< Demetrio
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Atto secondo
Atto primo Atto terzo

ATTO SECONDO

SCENA I

Galleria.

Alceste ed Olinto.

Alceste. E tu per qual ragione

mi contendi l’ingresso? Al regio piede
necessario è ch’io vada. (in atto d’inoltrarsi)
Olinto.   Andar non lice:
la regina lo vieta, Olinto il dice.
Alceste. Attenderò fintanto
che fia permesso il presentarmi a lei.
Olinto. Son pure i detti miei
chiari abbastanza. A Cleonice innanzi
piú non déi comparir. Ti vieta il passo
alla real dimora,
né mai piú vuol mirarti. Intendi ancora?
Alceste. Piú mirarmi non vuole? Oh dèi! mi sento
stringere il cor.
Olinto.   Questo comando, Alceste,
t’agghiaccia, io me n’avvedo.
Alceste. No, perdonami, Olinto, io non ti credo.
Non è la mia regina
tanto ingiusta con me. Né v’è ragione
che a sí gran pena un suo fedel condanni.
O ingannar ti lasciasti, o tu m’inganni.
Olinto. E ardisci dubitar de’ detti miei?
Alceste. Se troppo ardisco, io lo saprò da lei.
  (in atto d’entrare, s’incontra in Mitrane)
Olinto. Férmati!

SCENA II

Mitrane e detti.

Mitrane.   Alceste, e dove?

Alceste. Non arrestarmi. A Cleonice io vado.
Mitrane. Amico, a te l’ingresso
all’aspetto real non è permesso.
Alceste. Ed è vero il divieto?
Mitrane. Pur troppo è ver.
Alceste.   Deh! per pietá, Mitrane,
intercedi per me. Ritorna a lei:
dille che a questo colpo
io resister non so; che alcun l’inganna;
che reo non sono; e che, se reo mi crede,
io saprò discolparmi al regio piede.
Mitrane. Ubbidirti non posso. Ha la regina
che di te non si parli a noi prescritto;
e ’l nominarle Alceste anch’è delitto.
Alceste. Ma qual è la cagione?
Mitrane.   A me la tace.
Alceste. Ah! son tradito. Una calunnia infame
mi fa reo nel suo core:
ma tremi il traditore,
qualunque sia. Non lungamente occulto
al mio sdegno sará. Su l’are istesse
correrò disperato
a trafiggergli il sen.
Olinto.   Queste minacce
sono inutili, Alceste.
Alceste.   Amici, oh Dio!
perdonate i trasporti
d’un’anima agitata. In questo stato
son degno di pietá. Da voi la chiedo;
voi parlate per me. Voi muova almeno

veder, ne’ mali suoi,

ridotto Alceste a confidarsi in voi.
          Non v’è piú barbaro
     di chi non sente
     pietá d’un misero,
     d’un innocente,
     vicino a perdere
     l’amato ben.
          Gli astri mi uccidano,
     se reo son io:
     ma non dividano
     dal seno mio
     colei ch’è l’anima
     di questo sen. (parte)

SCENA III

Olinto e Mitrane.

Olinto. La caduta d’Alceste alfin, Mitrane,

m’assicura lo scettro. Io con la speme
ne prevengo il piacer.
Mitrane.   Fidarsi tanto
non deve il saggio alle speranze. Un bene
con sicurezza atteso, ove non giunga,
come perdita affligge. E poi t’inganni,
se divenir felice
speri cosí. Felicitá sarebbe
regno inver, se i contumaci affetti
rispettassero il trono; onde, cingendo
la clamide real, piú non restasse
altro a bramar. Ma da un desire estinto
germoglia un altro, e nel cambiare oggetto
non scema di vigor. Se pace adesso

solo in te stesso ritrovar non sai,

ancor nel regio stato
infelice sarai, come privato.
Olinto. Felicitá non credi
del comando il piacer?
Mitrane.   L’uso d’un bene
ne scema il senso. Ogni piacer sperato
è maggior che ottenuto. Or non comprendi
di qual peso è il diadema, e quanto studio
costi l’arte del regno.
Olinto.   Il regno istesso
a regnare ammaestra.
Mitrane.   È ver; ma sempre
s’impara errando, ed ogni lieve errore
si fa grande in un re.
Olinto.   Tanta dottrina
non intendo, Mitrane. Il brando e l’asta
solo appresi a trattar. Gli affetti umani
investigar non è per me. Bisogna
per massime sí grandi
etá piú ferma, e frequentar conviene
d’Egitto i tempii o i portici d’Atene.
Mitrane. Ma d’Atene e d’Egitto
il saper non bisogna
per serbarsi fedel. Tu fino ad ora
non amasti Barsene?
Olinto.   E l’amo ancora.
Mitrane. E puoi, Barsene amando,
compiacerti d’un trono,
per cui la perdi?
Olinto.   E comparar tu puoi
la perdita d’un core
coll’acquisto d’un regno?
Mitrane.   A queste prove
chi è fedel si distingue.
Olinto.   Eh! che in amore

