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DELLA COLTIVAZIONE
LIBRO PRIMO.
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Che deggia, quando il Sol rallunga il giorno,
Oprar il buon cultor nei campi suoi;
Quel che deggia l’estate, e quel che poscia
Al pomifero autunno, al freddo verno;
Come rida il giardin d’ogni stagione;
Quai sieno i miglior dì, quali i più rei;
O magnanimo Re, cantare intendo,
Se fia voler del Ciel. Voi, dotte Suore,
Lontan lasciando d’Elicone il fonte,
10Non v’incresca a venir quì dov’infiora
Lari e Duranza le campagne intorno.
Vengan lieti con voi l’antica Madre,
Della spiga inventrice; e quel che primo
Di sì dolce liquor la sete indusse:
Il cornuto Pastor co’ suoi Selvani,
Co’ suoi Satiri e Fauni a lui compagni,
Vengan colle zampogne a schiera a schiera:
Venga l’altera Dea c'al mondo diede
Già coll’asta fatal l’etern'uliva:
20Venga il possente Dio che seco a pruova
Il feroce corsier col suo tridente
Produsse in terra; e minaccioso e torvo,
Il barbato Guardian degli orti ameni
Non resti indietro, perch’io possa alquanto
Dei cortesi suoi don parlar con lui.
Voi, famoso Signor, cui solo adora
Il gallico terren; sotto il cui regno
Quanto è verace onor s’à fatto nido;
Deh porgete al mio dir sì larga äita,
30Ch’io possa raccontar del pio villano
L’arte, l’opre, gl’ingegni e le stagioni:
Che dovreste saver per pruova omai,
Che dal favor di voi, non d’altri, puote
Nascer virtù che per le tosche rive
Or mi faccia seguir con degno piede
Il chiaro Mantovan, l’antico Ascreo;
E mostrar il cammin c'ascoso giace.
Tosto ch’il ciel, tutti i rabbiosi venti
Discacciando da sè, Zeffiro accoglie
40A distrugger fra noi la neve e ’l ghiaccio,
Esca il coltivator del chiuso albergo,
E d’ogn’intorno visitando vada
Tutto il terren c’alla sua cura è dato;
E con riguardo pio l’orrende piaghe
Cerchi, ch’il tempo rio, la pioggia, il vento
Alle piante, alle fosse, ai loro angusti
Argini han fatte; e gli sovvenga allora,
Che bench’ai miglior dì s’arrenda il verno,
Nulla è stagion dove sì spesso adopre
50L’umido suo valor l’austro, ch’il cielo
Delle nubi affricane ingombra e bagna.
Né pur ei sol, ma di favonio il fiato
Tepido e dolce dispogliando in alto
Del suo nevoso vel l’alpi canute,
55Fan sì ricco il terren d’onde novelle,
Che l’erboso ruscello, il picciol rio,
Il pietroso torrente, il fiume altero,
Dispregiando ogni legge, ardito cerca
Di tor dal corso suo l’antico freno:
60Onde chi pigro vien, sovente piange;
Ché un picciol varco ch’al buon tempo puote
Chiuder poco terren con breve fascio,
Cotal poscia divien, ch’ivi entro passa
Quant’acqua scende, e gli depreda i campi;
65E con danno mortal di tempo e d’opre,
Al suo primo sentier lo torna appena.
Dunque al principio suo con terra e pietre,
Con nodosi virgulti e legni aguti
Serri tutto all’intorno, ove esso veggia
70Nuovamente passar l’invitto umore.
L’arbor che sovr’un colle o in piaggia assiede,
Ben cerchi e guardi; e se da quella il senta
Ch’alle radici sue sostenga oltraggio,
Con poca riga che più in alto muova,
75La svolga altronde; o lui circonde in giro,
A guisa di castel, di sterpi e sassi.
Ma perch’il tempo, allor piovoso e molle,
Pur il tutto compir forse contende;
Basti principio dar con forma tale,
80Che non venga infinito il danno avuto;
Finché l’altra stagion più secca e calda,
Torni ai bisogni altrui più fida aita.
Indi volga il pensier coll’opra insieme
Intorno ai prati ch’il passato verno
85Aperti, in abbandon, negletti furo,
Agli armenti, ad ogni uom pastura e preda.
Quei con fossi talor, talor circondi
Con pali e siepi: o se n’avesse il loco,
Può di sassi compor muraglie e schermi;
90Talché il rozzo pastor, la greggia ingorda
E col morso e col piè non taglie e prema
La novella virtù ch’all’erbe infonde
Con soave liquor la terra e ’l cielo.
Poi quinci e quindi, ove mancar si veggia
95Il notritivo umor, non prenda a sdegno
Colle sue propie man di lordo fimo
Satollar sì, che vive forze prenda.
Il più novel che nella mandra truove.
Quello a ciò fia miglior: ma d’alta parte
100
Di monte in monte lo distenda in basso,
Perch’il fetido odor più passe addentro;
E ciò far si convien qualor più fugga
Delia dal suo fratel, crescendo il lume.
E sappia pur ciascun, che l’erbe e i fieni
105Son che fan ricche le campagne e i colli;
E chi nol pensa, al primo verno scorge
Stanco e ’nfermo giacer l’amato tauro,
Che fra le nevi e ’l ciel vagando il giorno
Non può tanto trovar di frondi e giunchi
110Ch’in vita il tenga, e poi la notte vede,
Colpa del suo signor, la mandra nuda;
E tal in breve andar magrezza sente,
Ch’in piè sta appena, e tra ’l digiuno e ’l freddo
Non ha spazio a veder distrutto il ghiaccio.
115Il misero bifolco al tempo eletto,
Tardi avveduto, lagrimando mira
L’altrui campo vicin solcato e lieto,
Il suo vedovo e sol; l’aratro e ’l giogo
Starsi, lassi! lontan negletti e sparti:
120Né può trovar alcun, per preghi o pianti,
Che del giovenco suo gli sia cortese;
Ché chi ’l seppe nodrir, per sé l’adopra
Quinci i prati lassando, a i campi e i colli
Rivolga il passo; e sotto il fascio antico
125Il mansueto bue riponga il collo;
E già senta il terren (ché n’è ben tempo)
Del suo vomer novel la prima piaga.
Avanti a tutti, il pio bifolco truove
Il più grasso terren che meno abbonde
130D’umor soverchio; il vago colle umìle,
La piaggia aprica che più guarde il sole,
Il secco monte: ma l’acquosa valle,
Finché più caldo sol non vesta il Tauro,
Non senta oltraggio: e nel terren più leve,
135Sia raro e basso; e nel più vivo e lieto,
Spesso e profondo sia menato il solco;
Perché l’erbe peggior che in questo sono,
Mostrando al ciel le sue radici aperte,
Restin sepolte, e che nell’altro poi
140La sua poca virtù non resti spenta.
Sia dritto e largo, e di lunghezza avanze
Poco oltra più che cento volte un piede.
