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Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862)
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8.
Vulcano e Giove.
Vulcano. Che debbo fare, o Giove? Eccomi al tuo comando, e con la scure arrotata, che ad un colpo taglieria netto un sasso.
Giove. Bene, o Vulcano: spaccami il capo in due.
Vulcano. Vuoi farmi fare una pazzia? Dimmi da senno che vuoi da me.
Giove. Questo appunto, che tu mi apra il cranio: e se non ubbidisci mi vedrai un’altra volta sdegnato. Devi dare di tutta forza, e fà presto, chè io mi sento le trafitture del parto che mi straziano il cervello.
Vulcano. Bada, o Giove, che non facciam qualche guasto; la scure è tagliente, e farà sangue: non ho le mani di Lucina io.
Giove. Dà senza paura, o Vulcano: so io quel che conviene.
Vulcano. Mi dispiace, ma darò: che posso altro, quando tu il comandi?... Ma che è? una fanciulla armata? Gran male, o Giove, avevi nel capo: a ragione eri così sdegnoso, ti stava viva sotto la meninge una tanta vergine, e tutta armata. Avevi un padiglione per capo, e nol sapevi. Ma ella balla la danza pirrica, agita lo scudo, palleggia l’asta, ed è compresa da divino furore, e quel che è più, la è molto bella, ed in breve s’è fatta adulta; ha gli occhi azzurri, che le stan bene sotto quell’elmo. O Giove, io t’ho aiutato a partorirla, in compenso dammela in isposa.
Giove. Chiedi cosa impossibile, o Vulcano: ella vuol rimaner sempre vergine. Io per me non ti dico di no.
Vulcano. Questo volevo: al resto penserò io: me la rapirò.
Giove. Se puoi, fà pure: ma ti so dire che brami cosa impossibile.