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Traduzione dal latino di Alessandro Marchetti (1717)
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DI TITO
LUCREZIO CARO
DELLA NATURA DELLE COSE.
CHi mi darà la voce, e le parole
Convenienti a sì nobil soggetto?
Chi l’ali al verso impennerammi in guisa
Ch’ei giunga al merto di colui, che tali
5Premj acquistati co’l suo raro ingegno
Pria ne lasciò, sol per bearne appieno?
Nessun cred’io, che di caduco e frale
Corpo formato sia. Poichè se pure
Dir debb’io ciò ch’io sento, e che del vero
10La veneranda maestà richiede,
Fu Dio, Dio fu per certo, inclito Memmo,
Quel, che primo insegnò del viver nostro
La regola infallibile, e la dritta
Norma, che Sapienza or chiama il mondo;
15E che fuor di sì torbide procelle
E di notte sì cieca in sì tranquillo
Stato l’umana vita ed in sì chiara
Luce ripose. E che ciò sia, confronta
Con le sue le divine invenzïoni
20Ch’a pro dell’uman germe anticamente
Fûr dagli altri trovate. E senza dubbio
Chiaro vedrai che, se dall’alma Cerere,
Come fama ragiona, il gran le biade
Date ne fûro, e se dall’uve espresse
25Bacco il dolce liquore, obbligo in vero
Tener gli se ne dee; ma pur la vita
Senza pan senza vin nel modo stesso
Conservar si potea che molti popoli
Fan, se ’l grido è verace, anco al presente:
30Ma già non si potea lieti e felici
Viver mai senz’un cor candido e schietto;
Onde tanto più merta esser chiamato
Dio chi pria della vita i non fallaci
Piacer trovò, che per lo mondo sparsi
35Soavemente ancor gli animi allettano.
E, se d’Ercole i fatti esser più illustri
Tu credessi de’ suoi, molto più lungi
Dal vero ancor trascorreresti, o Memmo.
Poichè qual nocumento or ne potrebbe
40Apportar quell’orribile cignale
Già per le piaghe altrui dell’Erimanto
Sì noto abitator? Quale il Nemeo
Spaventoso leon? quale il cretense
Tauro o l’idra di Lerna, orrida peste
45Di cento serpi velenose armata?
O qual già mai la triplicata forza
Del tergemino mostro? o quale, in somma,
Di Diomede i destrier che per le nari
Spiravan fuoco alle bistonie terre
50Ed all’Ismaro intorno? o per l’adunche
Lor ungna i già tremendi arcadi augelli
Di Stinfalo abitanti? o ’l sempre desto
Angue, di forza e di statura immane,
Il qual con ceffo irato e bieco sguardo
55Negli orti dell’esperidi donzelle
Fu custode de’ pomi aurei lucenti
Al tronco stesso avviticchiato intorno?
Ed a chi nocerebbe il mar vicino
All’Atlantico lido od il severo
60Pelago immenso, ove de’ nostri alcuno
Non giunse e tanto il barbaro d’ardire
Non ha che girvi osasse? ogni altro mostro
Simile ai già narrati, a morte spinto
Dal forte invitto e glorïoso Alcide,
65Ben che morto non fosse, e di che danno
Vivo al fin ne saria? Di nullo al certo,
Se dritto è ’l mio giudizio: in così fatta
Guisa di belve ancor pregna è la terra,
E di gelido orror colma e di tema
Per le selve profonde e pe’ gran monti:
Luoghi che lo schivargli è in poter nostro.
Ma, se l’alma non è purgata e monda
Dalle fallaci opinïon del volgo,
Venti contrari alla tranquilla vita,
75Quai guerre allor, mal nostro grado, e quanti
Ne s’apprestan perigli? e quai pungenti
Cure stracciano il petto a chi non frena
Gli sfrenati appetiti? e chenti e quali
Ne tormentano il cor vane paure
80Che sorgon quindi? e quali stragi e quante
Generan la superbia e l’arroganza,
L’ira, la fraude, la sozzura, il lusso,
La gola, il sonno e l’ozïose piume?
Dunque, colui che debellò primiero
85Tali e tante sciagure, e via cacciolle
Lungi da’ nostri petti e non con l’armi
Ma pur col senno, un sì grand’uomo adunque
Convenevol non fia che fra’ celesti
Numi s’ascriva, e che per dio s’adori?
90Massime, avendo de’ medesmi dèi
Scritto divinamente e delle cose
Tutta svelata a noi l’interna essenza?
Di cui mentr’io le sacre orme calcando
Seguo lo stile incominciato, e mostro
95Nelle parole mie con quai legami
D’amicizia e d’amor tutte le cose
Create sian dalla natura, e quanto
Star ne debbiano avvinte, e come indarno
Procuran di schivar del tempo edace
100I decreti immutabili ed eterni;
Qual dell’animo uman principalmente
Già si provò, che di natia sostanza
Creata è la natura, e che non puote
Eternamente conservarsi intatta,
105Ma che spesso ingannar soglion gli spettri
Le menti di chi dorme, allor che pare
Veder chi morte in cenere converse;
Nel resto il preso metodo mi tira
A doverti insegnar, che di mortale
110Corpo è il mondo, e nativo, ed in quai modi
Il concorso degli atomi fondasse
La terra, il cielo, il mar, le stelle, il sole,
E il globo della luna, e quai viventi
Nascan dal grembo dell’antica madre,
115E quali anco all’incontro in alcun tempo
Nascer giammai non ponno, e come gli uomini
Variando favella incominciassero
L’un l’altro insieme a conversar per mezzo
De’ nomi delle cose, e com’entrasse
120Il timor degli Dei ne’ petti nostri,
Che sol quaggiù quasi beate e sante
Custodisce le selve, i laghi, i templi
Sacri a’ numi immortali, e l’are, e gl’idoli.
Del sole inoltre, e della luna il corso
125Dirotti, onde proceda, e con qual forza
Natura i moti lor tempri e governi;
Acciò tu forse non pensassi, o Memmio,
Che tai cose per sè libere e sciolte
Vadano ognor per lo gran vano errando
130Spontaneamente infra la terra, e il cielo
Per dar vita alle piante, al grano, all’erbe,
A gli uomini, alle fere; e non pensassi,
Che nulla mai ne si raggiri intorno
Per opra degli Dei. Poichè quantunque
135Già sappia alcun, che imperturbabil sempre,
E tranquilla e sicura i santi Numi
Menan l’etade in ciel; se nondimeno
Meraviglia e stupor l’animo intanto
Gl’ingombra, onde ciò sia, che possan tutte
140Generarsi le cose, e specialmente
Quelle, che sopra il capo altri vagheggia
Ne’ gran campi dell’Etra, ei nell’antiche
Religíon cade di novo, e piglia
Per se stesso a se stesso aspri tiranni,
145Che il miser crede onnipotenti: ignaro
Di ciò che puote, e che non puote al mondo
Prodursi; e come finalmente il tutto
Ha poter limitato e termin certo.
Nel resto, acciò ch’io non ti tenga a bada
150Più fra tante promesse, or via contempla
Primieramente il mar, la terra, il cielo.
La loro essenza triplicata, i loro
Tre corpi, o Memmio, tre sì varie forme,
Tre sì fatte testure, un giorno solo
155Dissolverà; nè, se mill’anni e mille
Si resse, eterna, durerà, ma tutta
La gran macchina eccelsa al fin cadrà.
E so ben io quanto impensata e nova
Cosa, e stupenda è per parerti, o Memmio,
160La futura del mondo alta ruina,
E quanto il ciò provar con argomenti
Sia difficile impresa: appunto come
Succede, allor che inusitate e strane
Cose apporti all’orecchie, che negato
165T’è non per tanto il sottoporle al senso
Degli occhi, e delle mani, onde munita
S’apre il varco la fede, e può sicure
Del cor guidarle, e della mente al tempio.
Ma io pur la dirò: forse a’ miei detti
170Per se medesmo intera fede il fatto
Sforzeratti a prestar: forse vedrai
L’ampia terra agitata orribilmente
Squassars’in breve, e dissiparsi il tutto;
Il che lungi da noi volga fortuna,
175E piuttosto il mio dir, che il fatto stesso
N’induca a confessar, che debbe al fine
Dagli urti dell’età percosso e vinto
Con orrendo fragor cadere il mondo.
Del che pria ch’io gli oracoli futuri
180Prenda a svelar, molto più santi e certi
Di quei ch’è fama che dal sacro lauro
Di Febo e dalle pitie ampie cortine
Uscisser già; se nol ricusi, io voglio
Porgerti in brevi sì, ma però saggi
185Detti un lungo conforto: acciò che forse
Dalla religïon tenuto a freno
A creder non ti dia che ’l cielo, il mare,
La luna, il sole, il terren globo e tutte
L’auree stelle vaganti e gli astri immobili
190Abbian corpo immortal santo e divino,
E che giusto però sia che coloro
Che del mondo atterrar le mura eccelse
Con gli argomenti lor bramano, e tanto
Osan che sin d’Apollo i rai lucenti
195Smorzar vorriano ed oscurar notando
Con mortal lingua gl’immortali e divi,
Qual nuovi al ciel nemici empi giganti,
Del temerario ardir paghino il fio.
Ma vadan pur sì fatte cose in bando
200Dalla divina maestà sì lungi,
E si stimin sì vili e tanto indegne
D’esser ascritte in fra gli eterni dei,
Che più tosto dagli uomini credute
Sian di moto vital prive e di senso.
205Posciachè irragionevole per
Par che sia l’affermar, che della mente
La natura e ’l consiglio unir si possa
A qualunque materia; in quella stessa
Guisa che per lo ciel nascer le piante
210Non ponno, e dentro il mar sorger le nubi,
Nè spirto e vita aver ne’ campi i pesci,
Nè da legno spicciar tiepido sangue,
Nè mai succo spillar da pietra alpina.
Certo ed acconcio è per natura il luogo,
215Ove crescan le cose, ov’abbian vita.
Così dunque per sè l’alma e la mente
Senza corpo già mai nascer non puote
Nè dal sangue vagar lungi e da’ nervi.
Poichè, se ciò potesse, ella potrebbe
220Molto più facilmente o nella testa
Vivere o nelle spalle o ne’ calcagni,
E nascer anco in qualsivoglia parte
Del corpo, e finalmente abitar sempre
Nell’uomo stesso e nello stesso albergo.
225Onde; poi che prefisso i corpi nostri
Han da natura ed ordinato il luogo
Ove distintamente e nasca e cresca
La natura dell’animo e dell’anima;
Tanto men ragionevole stimarsi
230Dee, che la possa separata affatto
Dal corpo e dalla forma d’animale
Nascer già mai, nè mantenersi in vita
O del sol nelle fiamme o della terra
Nelle putride zolle o ne’ sublimi
235Campi dell’etra o nel profondo abisso
Del mar. Dunque, se d’anima e di vita
Son prive affatto queste cose, or come
Goder pônno immortal senso e divino?
Nè men creder si dee che in alcun luogo
240Del mondo aver possan gli dèi le sante
Lor sedi. Con ciò sia che la sottile
Forma de’ numi eterni è sì remota
Da tutti i nostri sensi che la sola
Mente v’aggiunge col pensiero a pena;
245E, perch’ella ogni tatto ogni percossa
Schiva dell’altrui man, toccar non deve
Nulla ch’al tatto altrui sia sottoposto;
Che chi tócco non è toccar non puote.
Sì che d’uopo fia pur ch’assai difformi
250Sian dalle nostre degli dèi le sedi
E tenui e a’ corpi lor simili in tutto,
Sì come altrove io proverotti a lungo.
Il dir poscia che dio per util nostro
Volesse il mondo fabbricare, e quindi
255Com’opra commendabile e divina
Da noi doversi commendare e crederlo
Eterno ed immortal, nè convenirsi
Il tentar con parole in alcun modo
Dal suo seggio sturbarlo e fin dall’imo
260Scuoterlo e volger sottosopra il tutto;
Il finger, dico, queste cose ed altre
Molte a lor simiglianti è, s’io non erro,
Un’espressa pazzia. Poichè qual utile
Può mai la nostra grazia agl’immortali
265E beati apportar, ch’a muover gli abbia
Ad oprar cosa alcuna a pro degli uomini?
E qual mai novità tanto allettarli
Poteo, che dopo una sì lunga quiete
Da lor goduta per l’innanzi il primo
270Stato bramasser di cangiare in meglio?
Con ciò sia che piacer le cose nuove
Debban solo a color che dall’antiche
Han qualche danno. Ma chi visse innanzi
Sempre lieto e contento e mai soggetto
275A travagli non fu, come? e da cui?