Ove in alto pendente il campo stia,
Meni a traverso pur l’aratro e i buoi;
145Perché se l’onda poi, che scorre in basso,
Scender trovasse alle sue voglie il rigo,
Rapidamente, oimè! donna e regina,
La sementa e ’l terren trarrebbe al fiume.
Ma guardi prima ben (ché troppo nuoce,
150Né lo puon ristorar fatica o tempo)
Che non tocchi il suo campo, o ferro adopre,
Se troppo il senta dalla pioggia oppresso;
Perché tal diverria (creda a chi ’l prova)
Che render non poria di seme il frutto.
155E se dopo gran sete asciutto e stanco,
Sia da nube leggier di sopra asperso;
O misero cultor! sia lunge allora,
Sia lunge allor da lui l’aratro e ’l bue;
Perché, solcato sol, tal rabbia e sdegno
160Prende col suo signor, ch’all’anno terzo
Non si degna mostrar le spighe appena.
Ma se ’l vomero tuo, la terra aprendo,
Netto e lucido vien qual puro argento;
Lieto e sicuro allor, doppiando l’opre,
165Segui l’util lavor; ch’al tempo amato
Fian la speme e ’l desio dal frutto vinte.
Or prendendo il villan (ché l’ora è giunta)
Dal chiuso albergo, e la famiglia insieme,
I semplici legumi, e l’altre biade
170Che nel felice agosto in seme scelse;
Cerer chiamando e chi dei campi ha cura,
Alle fatiche sue larga mercede;
Già commetta al terren la sua sementa.
Sian la fava pallente, il cece altero,
175Il crescente pisel, l’umil fagiolo,
La ventosa cicerchia in parte dove
Senza soverchio umor felice e lieto
Trovin l’albergo lor: la lente pure
Dello steril sentir non è sì schiva.
180Venghin dopo costor l’orzo e l’avena:
Ma ponga cura in ciò, ché questa suole
Vie più danno portar, seccando i campi,
Al non saggio arator, che spighe e strame;
Come la spelda ancor, ch’a lei s’agguaglia:
185Ma il magro monticel ch’inutil vegna
Ad ogni altro valor, per loro elegga.
Né men crudel ancor si sente il lino
A chi ’l riceve in sen: ma tal è l’uso,
Ch’io consiglio ciascun, ch’a forza il brami,
190E che seggio gli dia purgato e grasso;
Che non avendo ciò, sì basso e frale
Vien poscia e ’nfermo, che la fida sposa,
Le caste figlie sue vedrà piangenti
Aver al più gran giel la fronte aperta,
195E nel più sacro dì la mensa e ’l letto
Senza candido vel negletti e nudi.
La vermiglia saggina, il bianco miglio,
Il panico sottil, d’uccei rapina,
Lungo il chiaro ruscel, vicino al fonte
200Onde distille umor, la sede agogna:
E rivien da costor sì larga prole,
Ch’un poco seme gran ricolta ingombra.
Non basti al buon villan la sua sementa
Sparger nei campi, e leggermente poi
205Parte coprirne, e ritrovar l’albergo:
Ma la sposa, il fratel, le figlie insieme,
Colle sue marre in man, non lunge sieno
Al buon bifolco; e rinettando i solchi,
E tritando le zolle, ascondin tutto,
210Con aguto cercar, che sopra appare:
E gli sovvenga pur, ch’intenti stanno
Il loquace fringuel, l’astuta e vaga
Passera audace, il calderugio ornato,
Il colombo gentil, l’esterno grue,
215E con mill’altri poi l’ingorda pica,
L’importuna cornice, il corvo impuro,
Che non trovando allor più degno cibo,
Pur si dànno a furar l’altrui fatiche.
Dunque di veste vil, di pelli oscure,
220Di piume e di baston componga in giro
A’ seminati campi orrende facce
Di tirannico uccel, di fera e d’uomo
Ch’in disusato suon rotando al vento,
Spavente i predator dai danni suoi.
225Quinci levato al ciel, con voti e preghi
Chiami la pioggia, perch’il verno possa,
Ov’al bisogno suo fallisse il grano,
Non lunge al foco, senza affanno e cura
Che gli presti il vicin quel ch’ha d’avanzo,
230Di tai frutti nutrir la sua famiglia.
Ma non deve obliar ch’il suo terreno
(Quantunque grasso) del soverchio peso,
Com’ogni altro mortal, troppo s’affanna;
E che riprende in sen forza e ristoro
235D’
aver pace d’altrui d’un anno almeno,
E d’avuta pietà non torna ingrato.
Pur chi avaro pensiero o povertade
Sproni al troppo bramar, suggetto mute;
Perch’il cibo cangiar risveglia il gusto.
240Ove il tristo lupino o l’umil veccia
Féro a’ venti tenor coi secchi rami;
Più con la vanga in man che coll’aratro,
La qual più muove addentro e più rinnova
La stanca terra, e più bramata viene
245A gli amici legumi e molte biade,
Può l’altr’anno versar vari altri semi,
E del frumento ancor, sol che non lasce
O di cenere immonda o di letame
Porgergli aita, o far al tempo poi
250L’aride stoppie sue di Vulcan preda,
Che per mille cagion più beni apporta;
E sovente opra sì, che s’il buon campo
Trova al suo desiar benigno il cielo,
Tanto felici e belle alza le biade,
255Che nel tempo novel menar conviene
La pecora e l’agnel che col pio morso
Loro affreni talor l’aperto orgoglio.
Pensi appresso fra sé, ch’al gran cultore
Nei bei giorni miglior non basta sola
260La sementa, il zappar, solcar la terra;
Ma che le vigne ancor, le piante e i frutti,
Già fuggendosi il giel, chiaman da lunge
Dolce soccorso, promettendo in breve
Al suo buon curator premio e ricchezza.
265Non ci rimena il sol sì bella e chiara
La fiorita stagion, perché poi deggia
Il discreto villan passarla indarno.
Alma Ciprigna Dea, lucente stella,
De’ mortai, degli Dei vita e diletto;
270Tu fai l’aer seren, tu queti il mare,
Tu dài frutto al terren, tu liete e gai
Fai le fere e gli augei; che dal tuo raggio,
Tutto quel ch’è fra noi, raddoppia il parto.
Al tuo santo apparir, la nebbia e ’l vento
275Parton veloci, e le campagne e i colli
Veston nuovi color di fiori e d’erbe;
Tornan d’argento i ruscelletti e i fiumi:
Dal tuo sacro favor le piume spiega
Zeffiro intorno, e gli amorosi spirti,
280Ovunque teco vien, soave infonde
La chiara Primavera, e ’l tempo vago
Che le piante avverdisce, e pinge i prati:
E quanto bene abbiam, da te si chiame.
Dunque te, più d’altrui, per guida appello
285Al mio nuovo cantar; ch’io mostri appieno
L’alta virtù ch’il tuo venire adduce,
Al glorïoso Re Francesco, eletto
Per far ricco tra noi d’onor il mondo,
Come tu il ciel del tuo splendore eterno.
