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Rettamente a me pare,2 Cosimo carissimo, che faccian quei prudenti pittori, li quali avanti che del tutto finischin l’opere loro, se le tolgono dalla vista per qualche tempo, acciocchè l’occhio per quello intervallo perdendo l’assidua consuetudine del veder quella pittura, e dipoi tornando novellamente a rivederla, meglio e più drittamente ne giudichi, ed in essa conosca i difetti, i quali forse gli avrebbe celati la continua familiarità. Ma perciocchè non è possibile che l’uomo se stesso da sè stesso separi, o il senso proprio lontani da sè, da questo nasce per la continua familiarità di sè medesimo, ciascuno di sè proprio divenga ingiusto giudice più che d’altrui; perciò questo rimedio ne resta a conoscere li nostri difetti, che gli amici l’un l’altro considerino, e l’uno all’altro si tornino a mostrare, non per aver indizio se più o meno alcuno sia macchiato, o più robusto, o più debole si trovi di corpo, ma l’esamina si faccia de’ costumi e del modo della vita, o se ’l tempo avrà in alcuno augumentato virtù, o in parte menomato, o del tutto estirpato qualche vizio. Il che ho detto a questo proposito, perciocchè essendo io questo anno ritornato in Roma, e dimorato teco alquanti mesi, non ho giudicato tanto degno di ammirazione il grande accrescimento di ricchezze fatto con la tua singulare industria, nel tempo che da te sono stato lontano, quanto reputo ben degno di maraviglia grandissima il veder quella tua già così facile infiammazione all’ira, esser da te con ragione tanto intepidita e mansuefatta, che per lo piacere che io ne sento mi giova di dire: O iracundia, quanto sei fatta piacevole! E non già che tanta piacevolezza d’animo abbia in te generato pigrizia o tardezza, ma ad uso del buon campo una benigna e mansueta conversazione halla in te conceputa e produtta; onde manifestamente si vede che ’l furore e la subitezza dell’ira non invecchia con l’etade, nè volontariamente s’ammorza, ma con certi ottimi discorsi ragionevoli si può te solamente sanare. E se bene Luigi, amico nostro, mi aveva prima narrato quel che di te, e con molta verità di tua laude si diceva; nondimeno dubitava che ingannato dalla affezione che ti porta, non di quello che in te rilucesse, ma di quanto rilucere dovrebbe in ogni uom virtuoso e nobile, facesse di te testimonio. Perchè, come tu hai ben conosciuto, io non son tanto credulo, che a compiacenzia d’alcuno traportar mi lasci dall’opinione, ma ora nel vero io l’assolvo da ogni dubbio di falsità, e ti prego che ti sia in piacere volermi contar con uso di qual medicina tu abbia a te stesso quella già tua subitezza d’ira ridotta, e avvezza tanto obbediente e mansueta, e così sottoposta alla ragione.
Cosimo Io giudico, Niccolò mio dilettissimo, che tu debba molto bene, e con molta attenzione avvertire, che da troppa benivolenzia, e dalla nostra singulare amicizia non sii ingannato, in maniera che li difetti miei non t’appariscano; conciossiachè l’amore, il quale non sa tenersi dentro a i termini, mi ti fa forse parere più mansueto assai di quel ch’io sono, ed ancora dei avvertire, che quantunque le corde poste ne i musici strumenti, apparischin talvolta tutte pari, tuttavia le voci loro son varie, e diversamente suonano da quello che appare.
Niccolò Non è così certo, ti dico, perciò ti prego che per amor mio non falli narrarmi quanto io t’ho detto.
