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NUOVI
Chi è più alto degli altri vede più, vede meglio, e vede le cose in più ampio teatro, e in maggior luce, e ne fa paragoni, confronti, combinazioni, e risultati, che non erano conosciuti. I genj adunque debbono per tutto ciò vedere, inventare, e produr nuove cosi. I poeti (i) din-.ostrano questa prerogativa in modo più raro, e maraviglioso, e a proporzione le altre arti compagne di poesia. Che diremmo noi mai, se nel vasto seno dell’aria, nei qual nulla veggiamo, alcun facesse improvviso comparirne davanti agli occhi un maestoso palagio, giardini, e fontane, e grotte, e boscaglie; se alcuno ci trasportasse improvviso dai’I.i nostra casa, o città, o dalla campagna, ove erravano i nostri sguardi su gli oggetti a noi familiari di uomini, e di negozi, di pianure, e di colli, a veder l’alto mare, e l’isole, e le tempeste, e le ( x ) Nota settima e le navi, ed i mostri, oppur a fronte a utl esercito schierato in battaglia, o in mezzo alla pugna tra il fuoco, e le grida, tra i morti, ed il sangue; non diremmo noi allora esser noi trasportati dall’autore della natura, che a tutto comanda, e tutto volge, e trasforma a talento di sua sovranità su le cose ?
Ecco però che i poeti hanno tal privilegio, e tanto rapiscono colle invenzioni, assai vincendo ogni altro studioso, e scienziato. Questi nei loro lavori, e componimenti prendono tutto d’ altronde, e debbono quanto adoprano a formare loro soggetti a chi loro hallo prestato. Ma l’arti belle, e la poesia specialmente nulla dimandano, ricche essend# assai di jse stesse, e quasi dai nulla sanno trarre per un certo modo di creazione quel, che producono, Oh mio caro, diceva un professore di Padova in filosofia parlando ad uno di beile lettere, ob voi felice, che fabbricati sul nostro compiuti edifizj d’ingegno, e siete libero creatore di quanto vi piace j mentre io non fo, che raccozzare avanzi, e rottami, sicuro ai non poter mai finire una fabbrica, o di vederla ben tosto atterrata.
La sperienza il comprova con quell’ardore, é trasporto, che noi stessi conosciamo ne’ grandi autori, e neH’anime più audaci, e più avvivate dall’entusiasmo, colle quali ci avvenga di ritrovarci. Esse mostrano veramente un bisogno continuo, e insaziabile di varietà, che è poi una serie di novità. Pajon® però capricciosi, bizzarri, incostanti, vogliono anche per questo la libertà, l’indipendenza, che abbiam veduto, e per la uniformità delle cose non meno, che per la schiavitù, e i legami Cadono in avvilimento. Ma o dentro se stesse, o anche al di fuori quest’ anime hanno sempre una forza, un’attività inquieta, per cui odiano l’ozio, e l’inazione come un male, quanto amano, ed abbisognano d’adoperarsi, di agire, di esercitare loro possanza, come un gran bene « Or le cose, gli oggetti, gli studi nuovi tengon lontan questo male, presentano questo bene, aprendo loro campo di pensare, chiamando Je loro forze a conoscere, suscitando i pensieri, e l’idee ne’ confronti, ne’ contrasti, nell’ accordo, e nella discordia delle parti incognite sino allora del nuovo ob.
biet-bierto. Aliora sente l’anima il suo valore, gode di sua possanza, e superando le difficoltà, e riuscendo all’impresa pruova il piace, re della vittoria, ed appagasi, e giubila nel trionfo.