290Deh fa’, sacrata Dea, ch’in terra e ’n mare
L’antico guerreggiar s’acqueti omai:
Perché tu sola puoi tranquilla pace
Portar nel mondo: ché il feroce Marte
Tutto acceso d’amor, ti giace in grembo,
295E fermando nei tuoi gli ardenti lumi,
In te vorria versar tutti i suoi spirti;
Né può grazia negar che tu gli chieggia.
Or qui surga il villan, né tempo aspetti
Di veder già spuntar le frondi e i fiori,
300Del tuo sommo valor cortesi effetti;
Ma con speme ed ardir riprenda in mano
Gli aguti ferri suoi, truovi la vite
Che dal materno amor sospinta, forse
Tanti figli a nodrir nel seno avrebbe
305(Chi nol vietasse allor) che ’n brevi giorni
Scarca d’ogni vigor s’andrebbe a morte.
Taglie i torti sermenti, i larghi, e quelli
Che contra ogni dover e ’ndarno veggia
Crescer nel tronco, e quei che troppo ingordi
310Tra le robuste braccia han preso il seggio,
E la parte miglior s’han fatta preda.
Se fia lieto il terren, sia più cortese
Il saggio potator; che in ogni tronco
Può due germi lasciar tagliati in modo,
315Che ’l secondo occhio si ritenga appena.
Ma dove magro appar, sovente suole
L’imprudente cultor con danno e scorno
Pianger l’anno avvenir la sua pietate,
Perché due ne lasciò, bastando un solo.
320Se giovinetta sia, non bene ancora
Alle pene mortali al mondo avvezza;
Ah perdoni all’età, non sia crudele,
Lasce il novello umor più largo alquanto
Prender diporto; e se di Bacco teme,
325Stia lunge il ferro, oimè! ch’assai le fia
Dolcemente spogliar coll’unghie intorno
Ove il bisogno vien, donando pure
Con paterno riguardo e forma e modo
Da condurla ove vuol nei dì perfetti.
330Ma perché sotto il ciel cosa mortale
Non può stato trovar ch’eterno duri;
Né men che gli animai, le piante e l’erbe
Han nel primo avvenir natura amica,
La qual, fuggito il giovinetto tempo,
335Così fatta crudel com’era pia,
Ci getta in preda alla vecchiezza stanca,
Che per mille dolor, per mille piaghe,
Debili, infermi e vil, ci mena a morte;
Né possiamo scampar, ma quella istessa
340Impia (che così vuol) natura avara
Ne insegna pur, che ciò che manca in noi
Si stenda in altri, e che di prole in prole
Viva il mondo per lei qual sempre visse.
Ciò sapendo il villan, qualor potando
345Nella prima stagion l’antiche piante,
Vedesse una di lor, che voto un seggio
Per suo fero destin di sé lasciasse;
O qualcuna altra pur sì vecchia e grama
Che inutil fusse, o di tal frutto acerbo,
350Che tra l’altre restar chiamasse indegna;
Quindi la sveglia, e dal vicin più presso
Il più nodoso tralcio in vece prenda,
E ’n guisa d’arco ripiegando in basso,
Dentro il sotterri, purché resti almeno
355La quarta gemma fuor, ch’è più congiunta
Al suo natio pedal; ché tutto essendo
Posto dentro il terren, soverchie avrebbe
Radici intorno; e ’l vigoroso e poco
Vie più si dee pregiar, che ’l molto e frale.
360Poscia il terzo anno, chi ’l secondo teme,
Lieto il diparta dal materno stelo;
Ché ben potrà, senza nutrice, allora
La sua vita menar tra frondi e frutti.
Poi, perché il nuovo umor che sotto surge
365Mosso dalla virtù che ’l tempo adduce,
Trovi al suo pullular più larga strada;
Perché il tepido sol più passe addentro;
Perché l’erba crudel che parte invola
Del nutrimento pio ch’a lei si deve,
370Con
giusto guiderdon si resti ancisa;
L’invitto zappator l’arme riprenda,
E cavando il terren dentro e d’intorno,
Lo smuova, l’apra, e sottosopra il volga;
Guardando (ahi lassa lei!) che poco accorto
375Alla vite gentil non faccia piaga.
Dal robusto castagno e salcio acquoso,
Dalla nodosa quercia, e d’altri molti
Prenda i rami dappoi, che sian sostegno
Alle sue membra; ove al bisogno estremo,
380A tal uso miglior, la canna manche.
Poi la lenta ginestra in un gli accinga,
Sicché il fero aquilon, da Bacco odiato,
Non trionfi di lei; ma lieta un giorno
Le pampinose corna, i tralci e l’uve
385Sovra il sostenitor sicura avvolga.
Ma tutto si proveggia avanti molto
Che, gonfiando la buccia, ardita scorga
Già di fuori spuntar la gemma acuta:
Ch’allor più si convien che lunge stia
390Colui che l’ama il più, che serri intorno
E di sterpi e di pietre, e faccia in guisa,
Che non possa varcar chi crolli i rami.
Non però si convien che l’alma intenda
A Bacco tal, che a Giove, a Febo, a Palla,
395Non curando di lor, si faccia odioso:
Ma visitando vada ogni altra pianta
Che la riva o la piagga o ’l colle adombre.
La morta cima, il ramuscel troncato
Tagli; ch’assai sovente il secco offende
400Premendo il verde, e le conduce al fine.
Poi tutto quel che di soverchio nato
Di parto adulterin nel tronco truova
O nelle sue radici, accorto sveglia
Il buono sfrondator; ch’all’altra prole
405Di legittimo amor non furi il latte:
E de’ rami miglior, quantunque verdi,
Non perdoni a tagliar; ma quelli istessi
Ch’adombran più da quella parte donde
Passe il raggio del sol, che possa meglio
410Dentro tutto scaldar; se vuol più lieto
Il ricco arbore aver, più dolci i pomi.
E perché il pio cultor non deve solo
Sostener quello in piè ch’il padre o l’avo
Delle fatiche sue gli ha dato in sorte,
415Ma far col bene oprar che d’anno in anno
Cresca il patrio terren di nuovi frutti,
Quanto l’albergo umìl di figli abbonda:
Né veggia, oimè! tra pecorelle e buoi
La figlia errar dopo il vigesimo anno,
420Senza ancor d’Imeneo gustar i doni,
Discinta e scalza; e di vergogna piena
Fuggir piangendo per boschetti e prati
L’antica compagnia che in pari etade
Già si sente chiamar consorte e madre;
425Né i miseri figliuoi, pasciuti un tempo
Pur largamente nel paterno ostello,
E di quel sol che nei suoi campi accolse
Dolci nativi, in tenerella etade
Di peregrin maestro empio flagello
430Sentir, la madre pia chiamando indarno,
Alle fonti menando, ai verdi prati
Le non sue gregge; e le cipolle e l’erba,
Lassi! mangiar, vedendo in mano ai figli
Del suo nuovo signor formaggio e latte:
435Siccome oggi addivien tra i colli toschi
Dei miseri cultor, non già lor colpa,
Ma dell’ira civil, di chi l’indusse
A guastar il più bel ch’Italia avesse.
