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Luciano di Samosata - VIII. Dialoghi degli Dei (Antichità)
Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862)
4. Giove e Ganimede
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4.

Giove e Ganimede.


Giove. Su via, o Ganimede, giacchè siamo arrivati qui, dammi ora un bacio: vedi che io non ho più il rostro ricurvo, nè gli unghioni, nè le ali, nè sono uccello come ti parevo.

Ganimede. O uomo, non eri tu aquila testè, che volando mi ciuffasti in mezzo al gregge? Come ti sono scomparite quelle ali, e sei divenuto un altro?

Giove. I’ non sono nè uomo, nè aquila, o fanciullo; ma il re di tutti gli Dei, che per poco tempo mi son trasformato.

Ganimede. Che dici? se’ tu Pane? E come non hai la sampogna, nè le corna, nè le cosce pelose?

Giove. Solo quel dio tu conosci?

Ganimede. Sì: e noi gli sacrifichiamo un caprone che ha le più grosse coglie, e proprio innanzi alla spelonca dove egli abita. Tu mi pari che sei un ruba-fanciulli.

Giove. Dimmi: e di Giove non udisti mai il nome, non vedesti mai l’ara sul Gargaro? di colui che piove, che tuona, che fa i lampi?

Ganimede. Tu se’ colui che testè fece cader tanta grandine, che abiti in su in cielo, come dicono, che fai quei rumori, ed a cui il babbo sacrificò un ariete! E che male t’ho fatto io, o re degli Dei, che mi hai rapito? Ah! forse i lupi mi sbraneranno le pecore, che sono tutte sbrancate.

Giove. E pensi ancora alle pecore, or che sei immortale, e starai sempre qui con noi?

Ganimede. Che dici mai? E non mi poserai sull’Ida oggi stesso?

Giove. No: chè invano mi sarei tramutato di dio in aquila.

Ganimede. Oh, il babbo mi anderà cercando, e si sdegnerà non trovandomi: ed infine io sarò battuto per avere abbandonata la greggia.

Giove. E dove ti vedrà egli?

Ganimede. No, no: i’ voglio babbo mio. Se mi lasci andare, io ti prometto che ei ti sacrificherà un altro ariete per mio riscatto. N’abbiamo uno di tre anni, così grande, che guida esso la greggia.

Giove. Che fanciullo semplice ed innocente! e parmi ancora troppo fanciullo! Ma, o Ganimede, lascia stare tutte coteste cose, e scòrdati della greggia e dell’Ida. Tu che già sei uno de’ celesti, farai gran bene di qui ed al tuo babbo ed alla patria tua: ed invece del cacio e del latte, gusterai l’ambrosia, e berai il nèttare, e verserai bere a noi altri. E la più bella cosa è che tu non sarai più uomo, ma immortale: ed io farò risplendere bellissima la tua stella; e infine tu sarai beato.

Ganimede. E se vorrò giocare, chi giocherà con me? Sull’Ida eravam tanti compagni.

Giove. Anche qui avrai un compagno, che, vedilo, è Amore, e giocherete insieme a dadi. Però fà cuore, stà lieto, e non pensare alle cose di laggiù.

Ganimede. E che mi farete fare? avete bisogno d’un pastore anche qui?

Giove. No; tu mi mescerai, avrai cura del nèttare, e d’apparecchiare il convito.

Ganimede. Questo non m’è difficile; chè io so come si versa il latte, e come si serve nella tazza d’ellera.

Giove. E rieccolo al latte: egli crede di servire agli uomini. Qui è il cielo, e t’ho detto che noi beviamo il nèttare. Ganimede. Ed è più dolce del latte, o Giove?

Giove. Lo saprai or ora; e quando l’avrai gustato, non desidererai più il latte.

Ganimede. E dove dormirò la notte? forse col mio compagno Amore?

Giove. No; i’ per questo t’ho rapito, per farti dormire con me.

Ganimede. Ah, non potresti star solo, e però hai piacere di dormire con me.

Giove. Sì: e poi tu se’ sì vago, o Ganimede, se’ sì bello!

Ganimede. E che ti fa la bellezza pel sonno?

Giove. Gli dà maggior dolcezza, lo fa venir più soave.

Ganimede. Eppure il babbo si dispiaceva quand’io mi corcavo con lui, e la mattina contava che io lo svegliavo rivoltandomi, dando calci, e parlando nel sonno: onde spesso mi mandava a dormir con la mamma. Or vedi, se tu dici di avermi rapito per questo, di ripormi in terra: se no, tu starai svegliato, chè io ti molesterò continuamente rivoltandomi.

Giove. Questo sarà il più gran piacere che mi darai, se io veglierò con te baciandoti spesso ed abbracciando.

Ganimede. Te lo vedrai tu: io dormirò, io, e tu bacerai.

Giove. Vedremo allora il da fare. Ora, o Mercurio, menalo teco, e fattagli bere l’immortalità, riconducilo a noi coppiere, che abbia prima imparato come si deve porger la tazza.

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