venti,
Che, survolando intorno al sacro scritto,
69Lo baciavano umili e reverenti.
Quinci è Colei, che del comun diritto
Vindice, a l’ima plebe i grandi agguaglia,
72Sol diseguai per merto o per delitto;
E se vede che un capo in alto saglia,
E sdegni assoggettarsi a la sua libra,
75Alza la scure adeguatrice, e taglia.
E con la destra alto sospende e libra
L’intatta inesorabile bilancia,
78Ove merto e virtù si pesa e libra.
Non del sangue il valor, ch’è lieve ciancia,
E tanto nocque alle cittadi, e nuoce;
81E sal Lamagna, e ’l seppe Italia e Francia.
Dolce in vista ed umano e in un feroce
Quindi era il patrio Amor, che ai figli suoi
84Il cor con l’alma face infiamma e cuoce;
E i servi trasformar puote in Eroi,
E non teme il fragor di tue ritorte,
87O Tirannia, né de’ metalli tuoi;
Non quella cieca che si chiama sorte,
Che i vili in Ciel locaro, e fecer Diva;
90E scritto ha in petto: O Libertate o morte.
D’ogn’intorno commosso il suol fioriva,
L’aura si fea più pura e più serena,
93E sorridea la fortunata riva.
E a color che fuggir l’aspra catena,
Prorompeva su gli occhi e su le labbia
96Impetuosa del piacer la piena;
Come augel, che fuggì l’antica gabbia,
Or vola irrequieto tra le frondi,
99Rade il suol, poi si sguazza ne la sabbia.
Quindi s’udian romor cupi e profondi,
Un franger di corone e di catene,
102Un fremer di Tiranni moribondi.
Impugnando un flagel d’anfesibene
La Tirannia giacevasi da canto,
105E si graffiava le villose gene.
E i torbid’occhi si copria col manto;
Ché la luce vincea l’atre palpebre,
108E le spremea da le pupille il pianto;
Come notturno augel, che le latebre
Ospiti cerca allor che il Sole incalza
111Ne’ buj recinti l’orride tenebre.
Èvvi una cruda, che uno stile innalza,
E ’l caccia in mano a l’uomo e dice: Scanna,
114E forsennata va di balza in balza.
Nera coppa di sangue ella tracanna,
E lacerando umane membra a brani,
117Le spinge dentro a l’insaziabil canna.
E con tabe-grondanti orride mani
I sacrileghi don su l’ara pone,
120E osa tendere al Ciel gli occhi profani.
Che più? Sue crudeltati ai Numi appone,
E fa ministro il Ciel di sue vendette;
123E il volgo la chiamò Religione.
Si scolorar le faccie maledette,
E l’una a l’altra larva s’avviticchia,
126E stan fra lor sì avviluppate e strette,
Che il cor de l’una al sen de l’altra picchia,
Ansando in petto, e trabalzando, e poscia
129La coppia abbominosa si rannicchia.
Qual’è lo can che tremando s’accoscia,
Se il signor con la verga alto il minaccia,
132Tal ristrinsersi i mostri per l’angoscia.
Ma poi che di quell’altra in su la faccia
Vide languir la moribonda speme,
135Colei che in sacri ceppi il volgo allaccia,
Incorolla dicendo: E mute insieme
Morremo e inoperose? e il nostro lutto
138Fia di letizia a chi ’l procaccia seme?
Tutto si tenti e si ritenti tutto;
E se morire è forza pur, si moja ,
141Ma acerbo il mondo ne raccolga frutto.
Qualunque aspira a Libertate moja,
Né onor di tomba o pianto abbia il ribaldo.
144E l’altra surse e gorgogliava: Moja.
Moja, sì moja, e temerario e baldo
Cerchi in Inferno Libertade; il fio
147Paghi col sangue fumeggiante e caldo.
Acuto allor s’intese un sibilio
Via per le chiome ed un divincolarsi
150E di morsi e percosse un mormorio.
Poscia terribilmente sollevarsi
E un barlume di speme fu veduto
153Brillar sui ceffi lividi e riarsi;
Come allor che nel fosco aer sparuto
In fra ’l notturno vel si mostra e fugge
156Un focherello passeggiero e muto.
L’infame coppia si rosicchia e sugge
Di preda ingorda la terribil ugna,
159Si picchia i lombi risonanti e rugge.
Contra miglior voler voler mal pugna ;
E fra la vil perfidia e la virtute
162Secura è sempre e disegual la pugna.
Ma stavan l’aure pensierose e mute,
E il Ciel di brama e di timor conquiso,
165E pendevan le rive irresolute.
La Dea mirolle, e rise un cotal riso
Di scherno e di disdegno, che dipinge
168Di gioja al giusto, al rio di tema il viso.
E immobile in suo seggio il cocchio spinge
Su le attonite larve, e le fracassa,
171E l’auree rote del lor sangue tinge.
Né per timore o per desio s’abbassa,
Ma disdegnosa e nobile in sua possa
174Alteramente le sogguarda, e passa.
Fumò la terra di quel sangue rossa,
Ond’esalava abbominoso lezzo,
177E da l’ime radici ne fu scossa.
Ondeggia, crolla, e alfin si spacca, il mezzo
Apre del sen tenebricoso, e ingoja
180Quei vituperj, e parne aver ribrezzo.
Quinci acuto s’udì grido di gioja,
E quindi un fioco rimbombar di duolo,
183Simile a rugghio di Leon che moja.
S’alzò tre volte, e tre ricadde al suolo
Spossata e vinta l’Aquila grifagna,
186Ché l’arse penne ricusaro il volo.
Alfin, strisciando dietro a la campagna,
Le mozze ali e le tronche ugne, fuggio
189A gl’intimi recessi di Lamagna.
Allor prese i Tiranni un brividio,
Che gli fe’ paventar de la lor sorte,
192E mal frenato in su le gote uscio,
E gliele tinse d’un color di morte.