Quando? e perchè d’una tal brama acceso
Esser poteo? Forse, mi credo, allora
In tenebre la vita ed in tristezza
Si giacque, in fin che delle cose il primo
280Origine rifulse. E qual avrebbe
Dato all’uom nocumento il mai non essere
Uscito a respirar l’aure vitali?
Posciachè ben conviensi a ognun che nasce
Il procurar di conservarsi in vita,
285Fin che gioie e diletti inebrian l’alma:
Ma chi mai non gustò del viver nostro
L’amor, nè fu del numero, qual danno
Dal non esser creato unqua aver puote?
In oltre: onde impiantate ai numi eterni
290Fûr le idee, fûr gli esempli, ond’essi in prima
Tolser ciò che d’oprare ebber talento?
E come unqua saper de’ primi corpi
Potetter l’energia? come vedere
Quant’essi in varïando ordine e sito
295Fosser atti a produr, se dalla stessa
Natura col crear non li fu dato
Vero indizio di ciò? Poichè in tal guisa
Fûr delle cose molti semi in molti
Modi percossi eternamente e spinti,
300E da’ propri lor pesi ebbero in sorte
D’esser cacciati e trasportati in varie
Parti dell’universo e d’accozzarsi
Fra loro in varie guise e di tentare
Tutto ciò che crear poteano, in modo
305Che per cosa mirabile additarsi
Non dee, s’in tai dispositure al fine
Caddero e in tali vie, quali or bastanti
Sono a produr rinnovellando il tutto
Chè se pur delle cose ignoti affatto
310Mi fossero i principii, io non per tanto
Ardirei d’affermar sicuramente
Per molte e molte cause e per le stesse
Proporzioni del ciel, che l’universo
Che tanto è difettoso esser non puote
315Per opra degli dèi fatto dal nulla.
E pria: quanto del ciel copre e circonda
La volubile forza; indi in gran parte
È da monti occupato e da boscaglie,
Nidi di fere e d’animai selvaggi,
320E da rupi scoscese e da paludi
Vaste ingombrato e da profondi abissi
Di mar che largamente apre e disgiunge
I confin della terra; indi l’ardente
Zona e le fredde a miseri mortali
325Tolte han quasi due parti. Or quel che resta
Di spine e bronchi e triboli coperto
Già fôra, se dell’uom non l’impedisse
L’industria a gemer per la vita avvezza
Con gagliardo bidente e con adunco
330Aratro a fender della terra il dorso.
Chè, se volgendo le feconde zolle
Col vomere sossopra e ’l suolo arando,
Fertil non si rendesse, il gran le biade
Mai per sè non potrian nell’aure molli
335Sorger: e nondimen, cerche sovente
Con travaglio e fatica allor che tutte
Già di fronde e di fiori ornano i campi,
O da’ rai troppo caldi arse del sole
Sono o da pioggia repentina oppresse
340O da gelida brina intempestiva
Ancise o dal soffiar d’austro e di coro
Con urto impetüoso a terra sparse.
In oltre: ed a qual fin nutre e feconda
Natura delle belve in mare in terra
345Il germe orrendo all’uman germe infesto?
E perchè le stagion varie dell’anno
N’adducon tanti morbi? e perchè vaga
Immatura la morte? Arrogi a questo,
Che ’l misero fanciul, quasi dall’onde
350Vomitato nocchier, nudo ed infante
Giace sul terren duro, e d’ogni aiuto
Vitale ha d’uopo, allor ch’a’ rai del giorno
Fuor dell’alvo materno esponlo in prima
Con acerbo dolor natura, e ’l tutto
355Di lugubri vagiti empie e di pianto;
Qual a punto conviensi a chi nel breve
Corso di nostra vita esser dee segno
Ad ogni stral delle sventure umane.
Ma crescono all’incontro armenti e greggi
360E fiere d’ogni sorte, e non han d’uopo
Di cembali, di tresche o di nutrice
Che con dolce e piacevole loquela
Senza punto stancarsi in vari modi
Gli vezzeggi, gli alletti e gli lusinghi,
365Nè, secondo che vario è ’l tempo e il cielo,
Cercan vesti diverse, e finalmente
Non han d’armi mestier, non d’alte mura
Con le quai sè medesmi e le lor cose
Guardin; mentre per sè porge feconda
370Largamente la terra e delle cose
La dedalea natura il tutto a tutti.
Pria: perchè il terren duro e l’acque molli,
Dell’aure il lieve spirto e ’l vapor caldo,
Dalla cui mistïon sembra che ’l tutto
375Si formi, ad un ad un nativo il corpo
Hanno e mortal; creder si dee che ’l mondo
Sia tutto anch’ei della natura stessa.
Poichè qualunque cosa ad una ad una
Le sue parti ha native ed è di forme
380Caduche, esser da noi sempre si vede
Natia non pur, ma sottoposta a morte.
Onde, veggendo noi le principali
Membra del mondo riprodursi estinte,
Quindi lice imparar che in somigliante
385Guisa il cielo e la terra ebbero il primo
Giorno e ch’a tempo suo l’estremo avranno.
Nè qui vorrei che tu credessi, o Memmo,
Ch’io fin or corruttibile supposta
Abbia fuor di ragion la terra e ’l foco
390E l’aure aeree e il mar profondo e detto
Che questi stessi corpi anco di nuovo
Si rigeneran tutti e si fan grandi.
Pria; perchè parte della terra adusta
Dal sol continuo e stritolata e infranta
395Dalla forza de’ piè, sfuma di polve
Nebbie e nubi volanti, che per tutto
L’aere da’ venti son disperse e sparse;
Parte ancor delle glebe a forza è data
Dalle piogge alla piena e rase e róse
400Son da’ fiumi le rive anch’esse in parte.
In oltre; sminuito è dal suo canto
Ciò ch’altri nutre: e perchè dubbio alcuno
Non v’ha che sia madre del tutto ed urna
Anco e sepolcro universal del tutto,
405Rasa è dunque la terra e si rintégra.
Nel resto; ch’i torrenti i fiumi il mare
Abbondin sempre d’umor nuovo, e sempre
Stillin chiaro liquor le vive fonti,
Mestier non ha d’alcuna prova: a pieno
410Certamente il dimostra il lungo corso
Dell’acque; E pria ciò che dall’acque in alto
Ergesi, e brevemente opra che nulla
Cresca il liquido umor più che non deve:
Parte, perchè da’ venti, allor ch’irati
415Volgon sossopra il mar, per l’aure è sparso
E dal sol dissipato: e parte ancora,
Perch’egli a tutti i sotterranei chiostri
Vien largamente compartito, e quivi
Lascia il salso veleno, e di nuov’anco
420Sorge in più luoghi, e tutto al fin s’aduna
De’ fiumi al capo e in bella schiera e dolce
Scorre sopra ’l terren per quella stessa
Via che per sè medesma aprirsi in prima
Poteo col molle piè l’onda stillante.
425Or dell’aria dich’io, che ’n tutto il corpo
Innumerabilmente ogn’or si muta.
Poichè ciò che dal mare e dalle cose
Terrestri esala, entro il profondo e vasto
Pelago aereo se ne vola e tutto
430Si cangia in aria: or, se da questa i corpi
Non fossero all’incontro alle spiranti
Cose restituiti, il tutto omai
Saria disfatto e trasmutato in aria:
Dunque l’aere già mai di generarsi
435Non cessa d’altre cose e in altre cose
Giornalmente corrompersi; che tutte
Mancar già noto e manifesto è a tutti.
Ma de’ liquidi raggi il largo fonte
Di recente candor mai sempre irriga
440Le stelle e l’etra e gli elementi, e ratto
Ministra al ciel con nuovo lume il lume.
Poichè ciò che di lume, ovunque il vibri,
Ei perda, indi imparar perfettamente
Si può da noi, che non sì tosto al sole
445Veggiam le nubi sott’entrare e tutti
Quasi interromper di sua luce i rai,
Che repente di lor svanisce affatto
L’infima parte, e ’l terren globo adombrasi
Ovunque i foschi nembi il volo indrizzino:
450Onde conoscer puoi che sempre il tutto
D’uopo ha di splendor nuovo, e che perisce
Ciò che pria di fulgor si sparse intorno,
E che per altra via vedersi i corpi
Non potrebbero al sol, s’egli il principio
455D’un perpetuo fulgor non ministrasse.
Anzi i lumi terrestri al buio accesi,
Le pendenti lucerne e le corrusche
Di fumante splendor pingui facelle,
Anch’esse ardendo in cotal guisa avacciansi
460Di sparger nuova luce, ed istan sempre
Di scintillar con tremole fiammelle;
Instano, e luogo alcun quasi interrotto
Non lascia il lume lor: con sì gran fretta
De’ suoi lucidi rai l’alta ruina
465Col veloce natal sostiene il foco.
Il sol dunque, così, la luna e tutte
L’auree immobili stelle e le vaganti
Creder dèi che per altro ogn’ora ed altro
Successivo natal vibrino intorno
470Il lume e perdan la primiera forma:
D’uopo è pur dunque il confessar che queste
Cose, com’altri pensa, esser non ponno
Di corpo irresolubile ed eterno.
In somma: dall’etade il bronzo il marmo
475Vinto al fin non si mira? e l’alte rôcche
Non rovinano a terra? e il duro sasso
Non è róso e marcisce? e l’are e i templi
De’ numi eterni e’ simolacri e gl’idoli
Non vacillan già lassi, e d’ogn’intorno
480Mostrano aperto il travagliato fianco?
Nè può la santa maestà del fato
Debellare i confin, nè fars’incontra
Di natura alle leggi e vïolarle.
Al fin non veggiam noi d’ogni uomo illustre
485Ceder l’alte memorie ed invecchiarsi
Per subito accidente? e le robuste
Selci da’ monti alpestri anco alle volte
Staccarsi e rovinar, nè d’un finito
Tempo soffrir le smisurate forze?
490Con ciò sia che staccarsi e ’n giù repente
Non potrebber cader, se dell’etade
Fin da tempo infinito ogni urto ogn’impeto
Prive d’ogni fragor sofferto avessero.
Al fin: mira oggi mai ciò che d’intorno
495N’è sopra e ’l terren globo abbraccia e stringe,
E, com’altri han creduto, eternamente
Sol di sè pasce e in sè riceve il tutto:
Tutto è nativo e di mortal sostanza
Formato: con ciò sia che ciò che nutre
500Di sè le cose e l’augumenta è d’uopo
Che scemi, e, quando poscia in sè ricevele,
È mestier che s’accresca e si restauri.
In oltre: se la terra e ’l ciel non ebbero
Alcun principio genitale e sempre
505Perpetui fûro, e per qual causa innanzi
Alla guerra tebana e d’Ilio al rogo
Non cantaro altre cose altri poeti?
Ove di tanti uomini illustri e tanti
Cadder le gesta glorïose? e come
510Non fioriscon anc’oggi in luogo alcuno
Di fama eterna alle memorie inserte?
Ma, sì come stim’io, nuova è la somma
Del tutto, e nuovo è ’l mondo, e molto innanzi
Non ebbe il nascimento: ond’alcune arti
515Inventansi anche adesso, et anco adesso
Pulisconsi alcun’altre. Or molti arnesi
Furo aggiunti alle navi, or messi in uso
I sonori concerti: e finalmente
Questa stessa cagione e questa stessa
520Natura delle cose, ancor che molto
Sia che già fu trovata, omai del tutto
Quasi sepolta in sempiterno oblío,
Pur di fresco è risorta, vie più vaga
E più bella che mai, per le immortali
525Opre del gran Gassendo, onore e lume
Del bel paese ove la Senna inonda.
Et io pur or principalmente, io stesso
Fui trovato fra tanti, ed ebbi in sorte
D’esporla altrui nella paterna lingua
530Pria d’ogni altro toscan, come dettolla
Per entro ai dotti suoi carmi robusti
Pria d’ogni altro romano il gran Lucrezio.
Chè se forse tu credi esserc’innanzi
State più volte le medesme cose
535Ch’al presente ci son, ma che l’umana
Specie da grave incendio arsa perisse,
E ruinasse ogni città squassata
Da crudel terremoto, o troppo gonfi
Per pioggia assidua dal natio lor letto
540Uscissero i torrenti e d’ogn’intorno
Sommergesser la terra et affogassero
Ogni uomo ogni animal; tanto più vinto
T’è d’uopo il confessar che debbe al fine
La terra e ’l ciel pur dissiparsi in tutto:
545Che, ove da tali e tanti morbi e tanti
E sì fatti perigli il mondo fosse
Tentato, ivi eziandio, se causa alcuna
Più robusta l’urtasse, alte ruine
Mostreria di sè stesso e strage orrenda.