Mi sono lasciato portar via dall’ esame di questa facoltà, perchè ella spiega se intendasi, assai cose, sparge luce su tutto il nostro argomento, e insieme fa riconoscere ad evidenza questi spiriti più vivaci, più attivi’, ed è la chiave, con cui si entra ne’più bei segreti dell’ ingegno, e dello studio, essendo per ciò che nascono que’ singolarissimi ardori, e trasporti per certe scienze, ed arti, quelle veementi passioni di studio, e di contenzione, onde tanti passan la vita beatamente nelle fatiche, nelle noje, senza speranza talor di fama, nella privazion de’ piaceri, nella mancanza de’premj, nella perdita della sanità studiando, componendo, e filosofando (i). Ognuna può scendere conquesto ( I ) Quid -vero qui ingenuis studili atqnc artibus deleElantur, nonne videmus eos ncc -jaletudinis, nec rei famitiaris habere rationem, omniaque perpeti ipsa cogitition? & scien-sto filo in mano in moltissime altre vie sa molte tracce deli’anima, e deli’ ingegno, ad ampliar questi principi al generale istinto degli uomini per nuove cose, ond’ è il vederle la prima volta sì grato, il viaggiare perciò sì piacevole, la campagna pel cittadino, ia città pel villano sì dilettevole, e a dir tutto, quel fenomeno de ia moda nel vestire, che tutti chiamano una follia, e tutti abbracciano ardentemente. Or chi non vede » che avendo i geni un’ attività, e forza d’animo più perfetta, debbono più vivamente ama.
re la novità, e adoperarsi nell’ esercizio di loro forze, e più goder quanto più costa lot la vittoria degli ostacoli superati, sgombrando le tenebre, cavandola miniera, scuotendo dagli ultimi ripostigli, e recessi ia ritrosa, e inaccessibile verità, fe immagini, Je figure, gl’ insoliti ritrovati ? Non battono adunque le vie bartute, non possono accomodarsi all’ usitato modo di pensare, non veggono coscisntia capta, & cum maxitnis curis & l.ibcribus compensare cara quarn ex discendo capiunt voluptatsm ì Cic. De finibus v. 18.
Tqmo IV. E come gli altri, spesso non parlano, come gli altri, adorano la novità, perchè a quella sono spinti, ed urtati dal lor bisogno, e dal sapere, che questa sola !i guida al naturale loro scopo, al mirabile, ed al sorprendente fuori deli’ uso volgare.
Da ciò vien talora, che dan nel falso, e nell’enorme, cadono ne! fanatico, e producono rivoluzioni nelle lettere, e nelle arti per tentar nuove vie, per allontanarsi dalla consuetudine, e per distinguersi sopra gli altri eziandio. Così il Marini in poesia, così Borromini in architettura, e Caravaggio in pittura, per tacere di Seneca, di Lucano, di Falereo, i quali appunto o saz;, o sdegnosi del bellone del buono già divenuro ne’tempi a lor precedenti comune, ed anelando alla novità furon tratti ad esagerare, e a dar ia eccessi. E per analogia citar si possono gli esempli anche fuori delle bell’ arti, onde se son guerrieri, come Carlo XII., se politici, come Alberoni, mettono a rischio le monarchie, se capi d5 una famiglia, come tanti a noi noti, disordinai! 1’ economia, se maestri di popoli, dan nell’errore, e nell’ anarchia.
Non-Nondimeno il più spesso trovano nella novità i genj dell’ arti le bellezze, e i piacer nuovi, e coll’incanto della sorpresa fan le delizie dell’ età loro, e dei posteri nelle lor Opere, giacche quel bisogno di nuove cose, che li fece inventori, e creatori è proprio ancor di legge, e così esercita la sua forza ed attività scoprendo, cercando, gustando le incognite cose, e i pensieri, che a lui son tratto tratto posti davanti: siccome il tedio e la sazietà delle cose, e pensieri venuti già famigliari per l’uso spingon chi legge dietro a tai novatori: onde Lucano, Marini,’ e tant* altri furon seguiti dal loro secolo avidamente.
Per tal pregio delle nuove invenzioni i geli; son quelli, che amplificano i confini dell’ arti e ancor delle scienze. Un solo di questi vai più che tutte I* accademie, e le scuole, più che il popolo degli artisti, e degli studiosi. Egli crea colla sua forza, va al profondo, e cava, vola al sublime, ed inventa, e dai fondamenti innalza un edifizio tutto suo.
