< Dialoghi sopra l'ottica neutoniana
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I III


Nel quale si espongono i principi generali dell’ottica, si dichiara la struttura dell’occhio, e la maniera onde si vede, e si confutano le ipotesi del Cartesio e del Mallebranchio intorno alla natura della luce e dei colori.

Nel tempo che durò la tavola, ora andava immaginando la Marchesa certe particolari specie di animaletti, da’ quali le venisse destato quello o quell’altro sapore; ed ora raggirar faceva in uno o in altro modo i globetti della luce, secondo la diversità dei colori delle cose che se le presentavano innanzi. E mostrava avere non picciol obbligo al Cartesio, da cui riconosceva d’essere messa a parte de’ segreti della natura. Se non che una qualche noia parea pur darle che de’ suoi colori ei ne l’avesse spogliata. Dove io pur la veniva certificando che con una semplice disposizione di particelle ella avrebbe seguitato ad operar quello che per l’addietro operar credeasi col colore medesimo; e ch’ella poteva starsene sicura nel suo regno contro a tutti i macchinamenti della più sottile filosofia. Levate le tavole, e preso il caffè, ella si ritirò nelle sue stanze: e dopo avere nelle ore più calde del giorno pigliato alquanto di riposo, venne nella galleria dove io mi trovava godendo della vista di un ameno e ombroso giardino, sopra cui essa risponde. Da più di un motto che gettò la Marchesa, ben m’accorsi del desiderio ch’ella aveva di ripigliare il nostro ragionamento. Ond’io, senza altro invito aspettare, presi a dire così: - Tanto io vi veggo, Madama, infervorata della filosofia, che il parlarvi di qualunque altra cosa sarebbe senza dubbio indarno. Converrà dunque dirvi due essere i principali accidenti a’ quali è sottoposta la luce: la riflessione e la refrazione. Quando le particelle della luce vengono a dare nelle parti solide dei corpi, ribalzano da essi, non altrimenti che fa una palla dando in terra; e quel ribalzar che elle fanno, chiamasi riflessione. E per riflessione di raggi noi vediamo le cose tutte che diconsi opache, cioè che non hanno il lume da sé. La fiamma della candela, per esempio, manda raggi del suo: è un vorticetto di materia sottile, secondo il Cartesio, un picciolino sole, che preme la materia globulosa che gli è dintorno, e sì alluma ogni cosa; laddove gli altri corpi opachi, i pianeti, quegli alberi, queste colonne, e che so io, non ci si rendono visibili se non in virtù delle particelle del lume, o sia de’ globetti che riflettono. Regolarmente sono rimandati i raggi della luce, dando in una superficie spianata, polita e tersa, quale è quella dell’acqua stagnante o degli specchi; come appunto una palla, dando in un terreno spianato, ribalza regolarmente, cioè risale su colla stessa inclinazione che è scesa. Tutti i raggi, per darvi un bello esempio, che dal vostro volto vanno allo specchio, ne ritornano indietro per niente disordinati o confusi, ma con la stessa inclinazione e con la stessa situazione appunto tra loro con cui vi andarono. Così è ripetuta o rimandata fedelmente dallo specchio la vostra effigie; e voi potete, Madama, presentarvi ogni mattina dinanzi a voi medesima, e consultare a tutta sicurtà sopra il modo di lasciar cadere con più eleganza un riccio, o sopra il più vantaggioso sito da collocare un neo. - Gran mercé - disse la Marchesa - che io son giunta a sapere il perché di cosa, che avendola sotto gli occhi tutto il dì, era quasi vergogna non saperlo. Ma ben vi so dire che chi mi avesse l’altr’ieri parlato di raggi, che venendo dalla mia faccia sono poi riflessi dallo specchio, e che so io, io avrei creduto un tal linguaggio quel solito formolario che per vecchia tradizione ne suol ripetere la galanteria. - Al contrario - io seguitai - di quello che succede nello specchio, sono riflessi i raggi della luce se cadono in una superficie irregolare ed aspra, quale è quella di una muraglia. Rimanda essa bensì i raggi del sole da cui sia illuminata; ma per la scabrosità sua confondendogli insieme, e sparpagliandogli per ogni verso, non ne restituisce la immagine. Quando poi i raggi della luce trascorrono dall’aria, per cagion d’esempio, dentro nell’acqua, imboccano i pori o i vani, che rimangono tra le particelle di quella (ch’essa pure, benché non gli vediamo, ha i suoi pori); e sì passano oltre. Ma nel passar che fanno, si torcono dal primiero cammino che tenevano, venendo a piegarsi e quasi a spezzarsi, secondo il linguaggio degli ottici. E questo spezzamento, onde s’indrizzano a nuova strada, diversa da quella che innanzi facevano, è ciò che refrazione si chiama. I corpi diafani o trasparenti, che danno la via al lume, come l’aria, l’acqua, il cristallo, il diamante, si appellano mezzi. E però dicesi la refrazione avvenire nel passar della luce d’uno in altro mezzo. Ed ella è maggiore, secondo che i mezzi hanno in sé più di materia, o vogliam dire sono più densi. Onde i raggi si spezzano maggiormente, o mutano maggiormente direzione nel passar dall’aria nel cristallo che non fanno dall’aria nell’acqua, per essere il cristallo più denso che non è l’acqua. - Bene sta; - disse la Marchesa - ed egli è ben naturale che il cristallo, per essere più materiale, dirò così, dell’aria, abbia anche maggior forza nello spezzare i raggi della luce, che per esso trapassano. Ma come è mai che il Tasso dice, se ben mi ricordo,