550Nè per altra cagion d’esser mortali
Pur ne sovvien, se non perchè soggetti
Siam tutti a’ mali stessi onde natura
Già tolse ad un ad un gli altri di vita.
In oltre: tutto quel che dura eterno
555Conviene; o che respinga ogni percossa
Per esser d’infrangibile sostanza,
Nè soffra mai che lo penetri alcuna
Cosa che disunir possa l’interne
Sue parti, qual della materia a punto
560Gli atomi son, la cui natura innanzi
Già per noi s’è dimostra; o ch’immortale
Viva, perchè dagli urti affatto esente
Sia, come il vôto il qual durando intatto
Mai non soggiace alle percosse un pelo;
565O perch’intorno a lui nessuno spazio
Non sia dove partirsi e dissiparsi
Possa, come la somma delle somme
Fuor di sè non ha luogo ove rifugga
Nè corpo che l’intoppi e con profonda
570Piaga l’ancida e però vive eterna.
Ma nè, come insegnammo, esser contesto
Il mondo può d’impenetrabil corpo,
Chè misto è sempre in fra le cose il vôto;
Nè però com’il vôto intatto vive,
575Poichè corpi non mancano che sorti
Dall’infinito ed agitati a caso
Possan cozzar con vïolento turbine
Questa somma di cose ed atterrarla,
O farne in altri modi orrido scempio;
580Nè del luogo l’essenza e dello spazio
Profondo manca, ove distrarsi e spargersi
Il mondo possa e per lo vano immenso
Spinto da qualunqu’altra esterna forza
Finalmente perir. Dunque alla terra
585Al mare al cielo al sol mai del ferètro
Non è chiusa la porta; anzi all’incontro
Sta sempre aperta, e con profonda e vasta
Gola minaccia d’inghiottirsi il tutto.
Sicchè d’uopo fia pur che tu confessi
590Ch’egli ancora è natio; poichè mortale
Essendo non avrebbe omai potuto
Schermir d’immensa età gli urti e la possa.
Al fin: poichè fra lor vedi le membra
Principali del mondo in così fatta
595Guisa pugnar con empia orribil guerra,
Forz’è pur che tu dica; una battaglia
Sì lunga aver dee qualche fine, o quando
Del sole il foco o qualunqu’altro ardente
Vapor, succhiando e dissipando affatto
600Il nutritivo umor, vittoria avranne.
Il che far tutta via tenta, ma pure
Non han per anco i suoi gran sforzi effetto.
Tanto i fiumi d’umor vanno all’incontro
Compartendo alle cose, e dal più cupo
605Gorgo minaccian d’annegare il tutto;
In van, poscia che i venti, allor che irati
Spazzan soffiando il mar, scemano in parte
L’acque, e l’etereo sol co’ raggi anch’egli
Le scema in parte e le disperge in aura,
610E pria tutte le cose arder confida
Che possa unqua l’umor giungere al fine
Bramato dell’impresa. In così fatta
Guisa fan tutta via con posse eguali
Fra lor cruda battaglia, e di gran cose
615Muovon gran lite, e per finirla a gara
Opran ogni lor forza; avendo il foco
Vinto una volta e dominato il mondo,
Come fama ragiona, e ’l liquor molle
Regnato un’altra pel contrario e tutto
620Sommerso il grembo dell’antica madre:
Che vinse il foco e molte cose allora
Ardendo incenerì, ch’Eto e Piróo
Di strada usciti il temerario auriga
Mal frenati da lui per ogni clima
625Della terra e del ciel trassero a forza:
Ma quel che tutto può, padre e signore,
D’ira infiammato allor, con vïolento
E repentino fulmine gettollo
Dal cocchio in terra; e ’l sol fattosi incontro
630Al cadente garzon, tosto riprese
La gran lampa del mondo, e ricongiunse
I dispersi cavalli e per l’usato
Calle gli spinse ancor lassi e tremanti,
Quindi reggendo il suo viaggio il tutto
635Porse alle cose il debito ristoro;
Qual de’ greci poeti anticamente
Cantar l’inclite trombe; in ciò bugiarde,
Poichè vincer può il foco ove più corpi
Della materia sua dall’infinito
640Sórti assalgon l’umor, quindi o le forze
Dal lor contrario rintuzzate e dome
Caggiono o dall’ardenti aure abbruciate
Muoion le cose. E similmente è fama
Ch’un tempo vincitor fosse a vicenda
645L’umor del foco, allor che i fiumi uscendo
Fuor dell’alvo natio molte sommersero
Ampie terre e città: ma poi ch’indietro
Il nemico vigor dall’infinito
Sórto per qualche causa il piè ritrasse,
650Fûr le piogge affrenate e in un represso
L’orgoglio e ’l corso impetüoso a’ fiumi.
Ma io, come degli atomi il concorso
Fondasse il cielo, il terren globo, il mare,
La luna e ’l sol, racconterotti, o Memmo.
655Chè certo è ben ch’i genitali corpi
Con sagace consiglio e scaltramente
Non s’allogâr per ordine, nè certo
Seppe nessun di lor che moti ei desse:
Ma; perchè molti primi semi in molti
660Modi fûr già per infinito tempo
Da colpi innumerabili percossi,
E da’ propri lor pesi ebbero in sorte
D’esser commossi e trasportati in varie
Parti dell’universo e d’accozzarsi
665Fra loro in ogni guisa e di tentare
Tutto ciò che produr potean congiunti;
Quindi avvien poi che, dissipati e sparsi
Per lo vano infinito ed ogni sorte
Di moto e d’unïon provando, al fine
670Più s’adattano insieme, e non sì tosto
Adattati si son che di gran cose
Divengon semi ed a produr son atti
La terra, il mare e gli animali e ’l cielo.
Qui nè dell’aureo sol potea mirarsi
675Il cocchio luminoso errar per l’alto,
Nè stelle o mare o ciel nè finalmente
Vedersi aria nè terra o cosa alcuna
Simigliante alle nostre. Indi una certa
Nuova tempesta insorse et una massa
680D’atomi che svanir fe’ dello spazio
Le parti; ed a congiungersi i principii
Simili incominciaro et ad aprirne
Il mondo e le sue membra e le sue parti,
Disgiungerle, ordinarle e d’ogni sorte
685Di principii arricchirle; i cui concorsi
Gli spazi i pesi le percosse i moti
Le vie gli accozzamenti alta discordia
Turbava, e vi mescea risse e battaglie,
Per le varie figure e per le forme
690Difformi; onde restar tutte in tal guisa
Congiunte non potean, nè compartirsi
Convenevoli moti. Or questo, o Memmio,
È separar dal terren globo il cielo,
E far che d’acque separate abbondi
695Disgiunto il mare, e similmente i puri
Fochi dell’etra ardan divisi anch’essi.
Posciachè della terra i genitali
Corpi, perch’eran gravi e l’un con l’altro
Tutti in più modi avviluppati, univansi
700Primieramente, e nel più basso centro
Prendean lor sedi; e quanto più connessi
Insieme s’adunar, tanto più lungi
Spresser quei che produrre il mar le stelle
Doveano, il sole e della luna il corno
705Lucido e le muraglie alte del mondo:
Con ciò sia che tai cose e di più lisci
Corpi son fatte e di più tondi e piccoli
Atomi che la terra. E quindi accade
Che l’etra in pria, per lo suo raro uscendo
710Impetuosamente e molte seco
Fiamme traendo, sormontò leggiero:
Quale a punto veggiam, quando per l’erbe
Di rugiada ingemmate il mattutino
Aureo lume del sol d’ostro si tinge,
715Gli stagni, i laghi esalar nebbia, e i fiumi
Perenni, e il terren molle anche talvolta
Fumar si mira. O poi ch’in alto ascesi
S’uniscon questi corpi e in un sol gruppo
Compressi intorno da rabbiosi venti
720Corrono ad accozzarsi, il ciel sereno
Copron di nubi. In cotal guisa adunque
Il lieve Etere allor, che per natura
D’ogn’intorno si sparge, in una massa
Sola ridotto circondò se stesso
725Da tutti i lati, e, largamente sparso
Per lo vano infinito intorno chiuse
Di folta siepe e d’ampie mura il resto.
Della luna, e del sol quindi i principj
Seguir, che nè la terra attribuirsi
730Poteo nè il vasto ciel; poichè nè gravi
Eran sì, che, depressi e da’ lor proprj
Pesi spinti all’in giù, nel basso centro
Fosser atti a seder, nè lievi in guisa
Che scorrer per l’altissime campagne
735Potesser; ma fra l’Etra e ’l nostro globo
Han pur tal sito, che girar due corpi
Ponno e di tutto il mondo esser gran parte:
Qual nell’uomo eziandio lice ad alcune
Membra ferme posar, ben ch’altre ed altre
740Sian mai sempre agitate. Or, queste adunque
Cose accolte in sè stesse, in un baleno
La terra, ov’or dell’ocean profondo
Volto è ’l clima maggior, cadde depressa,
E formò del suo grembo ampia caverna
745Nel salso gorgo; e quanto più dall’Etra,
E da’ raggi del sol di giorno in giorno
Verso gli estremi limitari aperta,
Sovra e da tutti i lati era compressa
E con urti continui a condensarsi
750Forzata, ed a ristringersi ed unirsi
Nel centro suo; tanto più spresso il salso
Sudore usciane, e dilatato i molli
Campi intorno accrescea del mare ondoso,
E dell’aria i principj e del vapore
755Tanto più n’esalavano, e volando
Lungi da terra i chiari eccelsi templi
Condensavan del ciel. Scendeano in tanto
I campi, e s’appianavano, e degli alti
Monti l’erto salia; che i duri sassi
760Non poteano abbassarsi ed egualmente
Ceder tutte le parti. In cotal guisa
Dunque formato di concreto corpo
Fu della terra il pondo, e quasi un fango
Di tutto il resto sdrucciolò nell’imo
765Centro e qual feccia si fermò nel fondo:
Quindi ’l mar, quindi l’aere, e l’Etra ignifero
Restar liquidi e puri, e l’un dell’altro
Più lieve; e liquidissimo e purissimo
L’Etere leggerissimo all’aeree
770Aure sovrasta. E, benchè queste all’Etere
Turbino il molle corpo, ei non per tanto
Con lor non si rimescola, ma lascia
Che tutte queste cose ogn’or s’avvolgano
Tra violenti turbini, e permette
775Ch’elle sian da procelle incerte e varie
Sempre agitate. Egli però con certi
Impeti i fuochi suoi move scorrendo:
Che volgersi con ordine et avere
L’Etere una sol forza, aperto mostra
780Un sì vast’ocean che, vada o torni,
Certo è nel moto e un sol tenor conserva.
Or cantiamo onde i moti abbian le stelle.
Pria: se l’ampio del cielo orbe s’aggira,
Creder si dee che quinci e quindi il polo
785Sia dall’aria compresso e d’ambi i lati
Di fuor chiuso e ristretto. Indi che un altro
Aer sopra ne scorra e ’l corso indrizzi
Là ’ve del mondo eterno a volger s’hanno
Le stelle ardenti, e che di sotto un altro
790Erga al contrario il ciel; come tal ora
Miri i fiumi aggirar le ruote e i plaustri.
Forse immobile è l’orbe, ancor che tutti
Sian mossi i chiari segni; o, perch’eterei
Rapidi ondeggiamenti ivi racchiusi
795Strada cercando son portati in volta
E per gli ampi del ciel templi sublimi
Si rivolgon per tutto ignee procelle;
O pur scorre d’altronde, e per di fuori
L’aer da qualche parte agita e mesce
800Gli eterei fuochi; o ch’essi stessi ponno
Serper là, ’ve gli chiama ove gl’invita
D’ognuno il proprio cibo; e mentre a volo
Se ne van per lo cielo, esca e ristoro
Porgono a’ vasti lor corpi fiammanti;
805Posciachè l’asserir qual delle addotte
Cause sia vera in questo nostro mondo
È difficile impresa: a me sol basta
Il dir ciò ch’esser puote e che succede
Per l’universo in vari mondi in varie
810Guise creati; e delle stelle ai moti
Piacemi l’assegnar varie cagioni
Che possibili sian per l’universo:
Delle quai non pertanto una esser debbe
Quella ch’agli aurei segni i movimenti
815Porga: ma l’affermar qual sia di queste
Opra non è di chi cammina al buio.