fedeltá non si trova. In ogni loco

si vanta assai, ma si conserva poco.
          È la fede degli amanti
     come l’araba fenice:
     che vi sia, ciascun lo dice;
     dove sia, nessun lo sa.
          Se tu sai dov’ha ricetto,
     dove muore e torna in vita,
     me l’addita, e ti prometto
     di serbar la fedeltá. (parte)

SCENA IV

Mitrane, poi Cleonice e Barsene.

Mitrane. Un’aura di fortuna,

che spira incerta, è a sollevar bastante
quell’anima leggiera. Il regio scettro
giá tratta Olinto, e si figura in trono.
Quanto deboli sono
fra i ciechi affetti lor le menti umane!
Cleonice. Olá! scriver vogl’io. (ad un paggio)
  Parti, Mitrane.
Mitrane. Ubbidisco al comando. (in atto di partire)
Cleonice.   Odimi: Alceste
piú di me non ricerca?
Mitrane.   Anzi, o regina,
altra cura non ha; ma l’infelice...
Cleonice. Parti; basta cosí. Senti.
  (a Mitrane, che s’incammina per partire)
  Che dice?
Mitrane.   Dice che t’è fedele:
     dice che alcun t’inganna;
     che tu non sei tiranna;
     c’hai troppo bello il cor:

          che ti vedrá placata:

     e vuol morirti al piede,
     vittima sventurata
     d’un infelice amor. (parte)

SCENA V

Cleonice e Barsene.

Barsene. Regina, è pronto il foglio. I sensi tuoi

spiega in quello ad Alceste.
Cleonice.   Ah! che in tal guisa
son troppo a lui, son troppo a me crudele.
Voglio vincermi, e voglio
dividerlo da me. L’attende il regno,
l’onor mio lo consiglia, il ciel lo vuole:
io lo farò. Ma dal mio labbro almeno
vorrei che lo sapesse. È tirannia
annunziar con un foglio
sí barbara novella. Altro sollievo
non resta, amica, a due fedeli amanti
costretti a separarsi,
che a vicenda lagnarsi,
che ascoltare a vicenda
d’un lungo amor le tenerezze estreme,
e nell’ultimo addio piangere insieme.
Barsene. Questo è sollievo? Ah! di vedere Alceste
il desio ti seduce. A tal cimento
non esporti di nuovo. Assai facesti
resistendo una volta. Il frutto perdi
della prima vittoria,
se tenti la seconda. Io te conosco
piú debole d’allora,
e ’l nemico è piú forte. Eh! la grand’opra
generosa compisci. I tuoi vassalli
fidano in te. Dal superar costante

questo passo crudel, ch’ora t’affanna,

pende la gloria tua.
Cleonice.   Gloria tiranna!
Dunque per te degg’io
morir di pena, e rimaner per sempre
cosí d’ogni mio ben vedova e priva?
Legge crudel! t’appagherò. Si scriva.
  (va a scrivere al tavolino)
Barsene. (Par che m’arrida il fato:
non dispero d’Alceste.)
Cleonice. (scrivendo)  «Alceste amato»...
Barsene. (Lusingarmi potrò d’esser felice,
se la gloria resiste
fra i moti di quel cor pochi momenti.)
Cleonice. «E’ non vuole il destin farci contenti»... (scrivendo)
Barsene. (Cresce la mia speranza. Oh dèi! sospende
la man tremante e si ricopre il volto.
Ah! che ritorna ai primi affetti in preda.)
Cleonice. Povero Alceste mio! (parlando; poi torna a scrivere)
Barsene.   (Temo che ceda.
Io, nel caso di lei,
non so dir che farei.)
Cleonice. (scrivendo)  «Vivi, mio bene,
ma non per me». Giá terminai, Barsene.
Barsene. (Eccomi in porto!) Or giustamente al trono
un’anima sí grande il ciel destina.
Cleonice. Prendi, e tua cura sia... (volendole dare il foglio)

SCENA VI

Fenicio e detti.

