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ATTO SECONDO
SCENA I
Gabinetti.
Demofoonte e Creusa.
tutto farò per te; ma non parlarmi
a favor di Dircea. Voglio che il padre
morir la vegga. Il temerario offese
troppo il real decoro. In faccia mia
sediziose voci
sparger nel volgo! a’ miei decreti opporsi!
paragonarsi a me! Regnar non voglio,
se tal vergogna ho da soffrir nel soglio.
Creusa. Io non vengo per altri
a pregarti, signor. Conosco assai
quel che potrei sperar. Le mie preghiere
son per me stessa.
Demofoonte. E che vorresti?
Creusa. In Frigia
subito ritornar. Manca il tuo cenno
perché possan dal porto
le navi uscir. Questo io domando; e credo
che negarlo non puoi, se pur qui, dove
venni a parte del trono,
non è strano il timor, schiava io non sono.
Demofoonte. Che dici, o principessa! Ah, quai sospetti!
E lo sposo? e le nozze?
Creusa. Eh! per Timante
Creusa è poco. Una beltá mortale
non lo speri ottener. Per lui... Ma questa
la mia cura non è. Partir vogl’io:
posso, o signor?
Demofoonte. Tu sei
l’arbitra di te stessa. In Tracia a forza
ritenerti io non vuo’. Ma non sperai
tale ingiuria da te.
Creusa. Non so di noi
chi ha ragion di lagnarsi: e il prence... Alfine
bramo partir.
Demofoonte. Ma lo vedesti?
Creusa. Il vidi.
Demofoonte. Ti parlò?
Creusa. Cosí meco
parlato non avesse!
Demofoonte. E che ti disse?
Creusa. Signor, basta cosí.
Demofoonte. Creusa, intendo.
Ruvido troppo, alle parole, agli atti,
ti parve il prence. Ei freddamente forse
t’accolse, ti parlò. Scuso il tuo sdegno:
a te, che sei di Frigia
a’ molli avvezza e teneri costumi,
aspra rassembra e dura
l’aria d’un trace. E, se Timante è tale,
meraviglia non è: nacque fra l’armi,
fra l’armi s’educò. Teneri affetti
per lui son nomi ignoti. A te si serba
la gloria d’erudirlo
ne’ misteri d’Amor. Poco, o Creusa,
ti costerá. Che non insegna un volto
sí pien di grazie, e due vivaci lumi,
sotto la disciplina
di sí dotti maestri, ogni dottrina.
Creusa. Al rossor d’un rifiuto una mia pari
non s’espone però.
Demofoonte. Rifiuto! E come
lo potresti temer?
Creusa. Chi sa?
Demofoonte. La mano,
pur che tu non la sdegni, in questo giorno
il figlio a te dará: la mia ne impegno
fede reale. E, se l’audace ardisse
di repugnar, da mille furie invaso,
saprei... Ma no! troppo è lontano il caso.
Creusa. (Sí, sí! Timante all’imeneo s’astringa,
per poter rifiutarlo.) E bene, accetto,
signor, la tua promessa. Or fia tua cura
che poi...
Demofoonte. Basta cosí. Vivi sicura.
Creusa. Tu sai chi son; tu sai
quel che al mio onor conviene:
pensaci; e, s’altro avviene,
non ti lagnar di me.
Tu re, tu padre sei,
ed obbliar non déi
come comanda un padre,
come punisce un re. (parte)
SCENA II
Demofoonte e poi Timante.
al grado, al sesso ed all’etá si doni.
Pur convien che Timante
lo avverta, lo riprenda, acciò, piú saggio,
le ripugnanze sue vinca in appresso.
Timante a me... (alle guardie)
Ma vien Timante istesso.
Timante. Mio re, mio genitor, grazia, perdono,
pietá!
Demofoonte. Per chi?
Timante. Per l’infelice figlia
dell’afflitto Matusio.
Demofoonte. Ho giá deciso
del suo destin. Non si rivoca un cenno
che uscí da regio labbro. È d’un errore
conseguenza il pentirsi; e il re non erra.
Timante. Se si adorano in terra, è perché sono
placabili gli dèi. D’ogni altro è il Fato
nume il piú grande; e, sol perché non muta
un decreto giammai, non trovi esempio
di chi voglia innalzargli un’ara, un tempio.