Acciò poi che la terra entro il più cupo
Centro stia ferma, è di mestier, che sfumi
Il pondo o manchi a poco a poco, e ch’abbia
820Sotto un’altra natura a sè congiunta
Fin da principio e strettamente unita
Con le molli del mondo aeree parti
Alle quai vive inserta. E quindi all’aere
Non è di peso, e non lo preme e calca:
825Come null’aggravar posson le membra
Proprie alcun uom nè d’alcun peso al collo
Esser la testa, e qual ne’ piedi al fine
Alcun pondo del corpo unqua non senti;
Ma qualunqu’altra mole esternamente
830Posta sopra di noi, ben che di peso
Di gran lunga minor, spesso n’offende;
Tanto importa a qual cosa e a cui s’appoggi.
Tal dunque il terren globo incontinente
Trasportato non fu quasi alïeno
835D’altronde, nè d’altronde all’aure imposto
Aliene da lui; ma già con esse
Nacque fin dall’origine primiero
Del mondo; e, qual di noi paion le membra,
È d’esso una tal parte. Accade in oltre
840Ch’ella da grave tuon scossa repente,
Tutto ciò ch’ell’ha sopra agita e scuote:
Il che far non potria, se circondata
Non fosse d’ogn’intorno e dall’aeree
Aure e dall’ampio ciel. Poichè comuni
845Fin da principio han le radici e stanno
Fra lor tai corpi acconciamente uniti.
Forse non vedi ancor quanto gran pondo
Di corpo in tutti noi regga a sua voglia
Il vigor tenuissimo dell’alma,
850Sol perch’ella è con lui sì acconciamente
Unita? e qual virtude erger il corpo
Da terra, ed avvezzarlo agile e pronto
Al salto al nuoto alla palestra al corso
Finalmente potria, fuor che dell’alma
855Il debile vigor che il frena e regge?
Vedi tu dunque omai quanto possente
Riesca un tenue corpo, allor che unito
Viene ad un grave; in quella guisa a punto
Che son l’aure alla terra e l’alma all’uomo.
860Nè maggiore o minor molto è del sole
L’orbe e l’ardor, di quel ch’appare al senso.
Che sia pur, quanto vuoi, lungo lo spazio
Onde luce e calor vibrano i fuochi,
Ei però nulla toglie e nulla rade
865Dal corpo delle fiamme, e null’affatto
Stringer si mira o raccorciarsi il fuoco.
Quindi, perchè del sol la fiamma e ’l lume
Lanciato arriva a’ nostri sensi e puote
Tutta del suo color tinger la terra,
870Dee da terra il suo globo anco apparirne
Tal che veracemente alcun non possa
Crescerlo o sminuirlo. Anco la luna,
O con luce non sua vaghi e passeggi
Dell’etra i campi o per se stessa il lume
875Vibri, che che ne sia, punto maggiore
Non è di quel ch’ella si mostra all’occhio.
Poichè, fissando di lontano il guardo
Per molt’aer frapposto, ogni altro corpo
Pria confuso n’appar che scopra affatto
880Gli ultimi tratti. Ond’è pur d’uopo ancora
Che poichè chiara e certa, e come appunto
Dall’estremo suo limbo è circoscritta
N’appar la luna, ella di quinci in alto
Tanta a punto quant’è, da noi si scorga.
885Al fin qualunque fiamma in ciel tu miri,
(Poichè qualunque fiamma in terra splende
Mentre l’aria scintilla, e l’aureo lume
Ne mostra il proprio termine, assai poco
Si vede) apprender puoi, ch’ella è minore
890Poco, o maggior, di quel ch’appare al senso.
Nè punto dee maravigliarsi alcuno,
Che sì piccolo sol lume sì grande
Vibri, che ’l mare e ’l ciel tutto e la terra
Irrighi e sparga di calore il tutto.
895Poich’esser può che quinci aperto un solo
Fonte di tutto il mondo in larga vena
Sorga e da tutti i mondi eternamente
Scaturisca un sol fiume, ove in tal guisa
Del calor della luce i genitali
900Semi concorran d’ogn’intorno, e dove
S’aduni il gruppo in guisa tal, che n’esce,
Quasi da proprio suo fonte perenne,
Questo lume ed ardor. Forse non vedi
Quanto ancor largamente i prati irrighi
905D’acqua un picciol ruscello e i campi allaghi?
Esser dunque anco può, che l’aer nostro,
Da picciol foco, onde risplende il sole,
Di cocenti fervori arda, se tanto
Per se stesso è disposto, e così pronto,
910Che per debili ardor possa infiammarsi:
Qual tal volta le biade arder ne’ campi
E la stoppa veggiam, ben che una sola
Favilla l’accendesse, e fumo e fiamma
D’ogn’intorno eruttar. Forse anco il sole,
915Splendendo in ciel con la rosata lampa,
Molto di fervor cieco a sè d’intorno
Fuoco possiede; il qual non luce, e quindi
Può de’ fulgidi rai tanto robuste
Render le calorifiche percosse.
920Nè chiara appar nè semplice nè certa
La cagion, donde il sol dall’orbe estivo
Giunga al flesso brumal d’egocerote
E quinci indietro ritornando il corso
Dal cancro indrízzi al solstizial confine,
925E come in un sol mese il giro stesso
Compir sembri la luna in cui si logora
Dal sole un anno. Or la cagion di queste
Cose, torno a ridirti, una nè certa
Assegnar non si dee. Ch’esser ben puote,
930Qual del grande Abderita il saggio e santo
Parer già fu, che, quanto più vicini
Son gli astri a noi, tanto men ratti e mobili
Sian dal turbo del ciel portati in volta:
Conciossiachè languisca e per di sotto
935La violenta sua rapida forza
Più, e più si dilegui; e quindi accaggia,
Che il sol con l’altre stelle inferïori
Rimanga indietro a poco a poco a’ fervidi
Segni che son da noi molto più lungi.
940Ma del sol più vicina anco alla terra
Certo è la luna: e, quanto più dimessa
Giace l’orbita sua lungi dal cielo
Et a noi s’avvicina, il proprio corso
Tanto degli altri segni anco ha più tardo;
945E quanto al fin con turbine men rapido
Al sole inferior gira per l’etere,
Tanto più l’altre stelle aggiunger ponno
Il suo lucido globo e trapassarlo:
E quindi avvien che di tornar più ratta
950A’ segni appar; poichè all’incontro i segni
Tornan più ratti a lei. Fors’anco puote
Esser che da traverso un’aria scorra
Dall’alterne del mondo oblique parti
In un tempo prefisso, e sia bastante
955A spingere e scacciar da’ segni estivi
Il sole al brumal punto ed al rigore
Aspro del verno; e ch’un altr’aer tosto
Fin dall’ombre gelate al calorifero
Flesso in dietro il rispinga e a’ segni fervidi:
960E con pari ragion la luna, e l’altre
Stelle, che ne' grand’orbi i lor grand’anni
Volgon, creder sí dee, ch’ire, e tornare
Possan per l’aere alterno, atto a cacciarle.
Forse non vedi ancor da varj venti
965Spinte scorrer le nubi in varie parti,
E più ratte dell’altre ir le più basse?
Dunque chi può negar, che pe' gran cerchj
Dell’Etra l’aer basti in così varie
Guise a portar sì varie stelle in volta?
970Ma con vasta caligine sorgendo
La notte ingombra il terren globo, o quando
Già scaccia il sol dopo il suo lungo corso
Del ciel l’estime parti, e spira intorno
Languidi i raggi omai debili e stanchi
975Per lo troppo vïaggio, e dal soverchio
Aer interposto conquassati e laceri;
O perchè la medesima energia,
Che pe'l ciel sopra noi l’orbe sospinse,
Sforzalo anche a voltar sotterra il corso.
980Ma del vecchio Titon la bianca amica
Con la fronte di rose, e co’l crin d’oro
Mena in certa stagion l’alba vezzosa
Per l’eteree campagne, e n’apre il lume;
O perchè di sotterra a noi tornando
985Quel medesimo sol co’ rai precorre
Se stesso, e del lor foco il cielo accende;
O perchè molte fiamme e molti semi
D’ardore in stagion certa han per costume
D’unirsi, e fan che sempre un lume nuovo
990Di sol si crei; come da’ monti d’Ida
Fama è che, mentre in orïente appare
L’aureo lume del dì, miransi intorno
Varie fiamme disperse, indi in un solo
Quasi globo adunarsi e formar l’orbe.
995Nè dee con tuttociò gran meraviglia
Parerti, o Memmo, che in stagion sì certa
Questi semi di fuoco atti ad unirsi
Sieno e del sol rinnovellare il lume;
Poichè molte da noi cose mirarsi
1000Posson, che in ogni specie in tempo certo
Fannosi. In certo tempo il bosco, e ’l prato
Si veste, in certo tempo anco si spoglia
Di fiori e frondi; e nulla meno in certo
Tempo i denti a cader sforza l’etade,
1005E di molle lanugine a velarsi
Il giovinetto corpo e le pulite
Guance di molle barba; e finalmente
Le nebbie, i venti, le tempeste e i fulmini.
Le nevi e i ghiacci in non gran fatto in certi
1010Tempi si crean. Poichè non prima i primi
Principii delle cose in questa o in quella
Guisa s’unir, che, qual prodotte al mondo
Fur dal caso le cose in fin dal primo
Lor nascimento, ormai, tal ne consegue
1015La natura di tutte in ordin certo.
Crescer poi lice a’ giorni ed alle notti
Smagrirsi, e divenir più brevi ai lumi
Qual or l’ombre all’incontro hanno augumento:
O perchè sotto terra e sopra terra
1020Il medesimo sol con disuguali
Cerchi correndo il ciel divide e l’orbe
Parte in non giuste parti, e ciò che all’una
Tolse rende all’opposta, in fin che al segno
Pervenga ove dell’anno il nodo a punto
1025Alle tenebre cieche il lume adegua;
Poich’a mezzo il cammin del vïolento
Soffio di borea e d’austro il ciel disgiunge
Quinci e quindi egualmente ambe le mete,
E ciò pel sito e positura obliqua
1030Dal grand’orbe de’ segni in cui serpendo
Il sol logora un anno e con obliquo
Lume circonda il terren globo e ’l cielo
(Qual a punto osservâr quei che nell’etere
Tutto osservar di ben disposte immagini
1035L’orbe trapunto): o perchè l’aere in certe
Parti è più denso, onde sotterra il fuoco
Dubbio i tremoli rai vibra e non puote
Sì facilmente penetrarlo e sorgere
Sì ratto in orïente; indi l’inverno
1040Duran le lunghe notti, infin che giunga
L’alta insegna del dì cinta di raggi:
O forse ancor perchè dell’anno in varie
Stagioni alternamente han per costume
D’unirsi alcune fiamme e dissiparsi
1045Or più presto or più tardi, e far che ’l sole
Cada e risorga in vari luoghi e certi.
Splender poi può la luna, perchè i raggi
La percuotan di Febo; ond’ella volga
Vèr noi di giorno in giorno in apparenza
1050Lume tanto maggior quanto dall’orbe
Suo s’allontana, in fin ch’opposta e piena
Tutta d’argentea luce ella rifulse
E l’esequie del sol vide nascendo;
E quindi ancor per lo contrario il lume
1055Tanto quasi nasconda a poco a poco
Quanto a lui più vicin gira il suo cerchio
Dall’altra parte del zodiaco a punto:
Come parve a color ch’ad una palla
Fingon che la sia simile e che volga
1060Sotto l’orbe del sole il proprio corso,
Ond’avvien ch’affermar paiano il vero.
Fors’anco può di propria luce ornata
Volgersi e di splendor forme diverse
Agli occhi appresentar; chè forse un altro
1065Corpo con lei s’aggira e in varie guise
L’incontra e l’impedisce, e non si vede,
Perchè privo di luce il ciel trascorre.
E puote anco il suo globo intorno a’ poli
Proprj aggirarsi; in quella guisa appunto,
1070Che potria per metà tinta una palla
Di lucente candor volta in se stessa
Varie forme mostrarne e vario lume,
In fin ch’ella ver noi tutta volgesse
La parte luminosa e l’apparente
1075Suo sguardo, e quindi a poco a poco indietro
Rivolgesse il suo globo e n’occultasse
La sua lucida faccia in quella stessa
Guisa, che i Babilonici dottori,
I caldei confutando, incontro all’arte
1080Degli astrologi lor tentan provarne;
Come verificarsi ambi i pareri
Non possano, o vi sian ferme ragioni
Onde quel più che questo altri difenda.
Al fin perchè non può con ordin certo
1085Di figure e di forme esser prodotta
Sempre una nuova luna, et ogni giorno
Scemar da quella parte ond’essa in prima
Creata fu mentre dall’altra opposta
Va crescendo altrettanto e si restaura?