Fenicio.   Pietá! regina.

Cleonice. Ma per chi?
Fenicio.   Per Alceste. Io l’incontrai
pallido, semivivo, e per l’affanno

quasi fuori di sé. La dura legge

di piú non rivederti
è un colpo tal, che gli trafigge il core,
che la ragion gli toglie,
che lo porta a morir. Freme, sospira,
prega, minaccia; e fra le smanie e ’l pianto
sol di te si ricorda,
il tuo nome ripete ad ogni passo:
farebbe il suo dolor pietade a un sasso.
Cleonice. Ah, Fenicio crudel! Da te sperava
la vacillante mia
mal sicura virtú qualche sostegno,
non impulsi a cader. Perché ritorni
barbaramente a ritentar la viva
ferita del mio cor?
Fenicio.   Perdona al zelo
del mio paterno amor questo trasporto.
Alceste è figlio mio,
figlio della mia scelta,
figlio del mio sudor; pianta felice,
custodita finora
dalle mie cure e dai consigli miei,
cresciuta al fausto raggio
del tuo regio favor; speme del regno,
di mia cadente etá speme e sostegno.
Barsene. (Zelo importuno!)
Fenicio.   E inaridir vedrassi
cosí bella speranza in un momento?
Regina, in me non sento
sí robusta vecchiezza e sí vivace,
che possa a questo colpo
sopravvivere un dí.
Cleonice.   Che far poss’io?
Che vuole Alceste? E qual da me richiede
conforto al suo martíre?
Fenicio. Rivederti una volta, e poi morire.

Cleonice. Oh Dio!

Fenicio.   Bella regina,
ti veggo intenerir. Pietá di lui,
pietá di me! Questo canuto crine,
la lunga servitú, l’intatta fede
merita pur ch’io qualche premio ottenga.
Cleonice. Eh! resista chi può: digli che venga.
  (lacera il foglio e si alza da sedere)
Barsene. (Ecco di nuovo il mio sperare estinto.)
Fenicio. (Basta che vegga Alceste, e Alceste ha vinto.)
  (in atto di partire, s’incontra in Olinto)

SCENA VII

Olinto e detti.

Olinto. Padre, regina, Alceste

piú in Seleucia non è. Per opra mia
giá ne partí.
Cleonice.   Come!
Fenicio.   Perché?
Olinto.   Voleva
rivederti, importuno, ad ogni prezzo.
Io gl’imposi in tuo nome
la legge di partir.
Cleonice.   Ma quando avesti
questa legge da me? Custodi, o dèi!
  (escono alcune guardie)
si cerchi, si raggiunga,
si trovi Alceste, e si conduca a noi.
  (partono le guardie)
Fenicio. Misero me!
Cleonice.   Se la ricerca è vana, (ad Olinto)
trema per te. Mi pagherai la pena
del temerario ardir.
Olinto.   Credei servirti,

un periglioso inciampo

togliendo alla tua gloria.
Cleonice.   E chi ti rese
sí geloso custode
del mio decoro e della gloria mia?
Avresti mai potuto,
Fenicio, preveder questa sventura?
Il mondo tutto a danno mio congiura.
          Nacqui agli affanni in seno;
     e dall’infausta cuna
     la mia crudel fortuna
     venne finor con me.
          Perdo la mia costanza,
     m’indebolisce amore;
     e poi del mio rossore
     né meno ho la mercé. (parte)

SCENA VIII

Fenicio, Olinto e Barsene.

Olinto. Signor, di Cleonice

non vidi mai piú stravagante ingegno.
Odia in un punto ed ama:
or Alceste dimanda, or lo ricusa;
e delle sue follie poi gli altri accusa.
Fenicio. Cosí la tua sovrana,
temerario, rispetti? Impara almeno
a tacere una volta. Ah! ch’io dispero
di poterlo emendar.
Barsene.   Matura il senno
al crescer dell’etade. Olinto ancora
degli anni è su l’april.
Fenicio.   Barsene, anch’io
scorsi l’april degli anni: e folto e biondo

fu questo crin ch’ora è canuto e raro;

e allora, oh etá felice!
non con tanto disprezzo
al consiglio de’ saggi
la stolta gioventú porgea l’orecchia.
Declina il mondo, e peggiorando invecchia. (parte)

SCENA IX

Olinto e Barsene.