Demofoonte. Tu non sai che del trono
è custode il timor.
Timante. Poco sicuro.
Demofoonte. Di lui figlio è il rispetto.
Timante. E porta seco
tutti i dubbi del padre.
Demofoonte. A poco a poco
diventa amor.
Timante. Ma simulato.
Demofoonte. Il tempo
t’insegnerá quel ch’or non sai. Per ora
d’altro abbiamo a parlar. Dimmi: a Creusa
che mai facesti? In questo di tua sposa
esser deve, e l’irríti?
Timante. Ho tal per lei
repugnanza nel cor, che non mi sento
valor di superarla.
Timante. Ne parleremo. Or per Dircea, signore,
sono al tuo piè. Quell’innocente vita
dona a’ prieghi d’un figlio.
Demofoonte. E pur di lei
torni a parlar. Se l’amor mio t’è caro,
questa impresa abbandona.
Timante. Ah! padre amato,
non ti posso ubbidir. Deh! se giammai
il tuo paterno affetto
son giunto a meritar; se, adorno il seno
d’onorate ferite, alle tue braccia
ritornai vincitor; se i miei trionfi,
del tuo sublime esempio
non tardi frutti, han mai saputo alcuna
esprimerti dal ciglio
lagrima di piacer; libera, assolvi
la povera Dircea. Misera! Io solo
parlo per lei; l’abbandonò ciascuno;
non ha speme che in me. Sarebbe, oh Dio!
troppa inumanitá, senza delitto,
nel fior degli anni suoi, su l’are atroci
vederla agonizzar; vederle a rivi
sgorgar tiepido il sangue
dal molle sen; del moribondo labbro
udir gli ultimi accenti; i moti estremi
degli occhi suoi... Ma tu mi guardi, o padre!
tu impallidisci! Ah! lo conosco: è questo
un moto di pietá. (s’inginocchia)
Deh! non pentirti:
secondalo, o signor. No, finché il cenno
onde viva Dircea, padre, non dái,
io dal tuo piè non partirò giammai.
Demofoonte. Principe (oh sommi dèi!), sorgi. E che deggio,
creder di te? Quel nominar con tanta
tenerezza Dircea, queste eccessive
che voglion dir? L’ami tu forse?
Timante. Invano
farei studio a celarlo.
Demofoonte. Ah! questa è dunque
delle freddezze tue verso Creusa
la nascosta sorgente. E che pretendi
da questo amor? che per tua sposa forse
una vassalla io ti conceda? o pensi
che un imeneo nascosto... Ah! se potessi
immaginarmi sol...
Timante. Qual dubbio mai
ti cade in mente! A tutti i numi il giuro,
non sposerò Dircea; nol bramo: io chiedo
che viva solo. E, se pur vuoi che mora,
morrá, non lusingarti, il figlio ancora.
Demofoonte. (Per vincerlo, si ceda.) E ben, tu ’l vuoi:
vivrá la tua diletta;
la dono a te.
Timante. Mio caro padre...
(vuol baciargli la mano)
Demofoonte. Aspetta.
Merita la paterna
condescendenza una mercé.
Timante. La vita,
il sangue mio...
Demofoonte. No, caro figlio: io bramo
meno da te. Nella real Creusa
rispetta la mia scelta. A queste nozze
non ti mostrar sí avverso.
Timante. Oh Dio!
Demofoonte. Lo veggo,
ti costan pena: or questa pena accresca
merito all’ubbidienza. Ebb’io pietade
della tua debolezza: abbi tu cura
dell’onor mio. Che si diria, Timante,
le promesse a tradir... Ma tanto ingrato
so che non sei. Vieni alla sposa. Al tempio
conduciamola adesso; adesso in faccia
agl’invocati dèi
adempí, o figlio, i tuoi doveri e i miei.
Timante. Signor... non posso.
Demofoonte. Io fin ad ora, o prence,
da padre ti parlai: non obbligarmi
a parlarti da re.
Timante. Del re, del padre
venerabili i cenni
egualmente mi son; ma, tu lo sai,
Amor forza non soffre.
Demofoonte. Amor governa
le nozze de’ privati. Hanno i tuoi pari
nume maggior che li congiunge; e questo
sempre è il pubblico ben.