1090Certo che ’l dimostrar con evidente
Ragion che ciò sia falso e con parole
Convincerlo abbastanza, è dura, ed aspra
Impresa, quando ognun vede mill’altre
Cose con ordin certo esser prodotte.
1095Torna la vaga primavera e seco
Venere torna e messaggier di Venere
Zeffiro alato e l’orme sue precorre;
Cui la madre de’ fior tutta cosperge
La strada innanzi di color novelli
1100Bianchi, gialli, vermigli, azzurri e misti,
E di soavi odor l’aere riempie.
Quindi nel luogo suo l’arida estate
Succede, e per compagna ha l’alma Cerere
Sparsa di polve il crin e il soffio etesio
1105Del rigido aquilon. Quindi l’autunno
Ne segue, e in un con lui l’evio Evoè:
Quindi l’altre stagioni e quindi gli altri
Venti, e Volturno altitonante ed Austro
Cinto di nembi e turbini sonori.
1110La bruma al fin reca le nevi e ’l pigro
Ghiaccio n’apporta; e strepitando il verno
Giunge, e le membra altrui sforza a gelarsi.
Non è dunque stupor se in certo tempo
Muore et in certo tempo anco rinasce
1115La luna, poichè pur si creano al mondo
Tante e sì varie cose in certo tempo.
Ma del sol parimente e della luna
Creder dei, che l’eclisse in varj modi
Possa avvenir: che, per qual causa il lume
1120Del sole a noi può tor la luna, e molto
Da noi lungi offuscarlo, interponendo
Fra gli ardenti suoi raggi, e gli occhi nostri
L’orbe suo cieco? e nel medesmo tempo
Far non può questo stesso un altro corpo,
1125Che scorra il ciel sempre di lume ignudo?
E chi toglie anco al sol, che in certo tempo
Non lasci i fochi suoi languidi, ed anco
Restauri ’l lume, allor che i luoghi infesti
Alle fiamme ha trascorsi atti ad estinguerle
1130Tra via per l’aure, e dissiparle affatto?
E perchè può la terra anco a vicenda
Spogliar la luna di splendore e il sole
Sovra oppresso tener, mentre in un mese
Scorre della piramide terrestre
1135L’ombre rigide, e dense; e nello stesso
Tempo opporsi non può qualch’altro corpo
Al suo lucido globo, o sotto l’orbe
Scorrer del sole, e il lume suo profuso
Esser atto a celarne, e i vivi raggi?
1140O pur se la medesima rifulge
Del suo proprio splendor, perchè non puote
Languir del mondo in qualche certa parte,
L’aure passando al lume suo nemiche?
Nel resto, conciossiach’io t’ho risolto
1145Come nel vasto mondo, e per l’immenso
Spazio si possa generare il tutto;
E come i varj moti, e i vari cerchj
Della luna e del sol da noi sapersi
Possano, e per qual causa e da qual forza
1150Sian rotati i lor globi, ed in qual modo
Soglian mancar per l’eclissato lume,
E la terra coprir d’ombre improvvise,
Allor che quasi i proprj lumi han chiusi;
E come poi con isvelata faccia
1155Tornino ad illustrar l’aure tranquille,
E di candida luce empiano il tutto:
Or di nuovo mi volgo al nascimento
Del mondo e della terra al molle dorso,
Ed a ciò ch’alla luce aurea del giorno
1160Nel primiero suo parto ergere osasse,
E commetter de’ venti al soffio incerto.
Pria le specie dell’erbe, e il verde onore
La terra germinò: florido il prato
Di color di smeraldo a i colli intorno
1165Rifulse e in tutti i campi: a varie piante
Quindi concesso fu d’ergersi a gara
Per l’aure a lente briglie; e, come in prima
Nel corpo de’ quadrupedi animali
Si creano e nelle membra degli uccelli
1170Le piume e i velli e ’l duro pelo e ’l molle;
Tal dalla nuova terra erbe e virgulti
Salsero in prima; e poi create in varie
Guise fur d’animai specie diverse.
Posciacchè nè dal ciel cadder, nè fuori
1175Delle salse lagune usciro in secco
I terrestri abitanti; onde sol resta,
Che la terra a ragion madre del tutto
Chiamata sia; poichè di terra il tutto
Nacque, e non pochi ancor sono i viventi,
1180Che dall’umide piogge e dal vapore
Caldo de’ rai del sol nascono in terra.
Stupor dunque non è, se in maggior numero
Nacquero, e viepiù grandi, allor che nova
Era la terra, ed era l’Etra adulta.
1185Pria de’ pennuti augelli il vario germe
Nella nova stagion di primavera
Dall’uovo esclusi deponeano il guscio;
Qual depor le cicale al caldo estivo
Soglion la tenue spoglia e per se stesse
1190Vitto, e vita cercar. La terra allora
Pria ne diè gli animali. Erano i campi
E di caldo, e d’umor molto abbondanti;
E dovunque opportuno offriasi il luogo,
Molti del suolo alle radici affissi
1195Quasi ventri crescean, che poi che al tempo
Maturo apria de’ pargoletti infanti
La tenerella etade a sugger atta
L’umore, e spirar l’aure, ivi natura
Della terra volgea l’occulte vene,
1200Che poscia aperte rifondeano un succo
Simile al latte; in quella guisa appunto,
Ch’ogni femmina adesso, allor che figlia,
Suol di latte abbondar, perchè si volga
Del nutrimento alle mammelle ogn’impeto:
1205A’ fanciulli porgea cibo e ristoro
La terra, il vapor veste, e letto il prato
Di molli erbette tenere abbondante.
Ma ne’ rigidi verni il novo mondo
Nè soverchi calor, nè tempestosi
1210Venti eccitar potea; poichè egualmente
Cresce ogni cosa, e vigor prende e forza.
Sicchè molto a ragion di madre il nome
Pria la terra acquistossi e giustamente
Se ’l tiene ancor. Poich’ella stessa il germe
1215Uman produsse, e quasi sparse in certo
Tempo ogni altro animal, ch’ebro, e baccante
Scorre pe’ monti, e per le selve; e tutte
Creò le specie degli aerei augelli.
Ma perchè qualche termine al suo parto
1220Pur al fin si dovea, steril divenne,
Quasi per troppa età donna impotente;
Poichè del mondo stesso il tempo al fine
Varia tutta l’essenza, e d’uno in altro
Stato il tutto si cangia, e nulla dura
1225Simile a se medesmo: il tutto altrove
Fuggesi, il tutto muta, il tutto volge
Natura. Conciossiachè altro divenga
Putrido, e per vecchiezza egro e languente,
Altro nasca all’incontro, e forza acquisti.
1230Così dunque l’età varia l’essenza
Del mondo, e d’un la terra in altro stato
Si cangia: omai quel, che poteo, non possa,
E possa quel, che non sofferse innanzi.
Vari in oltre crear mostri, e portenti
1235Allor tentò la terra in varie guise,
E di faccia ammirabile, e di membra,
E di mani, e di piè molti eran privi:
Molti ancor senza braccia, e senza volto
Ciechi affatto nascean: molt’impediti
1240Di membra, che fra lor per tutto il corpo
Intrigate, e legate erano in guisa,
Che nulla oprar potean. Non rifuggirsi
A luogo alcun, non le malvage cose
Schifar, non le giovevoli seguire,
1245Non usarle a’ bisogni. Altri portenti
Producea di tal sorte, ed altri mostri;
In van, che lor natura il propagarsi
Vietava, onde arrivare al fin bramato
Non potean dell’età, nè trovar cibo
1250Nè venerei diletti avere insieme.
Conciossiachè concorrer molte cose
Debbon negli animali, acciò sian atti
A servar propagando il proprio germe.
Primieramente i pascoli, le vie
1255Dopo, onde i semi genitali uscire
Possan per tutto il corpo, allor che sono
Rilassate le membra: e, perchè al maschio
Si congiunga la femmina, ed entrambi
Fa d’uopo, onde accoppiar possano insieme
1260Gli scambievoli gaudj Allora è forza,
Che molti d’animai germi diversi
Perisser, nè bastanti a propagare
Fosser la specie lor. Poichè qualunque
Di dolce aura vital si nutre, e pasce,
1265O l’astuzia, o la forza, o la prestezza,
Finalmente del corso ha per custode,
Che fin dal primo tempo il serba intatto;
E molti ancor per l’util, che ne danno,
Son da noi conservati, e custoditi.
1270Primieramente i fier leoni, e tutte
L’altre belve crudeli hanno in difesa
La forza. Dall’astuzia il proprio scampo
Riconoscon le volpi; e dalla fuga
I cervi; ma i fedeli, e vigilanti
1275Cani, e qualunque specie al mondo nacque
Di veterino seme, e i mansueti
Greggi lanosi, e gli aratori armenti
Tutti dell’uomo alla tutela, o Memmio,
Si dier; poichè fuggiro avidamente
1280I morsi delle fere, e seguir vollero
La pacifica vita, e i larghi pascoli,
Che senza lor travaglio apparecchiati
Lor son da noi, quasi condegno premio
Dell’util ch’e’ ne danno. Or quei ch’alcuna
1285Non ebber di tai cose, onde potessero
Viver per se medesmi, o di qualche utile
Essere all’uman germe, e per qual causa
Tollerar si dovea, ch’ei si nutrissero
Per nostro mezzo; o dal furor nemico
1290Fosser guardati? Essi giaceano adunque
Preda e pasto degli altri entro i fatali
Lor nodi avvolti, insin che tutti al fine
Fur quei germi malnati affatto estinti.
Ma nè visser già mai centauri al mondo,
1295Nè con doppia natura e doppio corpo
Pon di membra straniere in un congiunte
Formarsi altri animai, se quinci, e quindi
Pari a pari energia non corrisponde:
E ciò quind’imparar lice a ciascuno,
1300Sia quantunque d’ingegno ottuso e tardo.
Pria, fiorisce il cavallo agile, e forte
Poco dopo i tre anni; e allor bambino
Tenero è l’uom, mentre per anco il petto
Palpa toccando alla nutrice, e tenta
1305Suggerne il dolce latte. Allor che manca
Per l’età già cadente il consueto
Vigor dell’uno, e che dal corpo infermo
Languida, e dalle membra oppresse e stanche
Gli s’invola la vita, allora appunto
1310Veggiam, che all’altro in sul fiorir degli anni
Spunta la vaga giovanezza e veste
Di lanugine molle ambe le guance;
A ciò tu forse non ti creda, o Memmio,
Che nascer d’animai tanto diversi
1315Debbian centauri, o scille, o somiglianti
Mostri, de’ quai le membra esser veggiamo
Fra lor tanto discordi, e che degli anni
Giunger con egual passo al fior bramato
Non posson, nè di corpo esser robusti
1320Nè toccar dell’età l’ultima meta,
Nè di venereo ardor nè di costumi
Insieme convenir, nè degli stessi
Cibi nutrirsi. Le barbute greggi
S’ingrassan di cicuta, ove all’incontro
1325La cicuta è per l’uomo aspro veleno.
Chè se ’l foco e la fiamma incenerisce
De’ leoni egualmente i fulvi corpi
E d’ogni altro animal che ’n terra alberghi,
E com’esser può mai ch’una chimera
1330Leon pria, quindi capra, al fin serpente,
Dal tergemino corpo unqua spirasse
Fuoco e fiamma per bocca? Onde chi finge
Che nel primo natal del mondo infante,
Quando nuova pur anco era la terra,
1335Novo il mar, nova l’aria e novo il cielo,
Così fatti animai nascer potessero;
Chi ciò, dico, appoggiato a questo solo
Nome di novità vano, e fallace
Finge, ben puote ancor nel modo stesso
1340Finger molte altre cose, e scioccamente
Dir, che allor da per tutto arene d’oro
Volgean sotto a quei fiumi, e che di gemme
Fioriano i boschi, e che ne’ membri ogni uomo
Sì grande impeto avea, che il mar d’un salto
1345Varcava, e con le mani a se d’intorno
Tutto volgea rapidamente il cielo.
Poichè l’essere stati in terra sparsi
Molti semi di cose, allor che in prima
Largamente il terren ne diede i varj
1350Germi degli animai, punto non prova,
Che potesser fra lor misti e confusi
Nascer uomini, e belve, armenti, e greggi.
Conciossiachè quantunque il suolo abbondi
D’erbe anche adesso, e d’alberi fronzuti,
1355E di biade, e di frutti, essi non ponno
Germinar non per tanto insieme avvinti:
Tal fermo e fisso in suo costume il tutto
Procede, e le dovute differenze
Per certa legge di natura osserva.