Olinto. Per appagar la strana

senile austeritá, dovremo noi
cominciar dalle fasce a far da eroi?
Barsene, altri pensieri
chiede la nostra etá. Dimmi se Olinto
vive piú nel tuo core.
Barsene.   Eh! che tu vuoi
deridermi, o signor. Le mie cangiasti
con piú belle catene:
alla regina sua cede Barsene.
          So che per gioco
     mi chiedi amore;
     ma poche lagrime,
     poco dolore
     costa la perdita
     d’un infedel.
          A un altro oggetto,
     che tu non sai,
     anch’io l’affetto
     finor serbai,
     e in sí bel foco
     vivrò fedel. (parte)

SCENA X

Olinto.

Di Barsene i disprezzi,

l’ire di Cleonice,
la fortuna d’Alceste ed i severi
rimproveri paterni avrian d’ogni altro
sgomentato l’ardir: ma non per questo
Olinto si sgomenta. Ai grandi acquisti
gran coraggio bisogna, e non conviene
temer periglio o ricusar fatica:
ché la fortuna è degli audaci amica.
          Non fidi al mar che freme
     la temeraria prora
     chi si scolora — e teme
     sol quando vede il mar.
          Non si cimenti in campo
     chi trema al suono, al lampo,
     d’una guerriera tromba,
     d’un bellicoso acciar. (parte)

SCENA XI

Camera con sedie.

Cleonice e poi Mitrane.

Cleonice. Eccoti, Cleonice, al duro passo

di rivedere Alceste,
ma per l’ultima volta. Avrai coraggio
d’annunziargli tu stessa
la sentenza crudel che t’abbandoni,

che si scordi di te? Quant’era meglio

non impedir la sua partenza!
Mitrane.   Alceste,
regina, è qui, che, ritornato in vita
dopo tante vicende,
di rivederti impaziente attende.
Cleonice. (Giá mi palpita il cor.)
Mitrane.   Fenicio il vide:
l’assicurò, gli disse
quanto può nel tuo core; e parve allora
fior che, dal gelo oppresso,
risorga al sol. Rasserenò la fronte,
il pallor colorí, cangiò sembianza:
ripieno è di speranza;
e, al piacere improvviso,
l’allegrezza e l’amor gli ride in viso.
Cleonice. (E perderlo dovrò?) Parti, Mitrane:
digli che venga. In queste
stanze l’attendo.
Mitrane.   Oh fortunato Alceste! (parte)
Cleonice. Magnanimi pensieri
e di gloria e di regno, ah! dove siete?
Chi vi fugò? Per mia difesa al fiero
turbamento ch’io provo,
vi ricerco nell’alma, e non vi trovo.
Questo, questo è il momento
terribile per me. Qual posso in voi
speranza aver, se, intimoriti al solo
nome dell’idol mio, m’abbandonate?
Tornate, oh Dio! tornate:
radunatevi tutti intorno al core
l’ultimo sforzo a sostener d’amore.

SCENA XII

Alceste e detta.

Alceste. Adorata regina, io piú non credo

che di dolor si muora. È folle inganno
dir che affretti un affanno
l’ultime della vita ore funeste:
se fosse ver, non viverebbe Alceste.
Ma, se questa produce
sospirata mercé la pena mia,
la pena, ch’io provai,
in questo punto è compensata assai.
Cleonice. (Tenerezze crudeli!)
Alceste.   Ah! se l’istessa
per me tu sei, come per te son io;
s’è ver che posso ancora
tutto sperar da te, qual fu l’errore,
per cui tanto rigore
io da te meritai, dimmi una volta.
Cleonice. Tutto, Alceste, saprai: siedi e m’ascolta.
Alceste. Servo al sovrano impero.
Cleonice. (Io gelo e temo.) (siede)
Alceste.   (Io mi consolo e spero.) (siede)
Cleonice. Alceste, ami da vero
la tua regina, o t’innamora in lei
lo splendor della cuna,
l’onor degli avi e la real fortuna?
Alceste. Cosí bassi pensieri
credi in Alceste? o con i dubbi tuoi
rimproverar mi vuoi
le paterne capanne? Io fra le selve,
ove nacqui, ove crebbi,
o lasciai questi sensi, o mai non gli ebbi.
In Cleonice adoro