Timante. Se il bene altrui
tal prezzo ha da costar...
Demofoonte. Prence, son stanco
di garrir teco. Altra ragion non rendo.
Io cosí voglio.
Timante. Ed io non posso.
Demofoonte. Audace!
Non sai...
Timante. Lo so: vorrai punirmi.
Demofoonte. E voglio
che in Dircea s’incominci il tuo castigo.
Timante. Ah, no!
Demofoonte. Parti.
Timante. Ma senti.
Demofoonte. Intesi assai.
Dircea voglio che mora.
Timante. E morendo Dircea...
Demofoonte. Né parti ancora?
non ti lagnar...
Demofoonte. Che? temerario! (oh dèi!)
minacci!
Timante. Io non distinguo
se priego o se minaccio. A poco a poco
la ragion m’abbandona. A un passo estremo
non costringermi, o padre. Io mi protesto:
farei... chi sa...
Demofoonte. Di’: che faresti, ingrato?
Timante. Tutto quel che farebbe un disperato.
Prudente mi chiedi?
mi brami innocente?
lo senti, lo vedi,
dipende da te.
Di lei, per cui peno,
se penso al periglio,
tal smania ho nel seno,
tal benda ho sul ciglio,
che l’alma di freno
capace non è. (parte)
SCENA III
Demofoonte solo.
il suddito superbo, il figlio audace,
tutti scuotono il freno? Ah! non è tempo
di soffrir piú. Custodi, olá! Dircea
si tragga al sagrifizio
senz’altro indugio. Ella è cagion de’ falli
del padre suo, del figlio mio. Né, quando
fosse innocente ancora,
viver dovrebbe. È necessario al regno
nol compirá, finché Dircea non muore.
Quando al pubblico giova,
è consiglio prudente
la perdita d’un solo, anche innocente.
Se tronca un ramo, un fiore
l’agricoltor cosí,
vuol che la pianta un dí
cresca piú bella.
Tutta sarebbe errore
lasciarla inaridir,
per troppo custodir
parte di quella. (parte)
SCENA IV
Portici.
Matusio e Timante.
Timante. Sí, caro amico, è nella fuga. Invece
di placarsi a’ miei prieghi,
il re piú s’irritò. Fuggir conviene,
e fuggire a momenti. Un agil legno
sollecito provvedi; in quello aduna
quanto potrai di prezioso e caro;
e dove fra gli scogli
alla destra del porto il mar s’interna,
m’attendi ascoso: io con Dircea fra poco
a te verrò.
Matusio. Ma de’ custodi suoi...
Timante. Deluderò la cura. Ignota via
v’è chi m’apre all’albergo, ov’ella è chiusa.
Va’, ché il tempo è infedele a chi ne abusa.
quella brama che l’alma t’accende:
qualche nume pietoso ti fa.
Dall’esempio d’un padre inumano
non s’apprende sí bella pietá. (parte)
SCENA V
Timante e poi Dircea, in bianca veste e coronata di fiori,
tra le guardie ed i ministri del tempio.
e povero e privato. Il regno e tutte
le paterne ricchezze
io perderò. Ma la consorte e il figlio
vaglion di piú. Proprio valor non hanno
gli altri beni in se stessi, e li fa grandi
la nostra opinion. Ma i dolci affetti
e di padre e di sposo hanno i lor fonti
nell’ordine del tutto. Essi non sono
originati in noi
dalla forza dell’uso o dalle prime
idee, di cui bambini altri ci pasce:
giá ne ha i semi nell’alma ognun che nasce.
Fuggasi pur!... Ma chi s’appressa? È forse
il re: veggo i custodi. Ah! no: vi sono
ancor sacri ministri, e in bianche spoglie
fra lor... misero me! la sposa. Oh Dio!
fermatevi! Dircea, che avvenne?
Dircea. Alfine
ecco l’ora fatale, ecco l’estremo
istante ch’io ti veggo. Ah, prence! ah, questo
è pur l’amaro passo!
Timante. E come! il padre...
Dircea. Mi vuol morta a momenti.
Dircea. Signor, che fai? Sol, contro tanti, invano
difendi me: perdi te stesso.
Timante. È vero.
Miglior via prenderò. (volendo partire)
Dircea. Dove?
