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Luciano di Samosata - VIII. Dialoghi degli Dei (Antichità)
Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862)
6. Giunone e Giove
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1.

Giunone e Giove.


Giunone. Quest’Issione, o Giove, per che uomo lo tieni?

Giove. Dabbene, o Giunone, e convivante nostro. Non saria con noi, se fosse indegno del nostro banchetto.

Giunone. N’è indegno, perchè è un insolente, e non ci dev’essere più.

Giove. Che insolenza ha fatto? Parmi ch’io debbo saperla.

Giunone. Che altro che.... ma mi vergogno di dirlo; ha avuto un ardire troppo grande.

Giove. Ma così tu dici cosa molto più brutta che forse egli non ha tentato. Ha fatto vergogna a qualcuna? Capisco, questa sarà la turpitudine, che tu non vuoi dire.

Giunone. A me l’ha fatta, o Giove, a me proprio: e da un pezzo. Da prima io non capivo perchè egli mi guardava fiso, e sospirava, e imbambolava gli occhi, e se io beveva e rendeva la tazza a Ganimede, ei cercava bere in quella, e prendendola in mano la baciava, se la recava agli occhi, e mi guatava. Capivo poi che questi eran segni d’amore: e per molto tempo per pudore non lo dissi a te, e credevo che colui si torrebbe di quella pazzia. Ma ora che ha ardito di richiedermi d’amore, io l’ho lasciato che piangeva e mi stava gettato ai piedi, e turatemi le orecchie per non udire il suo disonesto pregare, son venuta a dirtelo. Vedi tu come punire costui.

Giove. Bravo il malvagio! a me proprio? Sino a mia moglie Giunone? Cotanto ti ha inebbriato il nèttare? Ne siam cagione noi, che fuor di misura amiamo gli uomini, e li abbiamo fatti commensali nostri. Ma pure ei sono perdonabili se bevendo quel che beviamo noi, e vedendo le bellezze celesti, che non mai videro su la terra, desiderano di goderle, e ne son presi d’amore. Amore è forza grande, e signoreggia non pure gli uomini, ma talvolta anche noi altri.

Giunone. Signoreggia te, che ti fai guidare, menare, tirare pel naso, e lo segui dove egli vuole, e ti muti facilmente in ogni cosa secondo ei comanda, e sei una girandola, un trastullo in mano d’Amore. Ed ora intendo perchè vuoi perdonare ad Issione; una volta te ne godesti la moglie, la quale ti partorì Piritoo.

Giove. E ancora ricordi di qualche follia che ho fatto quando son disceso sù la terra? Ma sai quel che penso per Issione? Non punirlo affatto nè discacciarlo dal convito, che saria una rozzezza. Ma giacchè egli è cotto d’amore, e, come tu di’, piange, ed ha gran passione....

Giunone. Che, o Giove? Vuoi insultarmi anche tu?

Giove. Niente affatto: ma faremo di una nube un’immagine simile a te, e poichè sarà finita la cena, ed egli come innamorato non potrà dormire, noi gliela porteremo a letto: e così gli cesserà la smania, credendo soddisfatto il suo desiderio.

Giunone. Ah no: che muoia il temerario. Giove. Permettilo, o Giunone. Che male puoi aver tu da una finzione, se Issione starà con una nube?

Giunone. Ma la nube parrà che sono io, e la vergogna verrà su di me per la somiglianza.

Giove. Non dir questo: chè la nube non sarà mai Giunone, nè tu la nube; solo Issione sarà ingannato.

Giunone. Ma poi, come soglion fare tutti gli sciocchi, ei forse se ne vanterà, lo conterà a tutti, dirà che si è giaciuto con Giunone, e divide il letto con Giove. Forse dirà ancora che io sono spasimata di lui, e la gente lo crederà, non sapendo che egli ha abbracciata una nube.

Giove. Dunque se ei ne dirà parola, io lo sprofonderò nell’inferno, dove legato ad una ruota, girerà con essa sempre, ed avrà pena senza posa; così pagherà il fio non dell’amore, che non è male, ma della sua iattanza.


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