Or chi vuol, nell’età canuta e stanca,
440Di pigra povertà non esser preda,
E poter la famiglia aver d’intorno
Lieta, e la mensa di vivande carca,
E far aschio al vicin, non pur pietade;
Nella nuova stagion non segga in vano:
445Ch’or rinnuovi, or rivesta, or pianti, or cangi,
Pur secondo il bisogno, or vigne, or frutti.
Son mille i modi che natura impose
Di crearse alle piante; onde si vede,
Senza cura d’altrui, che per sé stesse
450Ne nascon molte che fanno ombra verde
Alle liete campagne, ai verdi colli,
Sopra i gelidi monti, in riva un fiume:
Vedi la scopa umìl, il faggio alpestre,
Vedi il popolo altero, il lento salcio.
455Parte son poi, che dal suo proprio seme
Surgon più liete: la castagna irsuta,
La ghiandifera quercia, il cerro annoso.
Altre veggiam, nelle radici in basso
Ch’hanno i suoi successor: l’olmo, il ciriegio,
460L’odorato, gentil, famoso lauro,
Ch’io spero ancor che le mie tempie cinga
Sol per le vostre man, gran Re de’ Galli:
Questo ancor vede i suoi futuri eredi
Nutrirse intorno, e gli ricuopre e pasce.
465Così crescer veggiam le selve e i boschi;
L’alte montagne, i luoghi imi e palustri
Vestir tutti tra sé diverse guise.
Poscia, seguendo il natural cammino,
Trovò l’uso mortal nuove altre forme.
470Quello il caro pianton dal proprio ventre
Toglie alla madre, e lo ripon nel solco;
Quel trapianta un rampollo; e quello un tronco
Sotto la terra pon, di palo in guisa:
Tale è pianta gentil ch’in pace porta
475L’empio propagginar, né vive sdegna
Le sue membra veder da noi sepolte:
Poi tali ancor, che senza aver radici
Crescon gioiose; e le più altere cime
Spesso il buon potator non pianta a voto,
480Ma quel ch’è più, che dalla molta uliva,
Il già secco pedal segando in basso,
Si vedran germinar le barbe ancora.
Or, non si trova alfin prestar le membra
L’un frutto all’altro, e le nodrir per sue?
485Ma riguardisi ben (ch’il tutto vale)
Tra tal varïetà comprender dritto
Di ciascuno il valor, la sede e ’l culto;
E ’n quella parte ove natura inchina,
Drizzar il passo: perché l’arte umana
490Altro non è da dir, ch’un dolce sprone,
Un corregger soave, un pio sostegno,
Uno esperto imitar, comporre accorto,
Un sollecito atar con studio e ’ngegno
La cagion natural, l’effetto e l’opra;
495E chi vuol contro andar del tutto a loro,
Schernito dal vicin, s’affanna indarno.
Vie più robusta vien l’inculta pianta
Che senza altrui lavor s’estende al cielo,
E secondo al desio si prese il seggio;
500Pur men feconda: ma inserendo i rami,
O cangiando il terren più volte, spoglia
Il salvatico stilo; e ’l culto onesto,
Di costume civil la rende adorna.
Il medesmo avverrà, s’al pio parente
505
Svegliendo intorno la crescente prole
Che ’l piè gl’ingombra, negli aprici campi
Convenevole a lui darà l’albergo.
L’arbore in ver che dal suo seme nasce,
Ha sì tarda, affannosa e fral la vita,
510Che pria ch’arrive ancor l’età virile,
Si spegne in fasce; o non morendo, al fine
Di sì stanco sapor conduce i frutti,
Ch’agli affamati augei si restan cibo.
Non per questo si manche in ciascun anno
515Di por nel solco suo de’ miglior semi,
E coll’onde e col fimo dar loro esca,
E coprirgli dal giel, cacciare i vermi,
Vedergli spesso, e sperar sempre il meglio:
Ché molte cose fan la cura e l’opra.
520Ride al propagginar la vite allegra,
L’uliva al tronco: l’amoroso mirto
Cresce più volentier nel cespo intero.
Cresce il duro nocciuol traposto in pianta,
La palma invitta, e con mille altri insieme
525L’alto frassino ancor, la quercia ombrosa.
L’aurato cetro poi, la poma rancia,
E la sua compagnia soave e cara,
Benché di seme ancor, di pianta viene.
Quei che di rami poi, non pur di tronco,
530Dànno al suo potator nel tempo i frutti,
È ’l purpureo granato, il dolce fico,
L’aspro e greve cotogno, il freddo melo,
Il tardo pero, e la vermiglia pruna.
L’arbor gentil che già sostenne in alto
535La morta Filli, il crudel noce opaco,
Il non vivace pesco, il grande e fero
Robustissimo pin, fra gli altri tutti
Ch’han l’alma in lor da più difese armata,
(Fuor d’ogni uso comun) sicuro e sano
540Veggion de’ semi suoi sovente il frutto:
Ché la natura istessa aperto face
Che la semenza sua doppia virtude
Aggia, e più d’altra; poiché tante scorze
Dure e spinose le ravvolse intorno.
545Ma che direm dell’ingegnoso inserto
Che in sì gran maraviglia al mondo mostra
Quel che val l’arte ch’a natura segua?
Questo, vedendo una bennata pianta
D’agresti abitator talvolta preda,
550Gli ancide e spegne; e di dolcezza ornata
Nuova e bella colonia in essa adduce:
Né si sdegna ella; ma guardando in giro,
Sì bella scorge l’adottiva prole,
Che i veri figli suoi posti in oblio,
555Lieta e piena d’amor gli altrui nodrisce.
L’arte e l’ingegno qui mille maniere
Maravigliosamente ha poste in pruova.
Quando è più dolce il ciel, chi prende in alto
Le somme cime più novelle e verdi
560Del miglior frutto, e risecando il ramo
D’un altro per sé allor aspro e selvaggio,
Ma giovine e robusto, o ’l tronco istesso,
Adatta in modo le due scorze insieme,
Che l’uno e l’altro umor che d’essi saglia,
565Mischiando le virtù, faccia indivisi
Il sapor e l’odor, le frondi e i pomi.
Chi la gemma svegliendo, all’altra pianta
Fa simil piaga, e per soave impiastro
Ben congiunta ed egual l’inchiude in essa.
570Chi della scorza intera spoglia un ramo,
In guisa di pastor ch’al nuovo tempo
Faccia zampogne a risonar le valli;
E ne riveste un altro, in forma tale,
Che qual gonna nativa il cinga e copra.