Timante. A raccórre
quanti amici potrò. Va’ pure. Al tempio
sarò prima di te. (come sopra)
Dircea. No. Pensa... Oh Dio!
Timante. Non v’è piú che pensar. La mia pietade
giá diventa furor. Tremi qualunque
oppormisi vorrá: se fosse il padre,
non risparmio delitti. Il ferro, il fuoco
vuo’ che abbatta, consumi
la reggia, il tempio, i sacerdoti, i numi. (parte)
SCENA VI
Dircea, poi Creusa.
custoditelo voi. S’ei pur si perde,
chi avrá cura del figlio? In questo stato
mi mancava il tormento
di tremar per lo sposo. Avessi almeno
a chi chieder soccorso... Ah, principessa!
ah, Creusa, pietá! Non puoi negarla;
la chiede al tuo bel core
nell’ultime miserie una che muore.
Creusa. Chi sei? che brami?
Dircea. Il caso mio giá noto
pur troppo ti sará. Dircea son io;
vado a morir; non ho delitto. Imploro
pietá, ma non per me. Salva, proteggi
per desio di salvarmi. In te ritrovi,
se i prieghi di chi muor vani non sono,
disperato, assistenza, e, reo, perdono.
Creusa. E tu, a morir vicina,
come puoi pensar tanto al suo riposo?
Dircea. Oh Dio! piú non cercar. Sará tuo sposo.
Se tutti i mali miei
io ti potessi dir,
divider ti farei
per tenerezza il cor.
In questo amaro passo
sí giusto è il mio martír,
che, se tu fossi un sasso,
ne piangeresti ancor.
(parte fra le guardie ed i ministri, che la guidano al tempio)
SCENA VII
Creusa e poi Cherinto.
fa costei nel mio cor, degno di scusa
è Timante, che l’ama. Appena il pianto
io potei trattener. Questi infelici
s’aman davvero. E la cagion son io
di sí fiera tragedia? Ah! no: si trovi
qualche via d’evitarla. Appunto ho d’uopo
di te, Cherinto.
Cherinto. Il mio germano esangue
domandar mi vorrai.
Creusa. No: quella brama
con l’ira nacque e s’ammorzò con l’ira.
Or desio di salvarlo. Al sacrifizio
giá Dircea s’incammina;
tu corri a regolar; grazia per lei
ad implorare io vado.
Cherinto. Oh degna cura
d’un’anima reale! E chi potrebbe
non amarti, o Creusa? Ah! se non fossi
sí tiranna con me...
Creusa. Ma donde il sai
ch’io son tiranna? È questo cor diverso
da quel che tu credesti.
Anch’io... Ma va’. Troppo saper vorresti.
Cherinto. No, non chiedo, amate stelle,
se nemiche ancor mi siete:
non è poco, o luci belle,
ch’io ne possa dubitar.
Chi non ebbe ore mai liete,
chi agli affanni ha l’alma avvezza,
crede acquisto una dubbiezza,
ch’è principio allo sperar. (parte)
SCENA VIII
Creusa sola.
Cherinto, idolo mio, quanto mi costa
questo finto rigor, che sí t’affanna,
ah! forse allor non ti parrei tiranna.
È ver che di Timante
ancor sposa non son: facile è il cambio:
può dipender da me. Ma, destinata
al regio erede, ho da servir vassalla
dove venni a regnar? No, non consente
che sí debole io sia
il fasto, la virtú, la gloria mia.
bella innocenza antica,
quando al piacer nemica
non era la virtú!
Dal fasto e dal decoro
noi ci troviamo oppressi,
e ci formiam noi stessi
la nostra servitú. (parte)
SCENA IX
Atrio del tempio d’Apollo. Magnifica, ma breve scala, per cui si ascende al tempio medesimo, la parte interna del quale è tutta scoperta agli spettatori, se non quanto ne interrompono la vista le colonne che sostengono la gran tribuna. Veggonsi l’are cadute, il fuoco estinto, i sacri vasi rovesciati, i fiori, le bende, le scuri e gli altri stromenti del sagrifizio sparsi per le scale e sul piano; i sacerdoti in fuga, i custodi reali inseguiti dagli amici di Timante, e per tutto confusione e tumulto.