quella beltá che non soggiace al giro

di fortuna e d’etade: amo il suo core;
amo l’anima bella
che, adorna di se stessa
e delle sue virtú, rende allo scettro
ed al serto real co’ pregi sui
luce maggior che non ottien da lui.
Cleonice. Da cosí degno amante
un magnanimo sforzo
posso dunque sperar?
Alceste.   Qualunque legge
fedele eseguirò.
Cleonice.   Molto prometti.
Alceste. E tutto adempirò. Non v’è periglio,
che lieve non divenga
sostenuto per te. N’andrò sicuro
a sfidar le tempeste: inerme il petto
esporrò, se lo chiedi, incontro all’armi.
Cleonice. Chiedo molto di piú: convien lasciarmi.
Alceste. Lasciarti? Oh dèi! che dici?
Cleonice. E lasciarmi per sempre, e in altro cielo
viver senza di me.
Alceste.   Ma chi prescrive
cosí barbara legge?
Cleonice.   Il mio decoro,
il genio de’ vassalli,
la giustizia, il dover, la gloria mia,
quella virtú che tanto
ti piacque in me, quella che al regio serto
rende co’ pregi sui
luce maggior che non ottien da lui.
Alceste. E con tanta costanza
chiedi ch’io t’abbandoni?
Cleonice.   Ah! tu non sai...
Alceste. So che non m’ami, e lo conosco assai. (s’alza)
Appaga la tua gloria,

contenta i tuoi vassalli,

servi alla tua virtú, porta sul trono
la taccia d’infedele. Io tra le selve
porterò la memoria
viva nel cor della mia fé tradita,
se pure il mio dolor mi lascia in vita.
  (in atto di partire)
Cleonice. Deh! non partire ancor.
Alceste.   Del tuo decoro
troppo son io geloso. Un vil pastore
con piú lunga dimora avvilirebbe
il tuo grado real.
Cleonice.   Tu mi deridi,
ingrato Alceste!
Alceste.   Io sono
veramente l’ingrato! io t’abbandono!
Io sacrifico al fasto
la fede, i giuramenti,
le promesse, l’amor! Barbara! infida!
inumana! spergiura!
Cleonice.   Io dal tuo labbro
tutto voglio soffrir. S’altro ti resta,
sfògati pur. Ma, quando
sazio sei d’insultarmi, almen per poco
lascia ch’io parli.
Alceste.   In tua difesa, ingrata!
che dir potrai? D’infedeltá sí nera
la colpa ricoprir forse tu credi?
Cleonice. Non condannarmi ancor. M’ascolta e siedi.
Alceste. (Oh dèi, quanto si fida
nel suo poter!) (torna a sedere)
Cleonice.   Se ti ricordi, Alceste,
che per due lustri interi
fosti de’ miei pensieri
il piú dolce pensier, creder potrai
quanto barbara sia

nel doverti lasciar la pena mia.

Ma, in faccia a tutto il mondo,
costretta Cleonice
ad eleggere un re, piú col suo core
consigliarsi non può; ma deve, oh Dio!
tutti sacrificar gli affetti sui
alla sua gloria ed alla pace altrui.
Alceste. Arbitra della scelta
non ti rese il Consiglio?
Cleonice.   È ver: potrei
dell’arbitrio abusar, condurti in trono;
ma credi tu che tanti
ingiustamente esclusi
ne soffrissero il torto? Insidie ascose,
aperti insulti e turbolenze interne
agiteriano il regno,
Alceste e me. La debolezza mia,
la tua giovane etade, i tuoi natali
sarian armi all’invidia. I nostri nom
sarian per l’Asia in mille bocche e mille
vil materia di riso. Ah! caro Alceste,
mentiscano i maligni. Altrui d’esempio
sia la nostra virtú. Quest’atto illustre
compatisca ed ammiri
il mondo spettator. Dagli occhi altrui
qualche lagrima esiga il caso acerbo
di due teneri amanti,
per la gloria capaci
di spezzar volontari i dolci nodi
di cosí giusto e cosí lungo amore.
Alceste. Perché, barbari dèi, farmi pastore!
Cleonice. Va’: cediamo al destin. Da me lontano
vivi felice; il tuo dolor consola.
Poco avrai da dolerti
ch’io ti viva infedele, anima mia.
Giá da questo momento