575Molte altre son, ch’a narrar lungo f"ra:
Ché ’l conoscer dell’uom non si contenta
Di quel che gli altri san, ma d’ora in ora
Cerca nuovi sentieri; e più d’ogni altro
Il ben dotto cultore, il qual ritrova
580Cose spesso incredibili a chi ’l vede,
Non che a chi l’ode dir; e prova alfine,
Che l’arte alla natura è mastra e guida.
Ma quai modi s’adopre, o questi o quelli,
O de’ novelli ancor, sappia il villano,
585Che tutto fa chi le due membra insieme
Sì ben congiunge, che natura adopre
Ogni spirto e valor comune in esse.
Delle stagion, migliore e più sicura
È l’alma primavera in cui vigore
590Giovinetto gentil e largo infonde
E di dentro e di fuor la terra e ’l cielo;
Pur in ogni altra ancor mostra la pruova,
Che talor si può far; e quelle nozze
Son più care tra loro e più felici,
595Che del medesmo sangue ebber parenti,
Benché vario il natale in bosco e in orto:
L’altre, tra i più congiunti, come avviene
Tra ’l pero e ’l melo, e tra ’l ciriegio e ’l cornio.
Ma pur l’abitator dei verdi colli,
600Poiché ha condotte a fin le maggior cure,
Lo conforto a spiar gli altri segreti
Del corso natural delle sue piante;
E sia presto a tentar tutte le strade
Non segnate d’altrui, per far più ricca
605Del gran cultivator la sacrata arte,
E mostrar a chi vien, che il secol nostro,
Sì neghittoso e vil, non dorme in tutto:
E tanto più che nulla cosa al pari
Addolcisce il sapor, ch’il dotto innesto;
610Né men giova di quel ch’a’ frutti suoi
Dà nuovi alberghi, e gli trapianta spesso.
Fatto questo, ciascun cercando vada
Qual han le piante sue patria più cara,
Qual aggian qualità: chi brame il sole,
615Chi cerchi l’aquilon; chi voglia umore,
Chi l’arido terren, chi valle o monte;
Chi goda in compagnia, chi viva sola.
Veggia il dolce arbuscel che Bacco adombra;
Veggia l’arbor gentil da Palla amato,
620Il parnassico allor, l’aurato cetro,
Veggia il mirto odorato, il molle fico;
Veggia la palma eccelsa, il poco accorto
Mandorlo aprico che sovente pianse
Tardi i suoi danni, ch’anzi tempo (ahi lasso!)
625De’ suoi candidi fior le tempie cinse;
Veggia il granato pio, che dentro asconde
Sì soavi rubin; la pianta veggia,
Che Tisbe e ’l suo signor vermiglia fero,
La cui fronde ha virtù ch’il verme pasce
630Che ’n sì bella opra a sé medesmo tesse
Onorato sepolcro e morte acerba,
E dai Seri e dagl’Indi il filo addusse
Onde il mondo novel si adorna e veste;
Veggia il persico pomo; e veggia come
635Il temprato calor, la lieta stanza,
Il mirar chiaro e bel sovente il sole,
Gli fa belli, e venir di frutti pieni.
Ma l’irsuta castagna, il noce ombroso,
L’acerbissimo sorbo, il pino altero,
640
Il giocondo susin, l’aspro reale
Nespol nodoso, il tardo pero e ’l melo,
L’almo ciriegio che da lunge mostra
I fiammeggianti frutti, e ride al cielo;
Il suo minor fratel, cornio silvestre,
645Sdegnoso in sé, che dispregiar si vede
La schernita famiglia accanto a quello;
E lo spinoso e vil, dal vulgo offeso
Giuggiol negletto, che salubre forse
Più che grato sapor nel frutto porta;
650Questi il gelato ciel con meno oltraggio
Soffrir ben ponno, e sostenersi in vita
Carchi di neve ancor le chiome e ’l volto.
Dunque trove il cultor tra i campi suoi
Qual sia la piaggia che più scalde il sole
655Poich’a mezzo cammin del giorno arriva:
E done ivi a ciascun bramato seggio,
Di quei che son della sua vista amici.
Poi l’altra parte che più l’orsa vede
Come giri assetata intorno al polo,
660Caro albergo sarà di quegli a cui
Vie più dolce ch’il sol vien l’aura e l’ombra:
Ma sappia pur, che da tal parte nasce
Men soave il sapor, più forte il tronco.
L’altre due parti che risguarda Apollo
665Quando poggia dal mar, quando discende;
Perché tepide son con meno offesa
O di caldo o di giel, disponga in esse
Or di questi or di quei, mirando al sito;
Perché spesso addivien ch’un colle, un monte,
670Ricoprendo talor, talor porgendo
O l’austro o l’aquilon, non meno adduce
Saldi effetti tra lor, ch’il cielo istesso.
La pampinosa vite e l’alma uliva,
Il mandorlo gentil, la piaggia e ’l colle
675Aman più d’altro, e dove sia la terra
Asciutta e trita; e così quei che han caro,
Più ch’il freddo, il calor, come il granato,
Come il fico, e cui tien dolce il sapore
Per arrichir fra noi l’ultime mense.
680Gli altri ch’hanno il troncon più saldo, e ’l gusto
Aspro e men grato, ove trovin l’albergo
Tenace e duro, senza danno e tema
Non lascian di condurre i frutti a porto,
E larghi ristorar l’altrui fatiche.
685Prenda adunque il villan d’intender cura
Delle terre i sapori e le virtudi,
L’alte varïetà che in esse sono;
Che ’l pon molto giovar: e non si sdegni,
Senza crederne altrui, di farne pruova.
690La più greve o leggier, la man lo mostra
Senz’altro faticar: la rara o densa,
Di cui questa al frumento, e quella a Bacco
Dona il seggio miglior, si vede aperta
Con far profondo un pozzo, e poco appresso
695Il medesmo terren riporre ivi entro;
Del qual s’abbonderà, serva all’aratro;
Alle viti, alle gregge, ov’esso manche.
La salsa, e l’altra che si appella amara,
Ch’alle vigne, alle piante, all’erbe, ai prati
700Sempre inutil saria; qualche vil corba
Fa’ carca d’esse, e poi di sopra versa
Dolci acque e chiare, e ripremendo in alto,
Prendi l’umor che caggia, ed ei ti rende
Il suo gusto palese, o questo o quello.
705L’altra che grassa sia, con man trattando
Non s’apre o schianta, ma qual cera o pece,
Chiusa e tenace vien quanto è più pressa.
L’umida, per se stessa il fallo accusa;
Che sempre ha, più che spighe, e giunchi ed erbe.
710La negra, e l’altre ch’il color presenta,
Non conviene imparar: la troppo fredda
Ch’è di tutte peggior, mal si conosce,
Se mille erbe nocenti, e ’l nasso e l’edra
Non ne fan testimon coll’ombre loro.