Timante, che, incalzando disperatamente per la scala alcune guardie, si perde fra le scene. Dircea, che, dalla cima della scala medesima, spaventata lo richiama. Siegue breve mischia, col vantaggio degli amici di Timante; e, dileguati i combattenti, Dircea, che rivede Timante, corre a trattenerlo, scendendo dal tempio.
difendetelo voi! Timante, ascolta;
Timante! ah! per pietá...
Timante. (tornando affannato con ispada alla mano)
Vieni, mia vita,
vieni: sei salva!
Dircea. Ah, che facesti!
Timante. Io feci
quel che dovea.
Dircea. Misera me! Consorte,
oh Dio! tu sei ferito. Oh Dio! tu sei
tutto asperso di sangue.
non ti smarrir. Dalle mie vene uscito
questo sangue non è: dal seno altrui
lo trasse il mio furor.
Dircea. Ma guarda...
Timante. Ah! sposa,
non piú dubbi: fuggiamo. (la prende per mano)
Dircea. E Olinto? e il figlio?
dove resta? senz’esso
vogliam partir?
Timante. Ritornerò per lui,
quando in salvo sarai. (partendo alla sinistra)
Dircea. Férmati! Io veggo
tornar per questa parte
i custodi reali.
Timante. È ver; fuggiamo (verso la destra)
dunque per l’altra via. Ma quindi ancora
stuol d’armati s’avanza.
Dircea. Aimè!
Timante. (guardando intorno) Gli amici
tutti m’abbandonâr.
Dircea. Miseri noi!
or che farem?
Timante. Col ferro
una via t’aprirò. Sieguimi!
(lascia Dircea e, colla spada alla mano, s’incammina alla sinistra)
SCENA X
Demofoonte, dal destro lato, con ispada alla mano;
guardie per tutte le parti, e detti.
non fuggirmi! t’arresta!
Timante. Ah! padre, ah! dove
vieni ancor tu?
Timante. (vede crescere il numero delle guardie, e si pone innanzi
alla sposa) Alcuno
non s’appressi a Dircea!
Dircea. Principe, ah! cedi:
pensa a te.
Demofoonte. No, custodi,
non si stringa il ribelle: al suo furore
si lasci il fren. Vediamo
fin dove giungerá. Via! su! compisci
l’opera illustre. In questo petto immergi
quel ferro, o traditor! Tremar non debbe
nel trafiggere un padre
chi fin dentro a’ lor tempii insulta i numi.
Timante. Oh Dio!
Demofoonte. Chi ti trattien? Forse il vedermi
la destra armata? Ecco l’acciaro a terra.
Brami di piú? Senza difesa io t’offro
il tuo maggior nemico. Or l’odio ascoso
puoi soddisfar: puniscimi d’averti
prodotto al mondo. A meritar fra gli empi
il primo onor poco ti manca: ormai
il piú facesti. Altro a compir non resta
che, del paterno sangue
fumante ancor, la scellerata mano
porgere alla tua bella.
Timante. Ah! basta; ah! padre,
taci, non piú! Con quei crudeli accenti
l’anima mi trafiggi. Il figlio reo,
il colpevole acciaro (s’inginocchia)
ecco al tuo piè. Quest’infelice vita
riprenditi, se vuoi; ma non parlarmi
mai piú cosí. So ch’io trascorsi, e sento
che ardir non ho per domandar mercede;
ma un tal castigo ogni delitto eccede.
Dircea. (In che stato è per me!)
della perfidia sua prove sí grandi,
mi sedurrebbe. Eh! non s’ascolti.) A’ lacci
quella destra ribelle
porgi, o fellon.
(s’alza e va egli stesso a farsi incatenare)
Timante. Custodi,
dove son le catene?
Ecco la man: non le ricusa il figlio,
del giusto padre al venerato impero.
Dircea. (Pur troppo il mio timor predisse il vero!)
Demofoonte. All’oltraggiato nume
la vittima si renda, e, me presente,
si sveni, o sacerdoti.
Timante. Ah! ch’io non posso
difenderti, ben mio!
Dircea. Quante volte in un dí morir degg’io!
Timante. Mio re, mio genitor...
Demofoonte. Lasciami in pace.
Timante. Pietá!
Demofoonte. La chiedi invan.