Cosimo Or oltre adunque. Intra gli egregi detti di . . . per quanto io mi ricordo, si ritrova questo, esser necessario a coloro, che d’esser curati desiderano, attender sempre alla sanità; ma non per ciò intendo io già che un prudente medico debba ad uso dello ... in guisa curar l’infermo, che ad un medesimo tempo gli lo privi della ragione e della infirmità, ma si dee ingegnare di mantenerlo in buono intelletto, acciocchè quelle cose che son buone, possa giudicare e discorrere, e cognosciute, osservarle, perchè la virtù della ragione non è simile alle medicine, ma più tosto a’ cibi sani, la quale pianamente e con l’uso, genera in noi uno abito condecente e temperato; ma quando le passioni dell’animo riscaldano e gonfiano, poco giovano gli ammonimenti ed esortazioni delli amici, ma son simili alli odori, che posti a quelli, che cascano del male regio, solamente gli eccitano, ma di quello non li guariscono, e tutte quante le altre passioni ancora che di ogni tempo ci perturbino l’animo, non per ciò intanto scacciano la ragione che gli ne serrin le orecchie, anzi quella di fuori accettando, la intromettono dentro ne i più riposti segreti dell’animo; ma l’ira, come disse Melanzio, non ci fa gran danno, quando in principio ne perturba la mente, ma quella della mente noi stessi discaccia ed esclude a simiglianza di quelli che la loro propria casa, e in quella se stessi abbruciando, confondono insieme fumo, strepito e ruina, in maniera che si privan di vedere, o udire cosa alcuna, per come, o donde ajutar si possano. Quinci nasce, che più tosto una nave agitata e combattuta dalla fortuna e dal mare, accetterà per governatore uno nocchiero, che l’uomo accetti alcuna ragione, ogni volta che l’animo è agitato e forte perturbato dall’ira, se già prima ed innanzi non si sarà preparata ed instrutta una particulare avvertenza ed antiveduto discorso; perciocchè sì come quelli che aspettano l’assedio, e che delle speranze di fuori privi si trovano, si vanno preparando in ristrignere e riporre tutte le cose a loro utili; così ancora contro li assalti dell’ira si conviene dalla filosofia chiamare di lontano per al bisogno preparare e riporre li ajuti dell’animo, perchè sì facilmente perturbare non si lasci, conciossiachè quando poi l’animo si trova forte acceso, non accetta e non ode, per lo tumulto grande, alcuna cosa di fuori, se dentro non si trova la propria ragione, la quale riposta nel secreto silenzio di quello, tosto spenga il furore, riducendo alla memoria tutti gli salutiferi precetti contro a tale travaglio, perciò che l’uomo acceso in ira disprezza quelle cose che piacevoli e mansuete gli son dette di fuori, e con cui lo ammonisce, o che forte lo riprende, via più s’adira. Essendo adunque l’ira un peccato arrogante e contumace e ch’è simile ad un gagliardo tiranno, non vuole esser ripreso da altrui: per ciò aver gli bisogna un qualche familiare e propinquo remedio che mitighi ed estingua l’incendio; avvenga che la spessa ed assidua accensione genera nell’animo nostro uno abito malvagio chiamato iracundia la quale finalmente si conduce e termina in bestialità, in amaritudine e in somma difficultà quando per ogni piccola cosa s’avvezza l’uomo sdegnarsi, inritrosirsi e commoversi ad ira, sì come il ferro tenero e sottile facilmente si rompe, con quello assiduamente cavando la terra: ma se il retto indizio resiste all’ira subito e quella ribatte, non solamente per allora medica l’animo, ma eziandio lo fa diventare più costante in futuro, e dalle proprie passioni più libero. E certo a me intervenne come alli Tebani (poscia che due o tre fiate cominciai a resistere) i quali avendo una sol volta ributtati i Lacedemoni, che in quel tempo eran da tutti insuperabili reputati, dipoi non poterono esser vinti giammai; per ciò che io aveva imparato i prudenti rimedj, con i quali la ragione far si potesse superiore, ed inoltre mi accorsi che non solo con lasciar raffreddare l’ira, ma eziam con alcuno timore sopravvenente si può l’ira discacciare, come dice Aristotile, e non meno ancora da qualche gioja cognobbi, come dice Omero, mitigarsi l’ira di molti e convertirsi in letizia; in maniera che io sono d’opinione che le passioni dell’ira non siano però del tutto incurabili a cui vuole pur farli qualche difesa. Avvenga che non sempre sieno i principj di qiella grandi e violenti, ma nascono il più da motti, cenni e parole, come fu quello d’Elena, la quale salutando Elettra sua nipote, che, l’età fanciullesca già