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Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862)
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4.
Mercurio e Caronte.
Mercurio. Facciamo un po’ il conto di quel che mi devi, o navicellaio, affinchè dipoi non s’abbia a contendere.
Caronte. Facciamolo, o Mercurio: chè è meglio chiarirlo, e non pensarvi più.
Mercurio. Mi hai commesso l’áncora, l’ho portata per cinque dramme.
Caronte. È troppo.
Mercurio. Per Plutone, cinque ne ho snocciolate; e due oboli per un volgitoio di remo.
Caronte. Metti cinque dramme e due oboli.
Mercurio. Per un ago da risarcire la vela cinque oboli.
Caronte. Mettivi anche questi.
Mercurio. La cera per turar le fessure del battello, i chiovi, e la funicella di cui tu hai fatto la scotta, due dramme in tutto.
Caronte. Bene: questo è a buon mercato.
Mercurio. Questo è tutto. Se pur non m’è sfuggito qualche cosa nel conto. Or quando mi darai i quattrini?
Caronte. Ora è impossibile, o Mercurio mio. Se una peste o una guerra ci manderà un po’ di folla, allora potrò raspare qualche guadagno sovra i conti del nolo.
Mercurio. E debbo io desiderare il male altrui per esser rimborsato d’una miseria?
Caronte. E’ non c’è altro modo, o Mercurio. Ora ci cápitano pochi, come tu vedi: chè per tutto è pace.
Mercurio. Meglio così; e non importa se tu non mi paghi subito. Ma quegli antichi, o Caronte, ti ricordi che omaccioni erano! tutti robusti, pieni di sangue, e tutti morti di ferite! Ora chi muore avvelenato dal figliuolo o dalla moglie, chi per intemperanza ci porta tanto di pancia e di piedi gonfi: tutti scialbi, frollati, e ben diversi da quelli. Molti ci vengono a cagione delle ricchezze, per le quali sogliono farsi mille insidie tra loro.
Caronte. Queste ricchezze sono assai desiderate.
Mercurio. Però neppure io crederei di far male a chiederti quel che mi devi.