1360Nascean gli uomini allor per le campagne
Tutti, qual convenia, molto più rozzi,
Poichè la rozza terra avean per madre,
E dentro di maggiori, e di più salde
Ossa fondati, e di più forti nervi
1365Stabiliti, ed acconci; e nulla, o poco
O da caldo, o da freddo, o da stranieri
Climi, o da nuovi cibi erano offesi,
Nè del corpo patian difetto alcuno;
E molti errando delle fere in guisa
1370Per più nel ciel del sol lustri volanti
Traean lor vita. E non v’avea per anco
Chi con braccio robusto al curvo aratro
Desse regola e norma, o le campagne
Or con zappe, or con rastri, or con bidenti
1375Culte e molli rendesse, e propagasse
I novelli virgulti, e dall’eccelse
Piante troncasse i folti antichi rami.
Quel, ch’il sole, o la pioggia, o il suol fecondo
Producea per se stesso, i petti umani
1380Saziava a bastanza; e grato e dolce
Cibo spesso porgean nelle foreste
Le ghiandifere querce, o le mature
Rubiconde corbezzole, o l’agresti
Poma, o le noci, o l’odorose fraghe,
1385Che maggiori, e più belle, e più soavi
Nasceano allor della gran madre in grembo.
E molti anche, oltre a ciò, l’età fiorita
Del mondo producea vivi alimenti
Ampli abbastanza a’ miseri mortali.
1390Ad estinguer la sete i fiumi, i fonti
Come or fan gli animai l’onde tranquille,
Che d’alto caggion mormorando al chino.
Ed al fin vagabondi al ciel notturno
Abitavan quei popoli primieri
1395Delle Ninfe i silvestri orridi templi;
Onde liquidi uscian lubrici rivi,
Che le grotte solean d’ogni sozzura,
E dal fango lavar gli umidi sassi;
Gli umidi sassi sopra il verde musco
1400D’umor chiaro stillanti. E parte al piano,
Non capendo in se stessi, impetuosi
Scesero, e furibondi errar pe’ campi;
Nè sapean maneggiar co ’l foco alcuna
Cosa, nè con le pelli, o con le spoglie
1405Delle fere coprian l’ignude membra;
Ma ne’ boschi, negli antri, e nelle selve
Ricovravan se stessi, e nelle cave
Grotte; e, per ischifar de’ venti irati
Gli assalti, e delle piogge, il sozzo e squallido
1410Corpo asconder solean tra gli arboscelli;
Nè poteano aver l’occhio al comun bene,
Nè fra loro introdur riti, e costumi,
Nè formar, nè servar leggi, o statuti.
Quel, che offerto dal caso, o dalla sorte
1415Della preda venia, quel desso a punto
Prendea ciascuno ammaestrato, e dotto
Ad esser per se stesso a se bastante,
Ed a viver contento. Inculta e rozza
Venere congiungea per le foreste
1420I corpi degli amanti. All’uomo in braccio
Ogni donna poneasi, o da focoso
Vicendevol desio vinta, o da mano
Violenta e rapace, o da sfrenata
Cieca lussuria; e prezzo allor non vile
1425Eran le ghiande, e le castagne elette.
Delle mani, e de’ piè tutti affidandosi
Nel mirando valor, seguian con sassi
Atti ad esser lanciati, e con bastoni
Noderosi, e pesanti i fieri germi
1430De’ selvaggi animai. Molti di loro
Vincean; poichè fuggian per le caverne:
Ma l’irsute lor membra in ciò simili
A’ setosi cignai, nel suolo ignude
Stendean la notte, e le coprian di frondi.
1435Nè vaganti per l’ombre, il giorno, e il sole
Paurosi cercar solean piangendo;
Ma taciti aspettar muti, e sepolti
Nel sonno, infin che il sol nato dall’onde
Con la rosea facella ornasse il cielo
1440Di novello splendor: che sempre avvezzi
Sin da picciol’infanti a veder l’ombre
Nascer nel mondo alternamente, e il lume,
Non poteano additar per meraviglia,
Nè temer, che perpetua, orrida, e densa
Notte l’aere ingombrasse eternamente,
Spenti i raggi del sol; ma vie maggiore
1450Noja prendean, che gli animai selvaggi
Spesso infesta rendeano, e perigliosa
La quiete, e il sonno a gli infelici: ond’essi
Dalle grotte cacciati i tetti loro
Fuggian smarriti o pe ’l venir d’un fiero
1455Spumifero cignale, o d’un robusto
Leone; e nella notte intempestiva
Solean tremanti agli ospiti crudeli
Cedere i letti lor stesi di fronde.
Nè molto allor più ch’al presente, il dolce
1460Lume del viver fuggitivo, e frale
Perdean piangendo i miseri mortali.
Che sebben, più che adesso, allor ciascuno
Da’ selvaggi animai colto improvviso
Pasti vivi porgea per divorarsi
1465Da’ fieri denti, il bosco, il monte, e tutta
Intorno empia di gemiti e di strida
La selvosa foresta in viva tomba
Seppellir vive viscere veggendo:
E sebben chi trovava alcuno scampo,
1470Tenendo poi su’l già corroso, e guasto
Corpo, e sulle maligne ulcere tetre
Le man tremanti, in voce orrenda e fiera
Solea chiamar la morte, in fin che spento
Da sozzi, ingordi vermini crudeli
Fosse di vita ignudo affatto, e casso
D’ajuto, e di consiglio, ed ignorante
Di ciò, che giovi alle ferite, o noccia;
Non però mille, e mille schiere ancise
Vedeansi in un sol giorno orribilmente
1480Tinger di sangue i mari, e d’ogn’intorno
La terra seminar d’ossa insepolte;
Nè dell’ampio ocean l’onde orgogliose
Fean le navi in un punto e i naviganti
Naufragar tra le sirti, e tra gli scogli;
1485Che folle il mar di tempestosi flutti
Armato indarno incrudeliasi, e folle
Spesso a’ venti spargea minacce indarno;
Nè potean le lusinghe allettatrici
Della placida sua calma incostante
1490Incitar con inganno i legni all’onde.
Cieca allor si giacea la scellerata
Arte del fabbricar fuste, e galee,
E navi d’ogni sorte. Allor sovente
La scarsezza del vitto a’ corpi infermi
1495Togliea la vita; or pel contrario spesso
L’abbondanza de’ cibi altrui sommerge:
Quegli incauti il velen porgean talora
Per se stessi a se stessi, or più sagaci
Questi, e più scaltri a’ lor nemici il danno.
1500Ma poichè a fabbricar case, e capanne
Si diero, e ad abitarle; e che l’ignude
Membra vestir d’irsute pelli e ’l foco
Messero in uso, e ch’un sol tetto accolse
Con la moglie il marito e note al mondo
1505Fur del privato amor le caste nozze,
E che nascer di se non dubbia prole
Vedea ciascuno; allor primieramente
Cominciò l’uman germe ad ammollirsi.
Poichè ’l foco operò che i corpi algenti
1510Non potessero omai nell’aria aperta
Soffrir più tanto freddo, agevolmente
Venere altrui scemò le forze, e ’l fiero
Spirto de’ genitor fransero i figli
Con lusinghe e con vezzi. Allora in prima
1515Cominciar l’amicizie: i confinanti
Non s’offendean: raccomandar l’un l’altro
I figli pargoletti e ’l fragil sesso
Con le voci e co’ cenni, altrui mostrando
In lor balba favella opra esser giusta
1520Il dar soccorso a’ miseri e mal fermi.
Nè però generarsi una totale
Pace fra lor potea; ma la migliore
Parte osservò religiosa i patti:
Poichè ’l genere uman spento e distrutto
1525Già fora, e lor semenza indarno omai
Tentato avrian di propagar le genti.
Ma l’umana natura i varj accenti
Pria formò della lingua, e l’util poscia
Diede i nome alle cose; in quella stessa
1530Guisa che par che la medesma infanzia
I teneri fanciulli induca al gesto,
Mentre fa che da lor sia mostro a dito
Quel ch’all’occhio han presente. Ogni animale
Sente il proprio vigore, ond’abusarlo
1535Possa. Pria ch’al vitel nascano in testa
Le corna, egli con esse irato affronta
E il nemico rival preme ed incalza.
Ma de’ fieri leoni i pargoletti
Figli e delle pantere, allor ch’a pena
1540Nelle branche hanno l’ugna e i denti ’n bocca,
Già co’ piedi, e co’ morsi altrui fan guerra.
Senzachè confidar tutti gli augelli
Veggiam nell’ale e dalle proprie penne
Chieder tremolo ajuto. Il creder dunque
1545Ch’alcuno allor distribuisce i nomi
Alle cose e che quindi ogni uom potesse
Apparare i vocaboli primieri,
È solenne pazzia. Poichè, in qual modo
E perchè chiamar questi ad un’ad una
1550Poteo le cose a nome e i varj accenti
Esprimer della lingua, e nello stesso
Tempo a far il medesimo bastante
Alcun altro non fu? Ma, se le voci
Non per anco appo gli altri erano in uso,
1555Onde fu del lor utile a costui
La notizia inserita? e chi gli diede
Questa prima potenza, ond’ei sapesse
Specolar con la mente, e porre in opra
Ciò che far gli aggradasse? in oltre, un solo
1560Non potea sforzar molti, e soggiogarli
Sì ch’apprender da lui fosser contenti
Delle cose i vocaboli. Nè certo
Er’atto ad insegnar, nè far intendere
Ciò che al fatto sia d’uopo a gente sorda;
1565Poichè nè pazienti avrian sofferto,
Che suoni, e voci inaudite indarno
Stordisser lor l’orecchie. E finalmente,
Perchè mai sì mirabile stimarsi
Dee, che il genere uman, che voci, e lingua
1570Di robusto vigor dotata avea,
Secondo i varj suoi sensi ed effetti
Varj nomi ponesse a varie cose?
Se le fere e gli armenti e i muti greggi
Soglion voci dissimili formare
1575Quando han speme o timor, noja o diletto?
E ciò da cose manifeste e conte
Può ciascuno imparar. Pria, se irritato
Freme il molosso e la gran bocca aprendo
Nude mostra le zanne, e i duri denti,
1580Già d’insano furor pregno, e di rabbia
In suon molto diverso altrui minaccia
Da quel, ch’ei latra, e d’urli assorda il mondo.
Ma se poi lusinghiero i proprj figli
Lecca, o scherza con essi, o con le zampe
1585Sossopra voltolandoli, o co’ morsi
Leggermente offendendogli, sospesi
I denti, i molli sorsi a imitar prende;
Co ’l gannir della voce in altra guisa
Suole ad essi adular, che se lasciato
1590In casa del padrone urla, ed abbaja
O se fugge piangendo umile, e chino
Della rigida sferza i duri colpi.
In somma: non ti par, ch’assai diverso
Dir si deggia il nitrir fra le cavalle,
1595Quando nel fior dell’età sua trafitto
Il destrier dagli stimoli pungenti
Del Dio pennuto, incrudelisce, e sbuffa,
E feroce, e superbo armi, armi freme,
Da quando ei dalla greggia errando sciolto
1600Scuote i membri e nitrisce? E finalmente
I vari germi degli alati augelli,
Gli sparvieri, e gli astor, l’aquile e i merghi
Che del mar sotto l’onda e vitto, e vita
Cercan, voci assai varie in varj tempi
1605Forman, che se talor pe ’l cibo han guerra
E combatton la preda. Ed anco in parte
Mutan con le stagioni il rauco canto;
Qual fanno i corvi, e le cornacchie annose,
Qualor (se vera è la volgar credenza)
1610Chiaman l’acque, e le piogge, e i venti, e l’aure.
Dunque se gli animali, ancorchè muti,
Spinti da vari sensi ebbero in sorte
Di formar varie voci e varj suoni;
Quanto è più ragionevole che l’uomo
1615Potesse allor con altri nomi ed altri,
Altre ed altre appellar cose difformi?
Acciò poi che tu sappia in qual maniera
Ebber gli uomini il fuoco; il fulmin prima
Portollo in terra, indi ogni ardor si sparse:
1620Poichè molte veggiam cose incitate
Dalle fiamme del ciel ardere intorno
Là, ’ve caldi vapori erran per l’aure.
E pur; se vacillante, allor che ’l fiero
Soffio di borea impetuoso o d’austro
1625Scuote e squassa le selve e i rami, appoggia
D’antica pianta antica pianta ai rami;
Spesso avvien ch’eccitata e fuori espressa
Dal fregar vïolento al fin s’accende
Fiamma che sfavillando alluma il bosco,
1630Mentre tronco con tronco in varie guise
S’urta a vicenda e si consuma e stritola.