715Or si ricordi qui, ch’il troppo lieto,
Come l’erbose valli, ove discenda
O di pioggia o di vena onda che apporte,
Depredando l’altrui, de’ colli il meglio,
O dove abbonde il fiume e stagne intorno,
720Fan le piante più altere, e maggior pomi,
Ma d’insulso sapor; fanno la vite
Più superba, più vaga, e di più frutto;
Pur men nobile il vin, di men valore,
E che, passato april, cangia pensiero.
725Puosse pur maritar col suo caro olmo,
O col suo lento salcio; e quel che rende,
Coll’opra di Vulcan purgar in modo,
Che più lunghi aggia i giorni, o porlo in mensa
Alla più vil famiglia al più gran gielo.
730L’altra, che per sé stessa e prende e torna
L’umor che caggia, e ’l chiuso fumo esale,
Né di scabbiosa ruggine empia i ferri,
Né sia molto ghiaiosa, e non riceva
La venenosa creta o ’l secco tufo
735Ch’alle serpi e scorpion son proprio albergo,
Ma con modo e ragion sia d’erbe cinta;
Quella alle vigne tue, quella all’uliva,
All’aratro, alle gregge, a quanto vuole
Comandar il villan, fia pronta e leve.
740Così tutto avvisato, il tempo e ’l loco,
Proveggia i tralci; e non perdoni all’opre,
Di cercar notte e dì, presso e lontano,
Ove siano i miglior; né si contenti
Di quei dell’avo suo, che forse a torto
745Neghittoso accusava i colli suoi
Che gli fero aspre le vendemmie e frali.
Accordi il buon nocchier ch’a Lesbo e Rodo
E Creta, e per quei mar le merci porta,
Ch’indi ne svella, e le più nobil piante
750Con terra avvolte cui sovente bagne,
Ne le rechi fedel nel suo ritorno:
E se la prora sua volge all’occaso,
Dal bel regno di Gallia, ove il gran giogo
Del freddo Pireneo vede il mar nostro,
755Tal pianta prenda; ch’assai più soave
E più salubre avrà la forza e ’l gusto.
Né il sen partenopeo, né mille appresso
Degli italici lidi fieno avari
Di generose vigne e d’altri frutti,
760Che chi vorria contar, potrebbe ancora
Narrar l’arene ch’in Cirene avvolge
Zeffir cruccioso, o quando l’Euro è torbo
E che rabbioso vien, quante onde spinga
L’aspro ïonio mar nei liti suoi.
765Già si cavin le fosse, e tanto avanti,
Ch’il freddissimo Coro e cotto e trito
Aggia il mosso terren pria che la vite
Se gli commetta in sen; poi si ricuopra
Sì leggier, che l’umor trapasse addentro.
770Quei che voglion servar fedele e ’ntera
La santa maiestà di sì bella arte,
In un simil terren più di le piante
Tendon sepolte, perché a poco a poco
Gustin l’albergo, e che natura in esse
775
Vesta il nuovo costume, e ’l vecchio spoglie;
Poi quella parte ove riguardan l’orse,
E dove il mezzodì, segnano in guisa,
Che le possin tornar nel modo primo:
E può molto giovar; tanto ha di forza
780Della tenera età l’usanza antica.
Ma più religïon servar conviense
Al mandorlo, all’uliva, all’altre piante
Che di più gran valor montano al cielo.
Ove è grasso il terren, più spessa pianti
785L’eletta vigna sua; dove sia frale,
Lasci spazio maggior: e non le doni
Peregrina compagna; e sovrammodo
Del nocciuol viene schiva: e non riguarde
Al Sol che caggia in mar; ché se ne attrista.
790Tenga gli ordini eguai, che non pur danno
Agli occhi dei miglior leggiadro aspetto;
Ma ben divise in sé, con più ragione
Le amministra il terren l’umore e l’esca;
Né, premendo, fra lor si fanno oltraggio.
795Mostrin l’istessa forma che si vede
In guerra spesso, ove l’orribil tromba
Risveglia all’arme, e che la folta schiera
Si spiega in quadro, e ’n minacciose tempre
Volge al nemico il volto, e ’ntenta aspetta,
800Per già muover la man, del duce il segno;
Ch’ha di numero par la fronte e i fianchi.
Molti furo a quistion, come profonda
Voglia la fossa aver: ma in somma sia
(Secondo il loco pur) non molto addentro.
805Gli altri arbori maggior, ch’han più vigore
E più salde le membra, e ’n alto stanno
Con lunghe braccia e con aperta fronte
A combatter coi venti al più gran verno,
E di cibo più largo han più mestiero;
810Convenevole a lor sotterri il piede.
Seguiti in ciò colui che dottamente
Fonda eccelse colonne, archi e teatri,
O minacciose moli in mezzo il mare;
Che, quanto il ciglio lor più s’alza al cielo,
815Più comincia il lavor di verso il centro:
E natura ave in ciò maestra e guida;
Ch’all’altissimo pino, all’eschio, al faggio,
Al cerro invitto, ed a mill’altri insieme,
Quanto leva a ciascun la chioma in suso,
820Tanto abbassa laggiù le sue radici.
Or non resta al cultor nuova altra cura,
Ch’alle piantate viti, agli altri frutti
Metter dentro e d’intorno ghiara o vasi,
Che guarde il troppo umor che non discenda
825A guastar le sue barbe, e ’l poco alletti.
Poi gli guardi dal ferro e dagli armenti,
Dai vermi e dalle capre; e si ricorde
Che tanto a Bacco fan dannaggio e scherno,
Che ’l
suo gran sacrificio è d’esse sposo.
830Qui m’aiuti or cantar la sacra Pale;
Col favor della qual dico al pastore,
Che delle gregge sue tal cura prenda,
Che non manche il letame ai magri colli,
Né da coprir la sua famiglia il verno,
835E ne’ giorni più lieti agnelli e latte,
E capretti e formaggio ai miglior tempi.
Quando si fugge il giel, quando già indora
Gli umidi pesci il sol, quantunque il vento
Fugga, e la neve a Zeffiro s’arrende;
840Loro apporta più doglia, e spesso morte
Questo tempo novel, che Borea e ’l ghiaccio.
Questo le trova ancor debili e grame;
E senza cibo dar, piovoso e molle,
Di mille infermità le rende preda.
845Faccia di stoppie ancor, faccia di felci
Sovra il duro terren coverchio e letto
Contro al frigido umor rimedio, e schermo
A la tarda podagra e l’aspra scabbia.
E quando è carco il ciel, di frondi e fieno
850Empia la mensa lor sotto il suo tetto,
E dell’acque miglior; che non convegna,
Senza pasco trovar, bagnar le gonne.
Poiché l’erba rinasce, e torna il caldo,
Muova or la capra e l’umil pecorella,
855Questa alle verdi piagge, e quella al bosco,
Tosto che appar l’aurora, mentre ancora
La notturna rugiada l’erbe imperla.
