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Luciano di Samosata - Dialoghi dei morti (Antichità)
Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862)
11. Crate e Diogene
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11.

Crate e Diogene.


Crate. Conoscevi, o Diogene, il ricco Mirico, quel gran ricco di Corinto, che aveva in mare molte navi mercantili; e il suo cugino Aristea, ricco anch’egli, il quale soleva ripetere quel detto di Omero: O tu levi me, o io te?

Diogene. E perchè, o Crate?

Crate. Si facevano carezze tra loro, ciascuno sperando l’eredità dell’altro, chè erano di una età: e pubblicarono i loro testamenti, nei quali, Mirico, se moriva prima di Aristea, gli lasciava tutto il suo; e così Aristea a Mirico, se trapassava prima. Quest’era lo scritto: e le carezze e i complimenti erano inestimabili. Gli indovini, gli astrolaghi, i disfinitori dei sogni, i Caldei, ed Apollo stesso ora facevano prevalere Aristea, ora Mirico: ed i talenti ora in questa, ora in quella coppa della bilancia traboccavano.

Diogene. Ma il fine qual fu, o Crate? egli è da udire.

Crate. Ambedue morirono in un giorno: e le due eredità vennero ad Eunomio e Trasiclea, due loro congionti ai quali non era stata mai predetta questa buona ventura. Navigando essi da Sicione a Cirra, a mezzo del cammino dieder di traverso nel Japigio, e travolsero giù.

Diogene. E loro stette bene. Noi, quando eravamo in vita, non pensammo mai a siffatte cose tra noi: nè io mai desiderai la morte ad Antistene per ereditarne il bastone, che era di fortissimo oleastro; nè pensomi che tu, o Crate, desiderasti mai ch’io morissi per ereditare la mia ricchezza, la botte, e la bisaccia con entro due misure di lupini.

Crate. Io non avevo bisogno di questo, e neppure tu, o Diogene. Quello di che avevamo bisogno, tu l’ereditasti da Antistene, ed io da te; e l’è cosa più grande e più preziosa del regno dei Persi.

Diogene. Quale dici?

Crate. Sapienza, frugalità, verità, libertà, franco parlare.

Diogene. Sì, per Giove, mi ricorda che questa ricchezza io ricevetti da Antistene, l’accrebbi, e la lasciai a te.

Crate. Ma di questa gli altri non si curano, nessuno ci faceva carezze per ereditarla da noi: all’oro riguardavano tutti.

Diogene. E con ragione. Se l’avessero da noi ricevuta non avrebbero potuto contenerla, perchè colano per ogni parte e son fradici, come ceste imputridite. Se vuoi versare in essi un po’ di sapienza, di franchezza, di verità, tosto cade e scorre, chè il fondo non può sostenerlo; e fai come le figliuole di Danao che versano acqua in una botte forata. L’oro poi coi denti, con le unghie, con ogni sforzo lo tenevano afferrato.

Crate. Dunque noi avremo anche qui la ricchezza nostra: ed essi porteranno qui solo un obolo, che pur lasceranno al navicellaio.1


  1. Si poneva l’obolo in bocca ai morti per pagare il nolo a Caronte.

Note

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