Il che dar similmente a noi mortali
Poteo le fiamme. A cuocer quindi il cibo
Co’ suoi caldi vapori ed ammollirlo
1635L’aureo sol n’insegnò; poichè percosse
Molte da’ vivi suoi raggi lucenti
Cose vedean per le campagne apriche
Deporre ogni acerbezza, e maturarsi.
Onde quei che più scaltri eran d’ingegno
1640Mostrar con cibi nuovi in nuovi modi
Cotti e conditi, ogni dì più inventandone,
Come l’antico vitto e la primiera
Vita aspra e rozza in delicata, e molle
Già mutar si potesse. I regi intanto
1645Cominciaro a fondar cittadi e rôcche
Per lor rifugio; indi gli armenti e i campi
Divisero, e secondo il proprio merto
Di beltà, di valor, d’ingegno e d’arte
Gli assegnaro a ciascun; chè molto allora
1650La bellezza era in pregio, e valea molto
La forza. Il mio e ’l tuo quind’inventossi;
E l’oro si trovò; che facilmente
A’ più vaghi di faccia a’ più robusti
Di membra ogni onor tolse, e gli uni e gli altri
1655Sottomesse a’ più ricchi ancorch’indegni.
Che se regger sua vita altri bramasse
Con prudenza, e con senno, è gran tesoro
Per l’uomo il viver parco allegramente;
Chè penuria già mai non fu del poco
1660In luogo alcun, ma desiar gli sciocchi
D’esser chiari e potenti, acciò ben ferma
Fosse la lor fortuna, a stabil base
Quasi appoggiata, e per poter mai sempre
Facultosi menar placida vita:
1665In van, poichè, salir tentando al sommo
Grado ed onor, tutto di spine e bronchi
Trovâr pieno il vïaggio; ove al fin giunti,
Spesso dal sommo ciel nell’imo abisso
L’invidia, quasi fulmine, gettolli
1670Con dispregio e con scherno. Ond’io per l’uomo
Stimo assai meglio un ubbidir quieto,
Ch’un voler con l’impero a varie genti
Dar legge e sostener scettri e diademi.
Lascia pur dunque omai, ch’altri s’affanni
1675In van sangue sudando, e per l’angusto
Calle dell’ambizion corra, e s’aggiri:
Poichè, quasi da fulmine percossi
Dall’invidia, cader sogliono a terra
Quei che son più degli altri eccelsi e grandi
1680Che sol per l’altrui bocca ad esser saggi
Apprendono, e gli onor chieggon più tosto
Mossi a ciò far dalle parole udite,
Che da’ proprj lor sensi. E non è questo
Più or nè sarà poi, che fosse innanzi.
1685Quindi, ucciso ogni re, sossopra omai
Giacea l’antica maestà del soglio,
E gli scettri superbi, e del sovrano
Capo il diadema illustre intriso, e lordo
Di polvere, e di sangue or sotto i piedi
1690Piangea del volgo il suo regale onore:
Che troppo avidamente altri calpesta
Ciò, che pria paventò. Dunque il governo
Tornava alla vil feccia, e all’ime turbe;
Mentr’ognuno il primato, e il sommo impero
1695Per se chiedea. Quindi insegnaro in parte
A crear magistrati, e promulgare
Leggi, a cui sottoporsi a tutti piacque;
Poichè il genere uman, di viver stanco
Per mezzo della forza, egro languiva
1700Fra guerra e inimicizie; ond’egli stesso
Tanto più volentier soppose il collo
Delle rigide leggi al grave giogo,
Quanto più aspramente a vendicarsi
Correa ciascun che dalle giuste, e sante
1705Leggi non si permette. Il viver quindi
Per mezzo della forza a tutti increbbe,
Ond’il timor delle promesse pene
Di nostra vita i dolci premj infetta:
Che la forza e l’ingiuria intorno avvolge
1710Ciascuno, e a quel ritorna assai sovente,
Onde già si partio. Nè facil cosa
È, che placida vita, e senza guerra
Viva chi della pace i comun patti
Viola con l’opre sue; poichè quantunque
1715Egli i numi immortali, e l’uman germe
Possa ingannar, creder non dee per questo,
Ch’ognor star deggia il maleficio occulto.
Poichè, parlando in sogno, o vaneggiando
Egri, molto sovente i lor misfatti,
1720Già gran tempo a ciascun celati indarno,
Propalar per se stessi, e ne pagaro,
Quando men se ’l credeano, acerbo il fio.
Or come degli Dei fra numerose
Genti la maestà si divolgasse;
1725Come d’altari ogni città s’empisse;
Come solenni sagrificj, e pompe
Fosser prima introdotte, onde anche adesso
Negli affari importanti e ne’ sacrati
Luoghi fioriscon venerande, e tale
1730Danno agli egri mortali alto spavento
Che già del terren globo in ogni parte
A drizzar novi templi a’ sommi Dei
Ne sforza, e a celebrarne i dì solenni,
Non è cosa difficile a sapersi.
1735Posciachè sin d’allor solean le genti
D’animo ancor ben deste, e vie più in sogno
Faccie egregie veder d’uomini eccelsi,
E corpi d’ammirabile grandezza.
Or perch’essi apparian di mover l’alte
1740Lor membra, e di vibrar voci superbe,
Come d’aspetto maestosi, e d’ampie
Forze, lor dieder senso, e non mortale
Vita indi attribuîr; poichè i lor volti
Eran sempre i medesmi, e la lor forma
Durava, e dura veramente eterna.
Nè punto a caso immaginar, che vinsi
Esser non potean mai da forza alcuna
Quei, che di sì gran forza eran dotati.
E in oltre s’avvisar, che di fortuna
1750Superasser di molto ogni mortale;
Perchè mai della morte il rio timore
Non potea tormentarli; e perchè in sogno
Molte far gli vedean cose ammirande
Senza punto stancarsi. A ciò s’aggiunga,
1755Ch’ess’intorno vedean con ordin certo
Moversi ’l cielo e in un co ’l ciel le varie
Stagion dell’anno; e non sapean di questo
Le varie cause investigare; e quindi
Prendean per lor refugio il dare a’ sommi
1760Numi il fren d’ogni cosa, e far, che il tutto
Obbedisca a’ lor cenni; e in ciel locavano
Degli alti Dei l’eterne sedi e i templi;
Perchè volgersi ’n ciel vedeano il sole
La luna, il dì, la notte, e della notte
1765Tutti i lucidi segni, e le vaganti
Notturne faci, e le volanti fiamme,
E le nubi, e le piogge, e la rugiada,
La neve, i venti, e i fulmini e l’acerba
Grandine, e i rapidissimi rimbombi
1770De’ tuoni, e il fiero murmure tremendo.
Povero uman lignaggio! Ahi quante allora
Egli a’ Numi immortali opre sì fatte
Diede, e lor l’ire aggiunse, le vendette!
Quanti, oh quanti esso allor pianti a se stesso,
1775Quante a noi piaghe acerbe, e a’ minor nostri
Quante, e quai partorìo lagrime amare?
Nè punto ha di pietà, che ’l sacerdote
Spesso velato il crin verso una sorda
Statua per terra si rivolga, e tutti
1780Corrano al sacro altar, nè, ch’ei s’inchini
Prostrato al suolo e tenda ambe le palme
Innanzi al tempio a i Numi sacro, e l’are
Di sangue di quadrupedi animali
Sparga in gran copia, e voti aggiunga a i voti,
1785Anzi è somma pietade il poter tutte
Mirar le cose, e con sereno ciglio
E con placido cor: che, mentre, ergendo
Gli occhi, ammiriam del vasto mondo i templi
Celesti alti e superni, e l’etra immobile
1790Tutt’ardente di stelle e viene in mente
Dell’aureo sole e della luna il corso,
Tosto dagli altri mali oppresso anch’egli
Quel noioso pensier di mezzo al petto
Il già desto suo capo al cielo estolle;
1795E qual forse gli Dei potere immenso
Abbiano occulto a noi ch’in varie guise
Ruoti i candidi segni, egro sospira:
Posciachè il dubbio cor dall’ignoranza
Tentato cerca, e se principio avesse
1800Il mondo e se ugualmente aver de’ fine,
E fino a quanto le sue mura, e tanti
Moti, e sì varj a tollerar sien atti
Così grave fatica, o pur se il tutto
Per opra degli Dei vita immortale
1805Goda e scorrendo per immenso spazio
Di tempo, disprezzar possa in eterno
D’età perpetua le robuste forze.
In oltre a chi non s’avvilisce il petto
Per timor degli Dei? Cui non vien meno
1810L’anima? Cui d’alto spavento oppresse
Non s’agghiaccian le membra, allor che d’ampia
Torrida nube il folgor piomba, e rapidi
Scorron per l’alto ciel murmuri orrendi?
Or non treman le genti, e il popol tutto?
1815Non quasi un mortal gelo i re superbi
Sentonsi al cor, mentre de’ numi eterni
Temon l’ire nemiche, allor che giunto
Credon quel tempo in cui de’ lor misfatti
Pagar debbono il fio? Che se l’immensa
1820Forza d’euro, e di noto in mar sonante
Squassa, e ruota su l’onde un sommo duce
In armata navale, e s’in quel punto
S’urtan le schiere avverse e gli elefanti,
Non chied’egli con voti a’ sommi dèi
1825Pace? non fa preghiere a i venti irati
Pauroso, e non chiede aure seconde?
In van, che nulla meno ei pur sovente
Da violento turbine assalito
Spinto è di morte al guado: in cotal guisa
1830Calca una certa violenza occulta
Tutte l’umane cose, e prende a scherno
I nobil fasci, e le crudeli scuri.
Al fin quando la terra orribilmente
Sotto i piè ne vacilla, e scosse al suolo
1835Caggiono o stanno di cadere in forse
Ampie terre, e città, qual meraviglia
È, se gli uomini allor cura non hanno,
Qual si dovria, di lor medesmi, e solo
Ampia danno agli dèi forza e ammiranda
1840Che freni, e volga a suo talento il tutto?
Nel resto il rame poi l’argento, e l’oro
Trovossi e il duro ferro, e il molle piombo,
allorchè sopra i monti arse le selve
Fiamma o da nube ardente ivi lanciata,
1845O da provida man per le foreste,
Ove allor combatteasi, in guerra accesa
Per terror de’ nemici; o perch’indotti
Dalla fertilità d’alcun terreno
Scoprir grasse campagne, e paschi erbosi
1850Voleano; o ancider fere, ed arricchirsi
Di preda. Conciossiachè molto prima
Nacque il cacciar co ’l foco, e con le fosse,
Che il cinger con le reti, e con le strida
E co’ bracchi, e co’ veltri, e co’ mastini
1855Destar le selve. Or che che sia di questo,
Per qualunque ragion la fiamma edace
Fin dall’ime radici in suon tremendo
Divorasse le selve, e il suolo ardesse;
Dalle fervide vene entro i più cavi
1860Luoghi del monte un convenevol rio
Scorrea di puro argento, e di fin oro,
E di piombo, e di rame, che rappreso
Poscia al suolo splendea d’un vivo, e chiaro
Lume, e d’un liscio, e nitido lepore,
1865Dalla cui dolce vista affascinati
Gli uomini ’l si prendean; quindi, veggendo
Ch’egli in se ritenea la forma stessa
Ch’avean le cave pozze, onde fu tratto,
Tosto allor s’accorgean, che trasformarsi
1870Liquefatto dal fuoco in ogni forma
Potea di cose, e quanto altrui piacesse
Co ’l batterlo, e limarlo, ed arrotarlo,
Tirarsi in punte acute, ed in sottili
Tagli, onde poscia di saette armarsi
1875Potessero, e tagliar piante silvestri,
E spianar la materia, e rimondare
Le travi, e gli altri necessarj arredi
Per uso delle fabbriche, e pulirli
Anco, e forarli e conficcarli insieme.
1880Nè men punto adoprar sì fatte cose
Con l’argento, e con l’or gli uomini prima
S’accingean che co ’l forte, e duro rame:
In van, posciachè vinta ogni sua possa
Era a ceder costretta, e non potea
1885Soffrir tanta fatica. Indi in maggiore
Pregio era il rame, e l’or negletto, e vile
Giaceasi inutil pondo; or all’incontro
Si giace il rame, e in sommo pregio è l’oro.
Tal delle umane cose i tempi muta
1890La volubil età. Quel, che una volta
Caro esser ne solea, d’ogni onor privo
Finalmente divien. Quindi succede,
Che l’or già dispregevole, com’era
Non sembra; anzi viepiù di giorno in giorno
1895E bramato, e cercato, e ritrovato,
Di lodi adorno fra mortali sciocchi
Fiorisce, ed ha meravigliosi onori.