Poiché ’l sol monta, ai più gelati rivi
Dia lor ristoro; e ’n qualche chiusa valle,
860O sotto ombra ventosa d’elce o d’olmo
Le tenga a ruminar: poi verso il vespro
Le rivolga a trovare i colli e i fiumi.
Chi tien cara la lana, le sue gregge
Meni lontan dagli spinosi dumi,
865E da lappole e roghi, e da le valli
Che troppo liete sian: le madri elegga
Di delicato vel candide e molli;
E ben guardi al monton; che bench’ei mostri
Tutto nevoso fuor, se l’aspra lingua
870Sia di fosco color, di negro manto
O di macchiato pel produce i figli.
Chi cerca il latte, ove fiorisca il timo,
Ove verdegge il citiso, ove abbonde
D’alcun salso sapor erba odorata,
875Dia loro il pasco: ché da questi viene
Maggior la sete; e grazioso e vago,
D’un insolito sal dà gusto al latte.
Quel ch’al nascer del dì si munge, al vespro
Prema il saggio pastor: quel della sera,
880Quando poi surge il sol, formaggio renda.
Non si lassi talor dentro all’albergo
Dell’innocenti gregge arder intorno
Dell’odorato cedro, o del gravoso
Galbano, o d’altro tal ch’a lui simiglie;
885Che discaccian col fumo dai lor letti
La vipera mortal, l’umida serpe,
Che s’han fatto ivi il nido, e son cagione
(Colpa del suo guardian) d’interna peste.
Qui s’avveggia alla fin, che ’l tempo è giunto
890Di tor la veste all’umil pecorella,
Ch’ha troppa intorno, e non si sdegna o duole,
Per ricoprirne altrui, torla a se stessa;
Purché d’acqua corrente o di salse onde
Sia ben purgata appresso; e poi d’amurca,
895D’olio, di vin, di zolfo e vivo argento,
E di pece e di cera e d’altri unguenti
Le sia fatta difesa al nudo dorso
Contra i morsi e venen di vermi e serpi.
Né fra l’ultime cure il fido cane
900Si dee quinci lasciar; ma dalle cune
Nutra il rozzo mastin, che sol conosca
Le sue gregge e i pastori, e d’essi prenda
Il cibo ai tempi suoi, d’ogni altro essendo,
Come lupo o cinghial, selvaggio e schivo.
905Non muova mai dalle sue mandre il piede:
Seguale il giorno; e poi la notte pose
Su la porta, o tra lor, come altri vuole.
Sia suo letto la terra, e tetto il cielo;
Né mai veggia l’albergo, e mai non guste
910
Delicate vivande; e fugga il foco.
Sia soverchio velluto, a fin che possa
Ben soffrir il seren, la pioggia e ’l gielo:
E ch’al dente del lupo schermo vegna.
Candido lo vorrei; ché più lontano,
915All’oscura ombra, si dimostra altrui,
E men puote ingannar guardiano o gregge.
Minacciosa la fronte, il ciglio torvo,
Sempre innanzi alla schiera il passo muova;
E col fischio e col grido avvezzo tale,
920Che riguardi sovente accanto e ’ndietro.
Or vengo a visitar l’ingegnose api,
Di cui prender si deve il frutto primo
Del suo dolce liquor, quando si vede
Ch’Apollo lascia il Tauro, e ’n oriente,
925Poco avanti l’aurora, il volto mostra
La candida Taigete, e col bel piede
Ripercotendo il mar si leva in alto.
E ben più largamente il buon villano
Può depredar il mel; perché l’estate,
930Sendo il tempo sereno e i venti in bando,
(Benché vinca il calor) non manca a quelle
Mille fior, mille erbette, in mille valli
Ove può meno il sol, che danno l’esca
Che lor troppa furò l’avara mano.
935O beato colui che in pace vive,
Dei lieti campi suoi proprio cultore;
A cui, stando lontan dall’altre genti,
La giustissima terra il cibo apporta,
E sicuro il suo ben si gode in seno!
940Se ricca compagnia non hai d’intorno
Di gemme e d’ostro, né le case ornate
Di legni peregrin, di statue e d’oro,
Né le muraglie tue coperte e tinte
Di pregiati color, di vesti aurate,
945Opre chiare e sottil di Perso e d’Indo;
Se il letto genital di regie spoglie,
E di sì bel lavor non aggia il fregio,
Da far tutta arrestar la gente ignara;
Se non spegni la sete, e toi la fame
950Con vasi antichi in cui dubbioso sembri
Tra bellezza e valor chi vada innante;
Se le soglie non hai dentro e di fuore
Di chi parte e chi vien calcate e cinte,
Né mille vani onor ti scorgi intorno;
955Sicuro almen nel poverello albergo
Che di legni vicin del natio bosco,
E di semplici pietre ivi entro accolte,
T’hai di tua propria man fondato e strutto,
Colla famiglia pia t’adagi e dormi.
960Tu non temi d’altrui forza né inganni,
Se non del lupo; e la tua guardia è il cane,
Il cui fedel amor non cede a prezzo.
Qualor ti svegli all’apparir dell’alba,
Non trovi fuor chi le novelle apporte
965Di mille ai tuoi desir contrari effetti;
Né, camminando o stando, a te conviene
All’altrui satisfar più ch’al tuo core.
Or sopra il verde prato, or sotto il bosco,
Or nell’erboso colle, or lungo il rio,
970Or lento or ratto a tuo diporto vai.
Or la scure or l’aratro or falce or marra,
Or quinci or quindi, ov’il bisogno sprona,
Quando è il tempo miglior, soletto adopri.
L’offeso vulgo non ti grida intorno,
975Che derelitte in te dormin le leggi.
Come a null’altra par dolcezza reca
Dell’arbor proprio e da te stesso inserto,
Tra la casta consorte e i cari figli,
Quasi in ogni stagion goderse i frutti!
980Poi darne al suo vicin, contando d’essi
La natura, il valor, la patria e ’l nome;
E del suo coltivar la gloria e l’arte,
Giungendo al vero onor più larga lode!
Indi menar talor nel cavo albergo
985Del prezïoso vin, l’eletto amico;
Divisar dei sapor, mostrando come
L’uno ha grasso il terren, l’altro ebbe pioggia;
E di questo e di quel di tempo in tempo
Ogni cosa narrar che torni in mente!
990Quinci mostrar le pecorelle e i buoi,
Mostrargli il fido can, mostrar le vacche,
E mostrar la ragion che d’anno in anno
Han doppiato più volte i figli e ’l latte!
Poi menarlo ove stan le biade e i grani,
995In vari monticei posti in disparte;
E la sposa fedel, ch’anco ella vuole
Mostrar ch’indarno mai non passe il tempo,
Lietamente a veder d’intorno il mena
La lana, il lin, le sue galline e l’uova,
1000Che di donnesco oprar son frutti e lode!
