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Luciano di Samosata - VIII. Dialoghi degli Dei (Antichità)
Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862)
15. Mercurio ed Apollo
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15.

Apollo e Mercurio.


Apollo. Or vedi, uno sciancato, un fabbro sposarne due bellissime, Venere e Carite! vedi fortuna, o Mercurio. La maraviglia è come esse patiscono a stargli vicino, massime quando lo vedono curvo sulla fucina, grondante sudore, e con la faccia tutta affumicata. Tutto che egli è così conciato, e l’abbracciano e lo baciano e ci dormono.

Mercurio. Questo fa dispetto anche a me, ed ho grande invidia a Vulcano. Coltiva la bella chioma, o Apollo, suona la cetera, poni ogni cura in farti bello; ed io posso pure affaticarmi in destrezza e in sonar la lira: quando andiamo a letto, dormiamo soli.

Apollo. Io poi son disgraziato in amore: amai due veramente, Dafne e Jacinto: Dafne m’ebbe tanto in ira che volle diventar legno, anzi che mia: Jacinto lo uccisi col disco: degli amori miei non ho che una corona.

Mercurio. Io con Venere una volta.... ma non bisogna parlarne.

Apollo. Mi ricordo, e dicono che ti partorì Ermafrodito. Ma dimmi, se lo sai, come non han gelosia Venere di Carite, e Carite di Venere?

Mercurio. Perchè, o Apollo, egli in Lenno stassi con Carite, ed in cielo con Venere. Ma costei si tiene Marte, che è il cuor suo, e si cura poco del fabbro.

Apollo. E Vulcano sa di questa tresca?

Mercurio. Sa; ma che può contro uno giovane robusto e soldato? Caglia, e fa lo scemo: ma minaccia di fabbricar certa sua rete da pescarli e prenderli sul letto.

Apollo. Non so, ma vorrei esser io preso con lei.


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