io comincio a morir. Questo, ch’io verso,

fors’è l’ultimo pianto. Addio! Non dirmi
mai piú che infida e che spergiura io sono.
Alceste. Perdono, anima bella, oh Dio! perdono.
Regna, vivi, conserva (s’alza e s’inginocchia)
intatta la tua gloria. Io m’arrossisco
de’ miei trasporti; e son felice appieno,
se da un labbro sí caro
tanta virtú, tanta costanza imparo.
Cleonice. Sorgi, parti, s’è vero
che ami la mia virtú.
Alceste.   Su quella mano,
che piú mia non sará, permetti almeno
che imprima il labbro mio
l’ultimo bacio, e poi ti lascio.
Cleonice e Alceste.   Addio!
Alceste.   Non so frenare il pianto,
     cara, nel dirti addio:
     ma questo pianto mio
     tutto non è dolor.
          È meraviglia, è amore,
     è pentimento, è speme;
     son mille affetti insieme
     tutti raccolti al cor. (parte)

SCENA XIII

Cleonice e poi Barsene, indi Fenicio.

Cleonice. Sarete alfin contenti,

ambiziosi miei folli pensieri.
Eccomi abbandonata, eccomi priva
d’ogni conforto mio. Qual nume infausto
seminò fra i mortali

questa sete d’onor? Che giova al mondo

questa gloria tiranna,
se costa un tal martíre,
se, per viver a lei, convien morire?
Barsene. Regina, è dunque vero
che trionfar sapesti
sui propri affetti anche al tuo ben vicina?
Fenicio. Dunque è vero, o regina,
che avesti un cor sí fiero
contro te, contro Alceste?
Cleonice.   È vero, è vero.
Fenicio. Non ti credea capace
di tanta crudeltá.
Barsene.   Minor costanza
non sperava da te.
Fenicio.   L’atto inumano
detesterá chi vanta
massime di pietá.
Barsene.   L’atto sublime
ammirerá chi sente
stimoli di virtú.
Fenicio.   Col tuo rigore
oh quanto perdi!
Barsene.   Oh quanta gloria acquisti!
Fenicio. Deh! rivoca...
Barsene.   Ah! resisti...
Cleonice.   Oh Dio! tacete.
Perché affliggermi piú? Che mai volete?
Fenicio. Vorrei renderti chiaro
l’inganno tuo.
Barsene.   Di tua costanza il vanto
vorrei serbarti.
Cleonice.   E m’uccidete intanto.
Egualmente il mio core
il proprio male ed il rimedio abborre;
e m’affretta il morir chi mi soccorre.

               Manca sollecita

          piú dell’usato,
          ancor che s’agiti
          con lieve fiato,
          face, che palpita
          presso al morir.
               Se consolarmi
          voi non potete,
          perché turbarmi,
          perché volete
          la forza accrescere
          del mio martír? (parte)

SCENA XIV

Fenicio e Barsene.

Fenicio. Il tuo zelo eccessivo

intendere io non so. La nobil cura
della gloria di lei troppo ti preme.
Sensi cosí severi
nel cor d’una donzella
figurarmi non posso. Altro interesse,
sotto questi d’onor sensi fallaci,
nascondi in sen. Ma t’arrossisci e taci?
Parla. Saresti mai
rival di Cleonice? Io ben ti vidi
talor gli occhi ad Alceste
volger furtivi e sospirar. Ma tanto
ingrata non sarai. La tua regina
querelarsi a ragion di te potria.
Barsene. Ma, se l’amo, o Fenicio, è colpa mia?
          Saria piacer, non pena,
     la servitú d’amore,
     quando la sua catena

     sceglier potesse un core

     che prigionier si fa.
          Ma, quando s’innamora,
     ama ed amar non crede,
     e se n’avvede allora
     che sciogliersi non sa. (parte)

SCENA XV

Fenicio.

Fenicio, che farai? Tutto s’oppone

al tuo nobil desio. Pietosi dèi,
vindici de’ monarchi,
voi vedete il mio core. Io non vi chiedo
uno scettro per me. Sarebbe indegno
della vostra assistenza il voto avaro.
Favor chiedo e riparo
per un oppresso re. Chi sa? talora
nasce lucido il dí da fosca aurora.
          Disperato — in mar turbato,
     sotto ciel funesto e nero,
     pur talvolta il passeggiero
     il suo porto ritrovò.
          E, venuti i dí felici,
     va per giuoco in su l’arene,
     disegnando ai cari amici
     i perigli che passò.

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