Gli altri stanno alla superficie, e a forza di stendere in largo le cognizioni, facendole a mol-molti dimestiche, si sta sul sentiero battuto, e mai non giugnesi alia miniera. Indi viene la decadenza, perchè tutto è uniforme, copiato, e ripetuto, e quindi languido, ed ozioso, e servile, e giugnesi infine a spegnere il seme de’geni medesimi, mancando occasioni, e scuotimenti da farli ripullulare.
Abbia m veduto in pi’u tempi dominar tanto i libri de’compilatori, de: corner.latori, de-’ gl’imitatori, le storie, le poesie, le oratorie inanimate, e tutte le scienze di scuola, cioè d’imitazione, e di greggia, che fu riputata temerità il tentar nuove strade, e allor sl vide, che a’genj tocca l’impresa di trionfar colla novità, o che almeno le lcr opere antiche si tracgon fuori, come depositarie dell’ arti, e delle scienze a riformare gli abusi, a scuotere dal letargo con novità benché antica.
Basti quel, che s’è detto della necessità di viaggiare per veder molto, e molto di nuovo inventare. Qui ( i ) solo aggiungo potersi ( j ) Nota ottava.
si trovar novità viaggiando ntU’ arti, e neiie lettere italiane, ove son forse paesi ancora Incogniti, o mal conosciuti. Egli è un lamento comune esser già tutti occupati i campi di poesia, oltre a quello più trito delia decadenza di lei per l5abuso di tutte l’immagini, e le fivole, e le allusioni o eroiche, o pastorali, o amorose, o lugubri del nostro parnaso. E certamente da Omero insiao a noi, o anche solo da Ovidio i Cupidi e le Veneri, i cavalli del Sole; e quei ci Bellerofonte, tutte le grazie gentili d’Anacreonte, tutte le semplici di Teocrito, e di Virgilio, ogni frase, per dir così, ed ogni sospiro tenero del Petrarca son volgari oggimai, e quindi imitate riescono insulse cose per difetto di novità. Ma parmi iu Italia rimaner qualche luogo a qualche invenzione, seppur non sia scandalo, e temerità il sol dubitare, che non abbiamo in ogni genere esemplari eccellenti, e perfetti. Ma siccome possiam vantarci d’un Petrarca, e d’un Chiabrera, per dir solo i capi nella lirica, d’Ariosto, e di Tasso nell’epica, d’altri nella pastorale, nel bernesco, e ne’sonetti così po-jpotrebbesi sospettare avervi luogo ancora agl’ inventori nella tragica, nella comica, nella satirica, e parlando de’ gen; in generale n averne a chiari storici, ad utili romanzieri, a morali filosofi, e politici egregi. N°n §*à, che in tutto manchiamo di tali autori, e de-, gni ancora di molto pregio, ma questi sono il più delle volte 0 per lo stile snervato, o per la lingua antica, o per la lunghezza, e prolissità, 0 per poca critica, e molta parzialità disgustosi, oltre all’essere molti mal conosciuti per rare stampe, o per troppo lenta comunicazione tra noi della letteratura ne’ paesi italiani. E fu credo perciò, che un dotto bibliotecario romano a questi anni trovossi a duro passo, dimandandogli certo signore straniero, quai fossero veramente i Plutarchi, e i Senofonti, il Tito Livio, ed il Tacito dell’Italia, e giugnendo a provocarlo per fino di mostrargli un Timeo, delle Tusculane, o qualche almeno Ciropedia, qualche in fin morale, e filosofica, e diiicata insieme, e profonda opera di Luciano degna, o di Aristofonte, come erano degni d’Aristotile, e di Platone i dialoghi di Galileo, Ma ( 1 ). Ma tenendomi alla poesia ripeterò, che siccome a’ dì nostri un sol uomo ci ha creato un teatro drammatico, il qual non solo in