Or tu per te medesmo agevolmente
Ben conoscer potrai, come trovata
1900Fosse del ferro la natura, e l’uso.
Armi pria fur le mani, e l’ugna, e i denti,
E i sassi, e in un co’ sassi i tronchi rami
De’ boschi, e poi che ne fur note in prima
Le fiamme, e ’l foco, indi trovossi il ferro
1905E il rame; e pria del ferro il rame in opra
Fu messo, perchè allor copia maggiore
N’era e vie più trattabile natura
Avea del ferro. Essi la terra adunque
Coltivavan co ’l rame; in guerra armati
1910Di rame usciano, e tempestosi flutti
Mescean fra lor d’avverse schiere, e vaste
Piaghe fean tra nemici, e i greggi e i campi
Rapian: che armati essendo, agevolmente
Tosto ognun lor cedea nudo ed inerme.
1915Quindi di passo in passo i ferrei brandi
Dagli uomini inventati, e quindi volte
Furo in obbrobrio e in disonor le falci
Di rame; e cominciar gli agricoltori
A fender della terra il duro seno
1920Solamente col ferro; et adeguati
Fur della guerra i perigliosi incontri.
E pria fu da’ mortali in uso posto
Il salir su i cavalli e moderarli
Co ’l freno; e con la spada armar la mano,
1925Che il tentar sovra i carri a due corsieri
Della guerra i perigli. E i carri a due
S’inventar, pria ch’a quattro e che di falci
Crudeli armati. Indi a’ lucani buoi
Gravar di torri il vasto orribil dorso
1930I peni, ed insegnar delle battaglie
A soffrir le ferite e in strane guise
Di Marte a scompigliar l’ampie caterve:
Tal d’altro altro poteo l’empia e crudele
Discordia partorir, che all’uman germe
1935Fosse poi spaventevole fra l’armi;
E tal sempre viepiù di giorno in giorno
Della guerra al terror terrore accrebbe.
Tentaro i Tauri anche in battaglia, e spesso
Fer prova d’inviar contro i nemici
1940I crudeli cignali; e in lor difesa
I Parti vi mandar fieri leoni,
Con severi maestri, e con armate
Guide, che a moderarli e porli freno
Fosser bastanti: Invan, poichè infiammati
1945Di strage indifferente ambe le schiere
Scompigliavan crudeli, e de’ lor capi
D’ogni intorno scotean l’orribil creste,
Nè potean de’ cavalli i cavalieri
Piegare i petti spaventati e messi
1950Da’ lor fremiti in fuga e rivoltarli
Col fren contro i nemici. E d’ogni parte
Le leonze irritate a precipizio
Si lanciavan dal bosco, e i vïandanti
Assalian furibonde e inaspettate
1955Gli rapivan da tergo, e con acerbe
Piaghe a terra gettandoli i crudeli
Denti in essi affiggeano e l’ugne adunche.
Agitati i cignali eran da’ tori,
E calpesti co’ piedi, e per disotto
1960Spalancati i cavalli i fianchi, e il ventre
Dalle corna robuste ed atterrati
Dagli urti in minaccevole sembiante.
Ma con l’orride zanne i fier cignali
I compagni uccidean, del proprio sangue
1965Tingendo i dardi in sè spezzati; e miste
Stragi facean di cavalieri e fanti:
Con ciò sia ch’i cavalli o dell’irato
Morso schivando i perigliosi incontri
Lanciavansi a traverso o con le zampe
1970Movean eretti aspra battaglia ai venti;
In van, poichè: da’ nervi i piè succisi,
Ruinar li vedresti e gravemente
Sovra ’l duro terren battere il fianco.
Che se alcuni abbastanza essere innanzi
1975Domi in casa credean, nel maneggiarli
S’accorgean ch’irritati e d’ire accesi
Eran poi dalle piaghe e dalle strida,
Dal terror, dalla fuga e dal tumulto;
Poichè tutti fuggian, come sovente
1980Mal difesi dal ferro or gli elefanti
Soglion anco fuggir, tra’ suoi lasciando
Molte di ferità vestigia orrende.
Sì far potean: ben ch’io mi creda a pena
Ch’essi pria molto bene imaginarsi
1985Non dovesser con l’animo e vedere
Quanto gran comun danno e laido scempio
Fosse poi per succederne, e piuttosto
Contrastar si potria che ciò nel tutto
Sia più volte accaduto in varj mondi
1990Variamente creati che in un certo
E solo orbe terren. Ma ei non tanto
Ciò fer con speme di futura palma,
Quanto per dar che gemere a’ lor fieri
Nemici e disperati essi morire
1995Diffidando del numero e dell’armi.
Pria di nessili vesti il nudo corpo
Gli uomini si coprian, che di tessuto
Manto. Il manto tessuto è dopo il ferro:
Chè solo il ferro a prepararne è buono
2000Gli stromenti da tessere, e non pônno
Farsi per altra via tanto pulite
Le fusa, i subbi, i pettini, le spole,
Le sbarre, i licci e le sonanti casse.
Ma pria le lane a lavorar costretto
2005Da natura fu l’uom che il femminile
Sesso; poichè nell’arti il viril germe
Preval molto alle donne, e di gran lunga
È di lor più ingegnoso e diligente;
E ciò, fin ch’i severi agricoltori
2010Se l’ascrisser a vizio e v’impiegaro
Le femmine, e per sè volser più tosto
Soffrir dure fatiche e in opre dure
Durar le membra et incallir le mani.
Fu poi delle semente e degl’innesti
2015Prima saggio, ed origine la stessa
Creatrice del tutto alma natura.
Conciossiachè le bacche, e le caduche
Ghiande sotto i lor alberi nascendo
Tempestivi porgean sciami di figli;
2020Onde tratto eziandio fu l’inserire
L’una pianta nell’altra, e sotterrarne
Nel suol pe’ campi i giovani rampolli.
Quindi tentar del dolce campicello
Altre ed altre colture: e vider quindi
2025Farsi ogn’or più domestici e più dolci
I salvatichi frutti, accarezzando
La terra e con piacevoli lusinghe
Più e più coltivandola. E sforzaro
Le selve e i boschi a ritirarsi a’ monti
2030Cedendo i luoghi inferiori ai culti,
Per aver poi ne’ campi e su pe’ colli
E prati, e laghi, e rivi, e grasse biade,
E dolci e liete vigne; e perchè lunghi
Tratti potesser di cerulei olivi
2035Profusi ir distinguendo e per l’apriche
Collinette, e pe’ campi e per le valli:
Quali appunto vedersi anco al presente
Può di vario lepor tutto distinto
Ciò che di dolci intramezzati pomi
2040Ornan gl’industri agricoltori, e cinto
Tengon intorno di felici arbusti.
In oltre il contraffar le molli voci
Degli augei con la bocca innanzi molto
Fu ch’in musiche note altri potesse
2045Snodar la lingua al canto e dilettarne
L’orecchie. E pria gli zeffiri spirando
Per lo vano de’ calami palustri
Insegnar co’ lor sibili a dar fiato
Alle rustiche avene. Ind'impararo
2050Gli uomini a poco a poco i dolci pianti,
Che sparger tocca da maestra mano
La piva suol, che per le selve e i boschi
Trovossi e per l’antiche erme foreste
Alberghi de’ pastori, e tra felici
2055Ozj divini. In simil guisa adunque
Trae fuor l’etade a poco a poco ogni arte
Dal bujo in cui si giacque, e la ragione
L’espon del giorno al lume. Or con sì fatte
Cose addolcir solean le prime genti
2060L’animo, allor che sazio aveano il corpo
Di cibo; poichè allor sì fatte cose
Tutte in grado ne son. Dunque prostrati
Non lungi al dolce mormorar d’un rio
Fra molli erbette i pastorelli, all’ombra
2065Di salvatiche piante, il proprio corpo
Tenean col poco in allegrezza, e in festa:
Massime allor che la stagion ridente
Dell’anno il prato cospergea di fiori.
Allora in uso eran gli scherzi, allora
2070Le facete parole, allora il dolce
Sganasciarsi di risa, allor festante
L’amorosa lascivia incoronava
Le spalle e ’l capo con ghirlande inteste
Di fior novelli, e di novelle frondi,
2075Incitando a ballar quel popol rozzo
Goffamente e senz’arte, ed a ferire
Con dolci salti alla gran madre il dorso;
Onde nascer solean dolci cachinni.
Perchè allor viepiù nuove et ammirande
2080Eran tai cose; e quindi avean del sonno
Il dovuto conforto i vigilanti,
Variando e piegando in molti modi
Le voci e ’l canto e con adunco labbro
Scorrendo sovra i calami. E disceso
2085Quindi ancor si conserva un tal costume
Appo quei, che da morbo e da nojosa
Cura infestati, il consueto sonno
Perdono. E benchè questi appreso omai
Abbiano il modo di sonar con arte,
2090Osservando de’ numeri concordi
Le varie specie, essi però maggiore
Frutto alcun di dolcezza indi non hanno
Di quel, che della terra i rozzi figli
Aveano allor: che le presenti cose
2095(Se non se forse di più care e dolci
Pria si gustar) principalmente al senso
Piaccion, e s’han dall’uomo in sommo pregio.
Ma la nova, e miglior quasi corrompe
L’antiche invenzioni, e muta i sensi
2100A ciò, che pria ne fu soave. In questa
Guisa l’acqua, e le ghiande incominciaro
Da gli uomini a schifarsi; e posti ’n uso
Fur da tutti in lor vece il grano, e l’uva.
In questa guisa a poco a poco i letti
2105Stesi d’erbe, e di frondi, abbandonati
Furo, e il suo primo onor perse la pelle,
E la veste ferina; ancorchè fosse
Trovata allor con sì maligna invidia:
Che ben creder si dee, che a tradimento
2110Fosse ucciso colui, che pria portolla;
E che al fin tra le spade insidiose
Tutta del proprio sangue intrisa e lorda
Fosse astretto a lasciarla, e non potesse
Trarne a pro di se stesso utile alcuno.
2115Allor dunque le pelli, or l’oro, e l’ostro
Ne travaglian la vita, e d’odiose
Cure n’empiono il petto, e ne fan guerra;
Onde a quel, che stim’io, viepiù la colpa
Risiede in noi, che della terra i nudi
2120Figli del duro ghiaccio aspro tormento
Senza pelle soffrian. Ma nulla offende
Noi l’esser privi di purpureo manto,
Di ricchi fregi e di fin oro intesto;
Pur che veste plebea l’ignude membra
2125Ricopra e dal rigor del verno algente
Possa intatti serbarne. Indarno adunque
Suda il genere uman sempre e s’affanna
E fra vani pensier l’età consuma,
Sol perch’ei non conosce e non apprezza
2130Punto qual sia dell’aver proprio il fine
E fin dove il piacer vero s’estenda.
E ciò ne spinse a poco a poco in alto
Mare a fidar la vita ai venti infidi,
E fin dall’imo fondo ampi bollori
2135D’aspre guerre eccitò. Ma i vigilanti
Globi del sole e della luna, intorno
Girando e compartendo il proprio lume
Al gran tempio e versatile del mondo,
Agli uomin’ insegnar come dell’anno
2140Si volgan le stagioni e come il tutto
Nasce con certa legge ed ordin certo.
Già di forti muraglie e di sublimi
Torri cinti viveansi, e già divisa
S’abitava la terra; allor fioriva
2145Di curvi pini il mar; già collegati
L’un l’altro avean aiuti, avean compagni:
Quando in versi a cantar l’opre famose
Cominciaro i poeti, e poco innanzi
Fur le lettre inventate; indi non puote
2150L’età nostra veder ciò che s’oprasse
In pria, se non se fin là ’ve ne addita
I vestigj ’l discorso. Or la cultura
De’ campi, e l’alte rocche e le robuste
Mura e le navi audaci, e le severe
2155Leggi, l’armi, le vie, le vesti e l’altre
Cose a lor somiglianti, e tutte in somma
Del viver le delizie, i dolci carmi
Le ingegnose pitture e le Dedalee
Statue, l’uso insegnonne e dell’impigra
2160Mente il discorso, il qual di passo in passo
Sempre s’avanza. In cotal guisa adunque
Trae fuor l’etade a poco a poco il tutto
Dal bujo in cui si giacque, e la ragione
L’espon del giorno a’ luminosi raggi:
2165Poichè far si vedea nota con l’arte
L’una cosa dall’altra, infin che giunti
Fur dell’umana industria al sommo giogo.