E dipoi ritrovar, montando in alto,
La mensa inculta, di vivande piena
Semplici e vaghe; le cipolle e l’erba
Del suo fresco giardin: l’agnel ch’il giorno
1005Avea tratto il pastor di bocca al lupo
Che mangiato gli avea la testa e ’l fianco!
Ivi, senza temer cicuta e tosco
Di chi cerchi il tuo regno o ’l tuo tesoro,
Cacciar la fame, senza affanno e cura
1010D’altro che di dormir la notte intera,
E trovarsi al lavor nel nuovo sole!
Ma qual paese è quello ove oggi possa,
Glorïoso Francesco, in questa guisa
Il rustico cultor goderse in pace
1015L’alte fatiche sue sicuro e lieto?
Non già il bel nido ond’io mi sto lontano,
Non già l’Italia mia; che, poiché lunge
Ebbe, altissimo Re, le vostre insegne,
Altro non ebbe mai che pianto e guerra.
1020I colti campi suoi son fatti boschi,
Son fatti albergo di selvagge fere,
Lasciati in abbandono a gente iniqua.
Il bifolco e ’l pastor non puote appena
In mezzo alle città viver sicuro
1025Nel grembo al suo signor; che di lui stesso
Che ’l devria vendicar, divien rapina.
Il vomero, il marron, la falce adonca
Han cangiate le forme, e fatte sono
Empie spade taglienti, e lance agute
1030Per bagnar il terren di sangue pio.
Fuggasi lunge omai dal seggio antico
L’italico villan; trapasse l’alpi;
Truove il gallico sen; sicuro posi
Sotto l’ali, Signor, del vostro impero.
1035E se qui non avrà, come ebbe altrove,
Così tepido il sol, sì chiaro il cielo;
Se non vedrà quei verdi colli t¢schi,
Ove ha il nido più bel Palla e Pomona;
Se non vedrà quei cetri, lauri e mirti,
1040Che del Partenopeo veston le piagge;
Se del Benaco e di mill’altri insieme
Non saprà qui trovar le rive e l’onde;
Se non l’ombra, gli odor, gli scogli ameni
Che ’l bel liguro mar circonda e bagna;
1045
Se non l’ampie pianure e i verdi prati
Che ’l Po, l’Adda e ’l Tesin rigando infiora,
Qui vedrà le campagne aperte e liete,
Che senza fine aver vincon lo sguardo;
Ove il buono arator si degna appena
1050Di partir il vicin con fossa o pietra:
Vedrà i colli gentil, sì dolci e vaghi
E ’n sì leggiadro andar, tra lor disgiunti
Da sì chiari ruscei, sì ombrose valli,
Che farieno arrestar chi più s’affretta.
1055Quante belle sacrate selve opache
Vedrà in mezzo d’un pian, tutte ricinte
Non da crude montagne o sassi alpestri,
Ma dai bei campi dolci e piagge apriche!
La ghiandifera quercia, il cerro e l’eschio
1060Con sì raro vigor si leva in alto,
Ch’ei mostran minacciar coi rami il cielo,
Ben partiti tra lor, ch’ogni uom direbbe
Dal più dotto cultor nodrite e poste
Per compir quanto bel si truove in terra.
1065Ivi il buon cacciator sicuro vada,
Né di sterpo o di sasso incontro tema,
Che gli squarce la veste, o serre il corso.
Qui dirà poi con maraviglia forse,
Ch’al suo caro liquor tal grazia infonde
1070Bacco, Lesbo obliando, Creta e Rodo;
Che l’antico falerno invidia n’aggia.
Quanti chiari benigni amici fiumi
Correr sempre vedrà di merce colmi;
Né disdegnarse un sol d’avere incarco
1075Ch’al suo corso contrario indietro torni!
Alma sacra Ceranta, Esa cortese,
Rodan, Sena, Garona, Era e Matrona;
Troppo lungo sarìa contarvi appieno.
Vedrà il gallico mar soave e piano:
1080Vedrà il padre Ocean superbo in vista
Calcar le rive, e spesse volte irato,
Trionfante scacciar i fiumi al monte;
Che ben sembra colui che dona e toglie
A quanti altri ne son le forze e l’onde.
1085Ma, quel ch’assai più val, qui non vedranse
I divisi voler, l’ingorde brame
Del cieco dominar che spoglie altrui
Di virtù, di pietà, d’onore e fede;
Come or sentiam nel dispietato grembo
1090D’Italia inferma, ove un Marcel diventa
Ogni villan che parteggiando viene.
Qui ripiena d’amor, di pace vera,
Vedrà la gente; e ’n carità congiunti,
I più ricchi signor, l’ignobil plebe
1095Viverse insieme, ritenendo ognuno
Senza oltraggio d’altrui le sue fortune.
Nell’albergo real vedrà due rare
Sacrate e prezïose Margherite,
Che invidia fanno al più soave aprile,
1100All’Indo, al Tago, alla vermiglia Aurora.
Carlo non ci vedrà, che s’ei potea
Il fil fatale a più perfetti giorni
Condurre (ahi destin crudo!), ogni mortale
Sormontava d’onore, ed era a tutto
1105L’äusonico sen pace e ristoro,
Non all’Insubria pur che ’l piange e chiama.
Vedrà l’alto splendor che, poiché l’Arno
Ornò di tanto bene, e ricco feo
Il purpureo suo giglio, empie e rischiara
1110Or del Gallo divin gli aurati gigli
Dei raggi suoi: quell’alma Caterina,
Al cui gran nome la mia indegna cetra
Consacrati darà questi ultimi anni.
L’alto sposo vedrà, che nell’aspetto
1115E nello sguardo sol mostra ch’avanza
Di valor, di virtù, di gloria e d’arme
L’antica maiestà degli altri regi,
Ch’or s’inchina adorando: il sommo Enrico.
Poi il sostegno dei buon, l’eletta sede
1120Di giustizia e d’onor, l’altero speglio
Di bontà integra, il fido lume e chiaro
D’invitta cortesia, l’esempio in terra
Di quanto doni il Ciel a noi mortali,
Magnanimo Francesco, in voi vedranno;
1125Sotto il cui santo oprar, tranquillo e lieto
Il vostro almo terren sicuro giace
Qualor sente in altrui più doglia e tema;
Quasi uom che veggia, in alto monte assiso,
Dentro il cruccioso mar Borea rabbioso
1130C’allo scoglio mortal percuote un legno;
Che di non esser quel ringrazia il Cielo.
Vivi, o sacro terren; vivi in eterno
D’ogni lode e di ben fido ricetto:
A te drizzo il mio stil; per te sono oso
1135D’esser primo a versar nei lidi toschi,
Del divin fonte che con tanto onore
Sol conobbe e gustò Mantova ed Ascre.
Ma tempo viene omai, che ’l fren raccoglia
Al buon corsier che per sì dolci campi
1140Tal vagando fra sè diletto prende,
Che stanchezza o sudor non sente in essi.
Fine del Libro primo.