Italia, ma nell’Europa è riconosciuto per classico, possiamo così avere de’Metastasi, e de’Zeni in qualch’altra carriera, e nella scenica ancora, quantunque eccellenti tragedie, e commedie non abbiamo a desiderare. Abbiam noi per anco un Orazio, un Per( 1 ) Non erano ancora usciti in luce i dialoghi del signor Francesco Zanotti sopra le materie più astruse, nè quelli del signor conre Algarotti sopra la luce e i colori, quando così parlò il bibliotecario. Quanto agli storici io son del parere del signor conte Paradisi, che rra gli storici veneti, e fiorentini può trovarsi alcun degno di gareggiar cogli antichi. Ma per essere ottimo storico, ei mi dicea, ci voglion due cose, e l’ingegno di chi scrive, e la grandezza de’ fatti, che s’hanno a raccontare; e se i nostri italiani avessero scritto la storia generale d’Italia, come han fatto la loro particolare, potrebbono a quei pareggiarsi. Al qual proposito io vieppiù lo stimolava a compiere il suo nobil lavoro in tal genere. Usciti poi sono in luce i Foscarini, ; Denina, i Tiraboschi, ed altri tali.
E 4 Persio, un Giovenale, quantunque satire belle non manchino, seppur questo gusto potrà mai regnare senza pericolo ? Ma basterà questo poco in una materia, di cui potrà farsi altrove minuto esame, nominando 1’-opere, a e gli scrittori secondo lor classi, lor pregi,, loro diffetti, affin di provare quai nobili ten-; tativi ci restano a poter fare, e di cui noni pub farsi per ora impunemente neppur qualche cenno, benché sol per giovare alle lettere; olrracchè non appartien veramente que- Jj st’invenzione al nostro trattato, e pub dirsi; andar noi fuor di strada.
Tornandoci adunque, io non posso tener-{) mi dal deplorare la perdita, e inutilità dir tanti geni italiani per colpa dell’ imitazione servile de’loro esemplari, la quale è Toppo-’ sito dell’invenzione, e novità. Si pub fare una libreria di molti poeti d’ un secolo ( per.
‘ parlare di questi ), i quali non fanno, che «na perpetua repetizione di frasi, ed imma--, gini, e di componimenti l’uno a gara delT, altro, come lo Scaligero il rimproverava al Poritano. Togliete ai lirici le róse, e i gigli, l’aura calda de’ lor sospiri, i capei d’oro, l’amor I’ air;or platonico in somma, e I* idee del Petrarca, nulla resta di poesia. Bandite dagli epici quegl’ insolenti giganti, o paladini, che rapiscono l’eroine su! punto delle lor nozze, o le ripigliano ai rapitori, spogliate costoro di quelle armadure fatate, prendete quc’loro» anelli, e fate svanire i castelli incantati, voi fate svanire ad un tempo otto o dieci poemi dei nostro parnaso, anzi tutro il parnaso d’un secolo svanirà, se gli abitatori, e le avventure introdottevi ne scacciate, poiché fu ridotto ad essere un tempo non altro che bosco selvaggio con un romito da un canto, ua lumicino da lungi, de’duelli qua, e lì, degl’ incantesimi, e delle streghe per entro alle grotte, ed all’ ombre, con qualche naufragio in lontananza, e qualche battaglia, clic mai non finisce. A ramo misera condizione venuto era l’albergo di Febo, e delle Muse, d’Omero, d’Esiodo, e di rant’altri geni sovrani; nè so se agiati vi siano anc’ oggi tra il perpetuo cantar delle lauree, e delle nozze italiane, che certo non aprono campo a nuove invenzioni, ed a mirabile poesia. Ma per non esser prolisso darò l’ultima mano all’ all’argomento in una nota (i). E qui pur distinguo per più chiarezza i nuovi dai mirabili.