passando, si ritrovava ancora senza marito, le disse: Gran tempo è che io vergine ti conobbi. Ed ella sdegnata di cotali parole, le rispose: Tu bene non te ne ricordi, perciocchè allora a cognoscer m’incominciasti, quando, dal tuo sposo con vergogna fuggendoti, abbandonasti la tua propria casa. E come Callistene similmente disse ad Alessandro, quando nel convito mandava attorno quella gran tazza di vino perchè ciascuno beesse: Io non voglio, Alessandro, in guisa bere ch’egli mi faccia mestiere l’ajuto d’Esculapio. E siccome la paglia o fieno acceso dalla fiamma facilmente s’estingue, ma s’ella s’appicca ne’ legni grossi, o che si lasci scorrere, tosto consuma ed abbrucia ogni cosa; così se alcuno nel principio terrà salda la mente, quando sentirà li primi movimenti dell’ira, e che egli si va riscaldando di parole immodeste, non gli sarà molta fatica a reprimerla, ma ben spesso, tacendo, la potrà estinguere o con farne poca stima; perciocchè levando la materia al fuoco, per sè stesso si spegne. E sopra questo pensando io non approvo l’opinione di Ieronimo, come che nell’altre cose bene e drittamente discorra, dove dice che il senso dell’ira non nasce quand’ella comincia a riscaldare, ma che prima era nata nell’uomo per sua gran velocità; perciò che a me pare, come dice Omero, che niuna altra passione dell’animo abbia sì tosto e subito nascimento, come questa dell’ira. E Achille a tal proposito descrive e induce subito per isdegno cader della ragione, e Agamennone finge tardamente adirarsi, ma multiplicando in parole, finalmente precipitarsi nell’ira, le quali parole, se nel principio avessi moderate e fuggite, non sarebbe in tale incendio transcorso; onde che Socrate, ogni volta ch’incontra alcuno si sentiva da ira commovere, usava tosto stabilir la mente contro alla futura tempesta, perciò che incontanente bassava la voce, rallegrava la faccia, mostravasi più lieto nello aspetto, e così finalmente sentendosi da quella passione sforzare, si afforzificava in contrario, onde si conservava costante, e diveniva al tutto insuperabile. E nel vero, Niccolò mio, quello sottrarsi dal principio dell’ira, non è altro che liberarsi da un pessimo tiranno che quietar non ti lasci, ma or gridando, minacciando, ed ora gli occhi e il viso stravolgendo, e battendo le mani, ti faccia a ciascuno tenere spiacevole o ridiculo; perciò nel principio suo dee l’uomo accostarsi alla tranquillità, e fuggire quella furia. Hanno certo le passioni degli amanti qualche termine piacevole, e non senza ingegno, come cantare, sonare, ed alla loro innamorata far balli e mattinate; e se avviene che alcuno cyn lei si ritrovi non vi sente dolore, e se pure tal fiata li accade sospirare o piangere, è da lei consolato e levatoli parte del duolo; ma questa pessima passione dell’ira quanto è più lusingata quanto più è persuasa quando si trova accesa, tanto più si rende villana, e più offende. Ottimo è adunque trovarsi ben gagliardo a risistere, e non sentendosi forte, tosto fuggire e ritirarsi in porto, sì come quelli fanno che assaliti dal male caduco, tosto che il sentono venire, ad alcuna cosa s’appoggiano per non cader con pericolo. Orribile passione è questa dell’ira per certo intra tutte l’altre dell’animo perciocchè la passione d’amore non ci sforza ad amare ogni uomo. L’invidia non ci fa portar odio a ciascuno, e così il timore non ci fa temere tutti, ma l’ira non risguarda grado alcuno, anzi sempre sta pronta per offendere, avvenga che ella si volta alli amici, a’ nimici, a’ parenti, a’ figliuoli, e bene spesso ancora ci adiriamo con gli Dii; e quel che è più follia, con le bestie, e con le cose insensate, come si narra di Tamira, che adirato col suo corno d’oro, lo ruppe, e se non era impedito spezzava ancora l’arco. E Serse adirato col mare, lo fece battere; e al monte Ato mandò una lettera in cotal guisa, minacciandolo: Fa’ di non esser difficile a lasciar trarre di te le pietre per l’opera mia; il che se non farai, tagliandoti d’intorno, ti farò gittare in mare. Sì che dell’azioni dell’ira molte ne sono spaventose e terribili, e molte ne sono ancora da ridersene; là onde ne accade che questa, più d’ogni altra passione dell’animo è sempre temuta o derisa; le quali due cose per certo sono da essere grandemente fuggite. Giudico adunque, se non me ne inganno, che la prima medicina, la quale usar devemo a questa infermità, debba essere che con molta diligenzia da noi si consideri cliente sia l’ira, e quali effetti faccia negli