Timante. Ma ch’io mi vegga
svenar Dircea sugli occhi,
non sará ver. Si differisca almeno
il suo morir. Sacri ministri, udite:
sentimi, o padre. Esser non può Dircea
la vittima richiesta. Il sacrifizio
sacrilego saria.
Demofoonte. Per qual ragione?
Timante. Di’: che domanda il nume?
Demofoonte. D’una vergine il sangue.
Timante. E ben, Dircea
non può condursi a morte:
ella è moglie, ella è madre, è mia consorte.
Demofoonte. Come!
Dircea. (Io tremo per lui!)
che ascolto mai! L’incominciato rito
sospendete, o ministri. Ostia novella
sceglier convien. Perfido figlio! e queste
son le belle speranze
ch’io nutriva di te? Cosí rispetti
le umane leggi e le divine? In questa
guisa tu sei della vecchiezza mia
il felice sostegno? Ah!...
Dircea. Non sdegnarti,
signor, con lui: son io la rea; son queste
infelici sembianze. Io fui, che troppo
mi studiai di piacergli; io lo sedussi
con lusinghe ad amarmi; io lo sforzai
al vietato imeneo con le frequenti
lagrime insidiose.
Timante. Ah! non è vero:
non crederle, signor. Diversa affatto
è l’istoria dolente. È colpa mia
la sua condescendenza. Ogni opra, ogni arte
ho posta in uso. Ella da sé lontano
mi scacciò mille volte; e mille volte
feci ritorno a lei. Pregai, promisi,
costrinsi, minacciai. Ridotto alfine
mi vide al caso estremo: in faccia a lei
questa man disperata il ferro strinse,
volli ferirmi; e la pietá la vinse.
Dircea. E pur...
Demofoonte. Tacete! (Un non so che mi serpe
di tenero nel cor, che, in mezzo all’ira,
vorrebbe indebolirmi. Ah! troppo grandi
sono i lor falli; e debitor son io
d’un grand’esempio al mondo
di virtú, di giustizia.) Olá! costoro
in carcere distinto
si serbino al castigo.
Dircea. Congiunti almen nelle sventure estreme...
Demofoonte. Sarete, anime ree, sarete insieme.
Perfidi! giá che in vita
v’accompagnò la sorte,
perfidi! no, la morte
non vi scompagnerá.
Unito fu l’errore;
sará la pena unita:
il giusto mio rigore
non vi distinguerá. (parte)
SCENA XI
Dircea e Timante.
Timante. Consorte!
Dircea. E tu per me ti perdi?
Timante. E tu mori per me?
Dircea. Chi avrá piú cura
del nostro Olinto?
Timante. Ah, qual momento!
Dircea. Ah! quale..
Ma che! Vogliamo, o prence,
cosí vilmente indebolirci? Eh! sia
di noi degno il dolor. Un colpo solo
questo nodo crudel divida e franga.
Separiamo da forti, e non si pianga.
Timante. Sí, generosa! approvo
l’intrepido pensier. Piú non si sparga
un sospiro fra noi.
Dircea. Disposta io sono.
Timante. Risoluto son io.
Dircea. Coraggio!
Timante. Addio, Dircea!
(si dividono con intrepidezza; ma, giunti alla scena, tornano
a riguardarsi)
Timante. Sposa!
Dircea. Timante!
A due. Oh dèi!
Dircea. Perché non parti?
Timante. Perché torni a mirarmi?
Dircea. Io volli solo
veder come resisti a’ tuoi martíri.
Timante. Ma tu piangi frattanto!
Dtrcea. E tu sospiri!
Timante. Oh Dio! quanto è diverso
l’immaginar dall’eseguire!
Dircea. Oh, quanto
piú forte mi credei! S’asconda almeno
questa mia debolezza agli occhi tuoi.
Timante. Ah! férmati, ben mio. Senti!
Dircea. Che vuoi?
Timante. La destra ti chiedo,
mio dolce sostegno,
per ultimo pegno
d’amore e di fé.
Dircea. Ah! questo fu il segno
del nostro contento;
ma sento che adesso
l’istesso — non è.
Timante. Mia vita, ben mio!
Dircea. Addio, sposo amato.
A due. Che barbaro addio!
che fato crudel!
Che attendono i rei
dagli astri funesti,
se i premii son questi
d’un’alma fedel?
(partono, condotti separatamente dalle guardie in carceri distinte)