altri uomini allora che da quella si trovano soverchiati ed oppressi. E conciossiachè Ipocrate disse, quella infermità apparire molto pericolosa, la quale nell’infermo fa mutazione d’effigie; perciò quando io penso, anzi veggendo considero trasfigurarsi qualche uomo per la violenza dell’ira, cambiare la vista, il colore, l’andare, la voce, e tutto lo rimanente del corpo transformare in guisa, che io dico meco medesimo: O se per mia sventura qualche malvagia infermità mi facesse in quella forma divenire, quanto mi saria nojoso e spiacevole, dovendo esser veduto tale dalli amici, dalla moglie e da’ figliuoli, alli quali non solamente sì laido apparirei, ma udirebbero eziamdio uscir da me grida feroci ed aspre, le quali in un altro molto vitupererei, veggendolo intra li amici e compagni, non servare alcun modo, o grazia di presenzia di parlare e di costumi. Onde se m’accadessi d’aver a correggere alcuno, il quale fusse da tal passione combattuto, io userei, come fanno i barbieri a quelli che essi hanno lavati e puliti, di por loro avanti alli occhi uno specchio tantosto che io il vedessi ben infiammato nell’ira, perciò che veggendo sè stesso non pur nell’animo, ma eziam nel corpo sì fieramente transformato, gli sarebbe gran rimedio a tale insania. Avvenga che da’ Poeti è narrato, che Pallade sonando la zampogna, fu da un Satiro ripresa, dicendo: Lascia la zampogna e prendi l’arme che a te s’appartengono, perciò che quella, deforme e laida ti mostra. Ed ella non attendendo al parlar suo, finalmente poscia sopra un fiume sonando, si vide sì brutta per lo gonfiar delle gote e della bocca, che gettò via la zampogna, nè mai più volle sonare. Quando il mare è perturbato da’ venti, e che egli getta la aliga alle rive, allora si dice ch’egli si netta e purga; ma quando l’animo si commove ad ira, come ch’egli mandi fuora sconce parole, amare e villane, non per ciò si purga, anzi più sè stesso macchia e riempie d’infamia, come che quelle, quasi per natura in sè, abbi preparato e se ne trovi sì ripieno, che riscaldato d’ira, fuori le getti. Il per che, come disse Platone, per una cosa frivola e leggiera, cioè per parole, sopportan pena grandissima quelli che hanno la lingua facile a dir male e ingiuriare altrui di parole, e sono di perversi costumi. Quando io veggo queste cose, e diligentemente l’osservo, allora soglio meco stesso considerare che quel medesimo che nella febbre è tenuto buon segno, sia migliore assai nel difetto dell’ira, cioè se l’iracundo abbia la lingua trattabile e netta. Se ne’ febbricitanti la lingua non appare con le sue qualità naturali, quello non è Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/626 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/627 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/628 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/629 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/630 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/631 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/632 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/633 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/634 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/635 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/636 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/637 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/638 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/639 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/640 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/641 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/642 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/643 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/644 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/645 Pagina:Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1824).djvu/646
- ↑ La varia erudizione ed il fiorito stile di questo pregevole Dialogo lasciano trasparire la gioventù dell’Autore, il quale probabilmente lo scrisse circa l’anno 1504
- ↑ Cosimo Rucellai, giovane di grandissima aspettazione ed amicissimo dell’Autore, il quale ne pianse teneramente l’immatura morte nell’introduzione al Dialogo dell’Arte della Guerra, in cui lo fa entrare come uno degl’interlocutori. Ad esso pure indirizzò i Discorsi sopra Tito Livio. Il Machiavelli frequentava i celebri Orti Rucellai, insieme con Luigi Alamanni, nominato più sotto, ed altri dotti e fedeli Amici, ove si trattenevano in filosofici ragionamenti.