Come per acqua, o per cristallo intero trapassa il raggio?

- Ché non continuate più avanti, Madama, - io replicai - quei suoi versi per il rimanente della stanza? Mi pare che e’ venga a inferire come in sulle tracce del raggio, che trapassa intero per lo cristallo o per l’acqua, così pure osava il pensiero degli eroi cristiani penetrare per entro al chiuso manto della bella Armida. - Qualunque cosa - replicò la Marchesa - ne venga a inferire egli, non è egli vero che da noi si dovrà inferire non accordarsi gran fatto insieme messer Torquato e la scienza dell’ottica? - No certamente - io risposi. - E di quante simili discrepanze non troveremmo noi ne’ poeti, chi volesse così sottilmente esaminargli? Il licenzioso Ovidio non fa egli scorrere in un giorno tutti i dodici segni del zodiaco al sole, quando l’astronomia non gli consente che la trentesima parte incirca di un segno pel suo corso giornaliero? Fatto è che i poeti non parlano ordinariamente né a dotti, né a voi, Madama; parlano al popolo. E purché arrivino a muovere il cuore e a dilettar la fantasia del popolo, han toccato il segno. Tuttavia, a liberare il Tasso da quella taccia di errore, potremmo dire, se così v’è in grado, ch’egli ha inteso parlare di quei raggi che investono le superficie dei mezzi non obliquamente, ma a diritto: come sarebbe, se un raggio cadesse sulla superficie dell’acqua a perpendicolo, cioè senza deviare da alcuna delle bande dal filo del piombo. Che quel raggio sì bene passa oltre intero senza spezzarsi o piegarsi nè da questo, nè da quel lato; dove tutti gli altri, che vi cadono obliquamente o di sghembo, si rompono, e nel rompersi s’indrizzano ad altra via. Ora diversamente frangono i raggi passando da mezzo raro in denso, che non fanno da denso in raro. Per esempio, dall’aria dando nella superficie dell’acqua, si piegano nel penetrar l’acqua, indrizzandosi verso il perpendicolo, più che non faceano prima di toccarla. E così un raggio, che da un punto di questa muraglia andasse fuor per la finestra a percuotere colaggiù appunto nel mezzo del fondo di quella vasca, vota ch’ella fosse d’acqua, riempiuta poi come ella è ora, non può più dirittamente dare in quel segno di prima; ma tuffandosi nell’acqua si torce di tal maniera, che viene a percuotere di qua del mezzo; cioè in un punto di esso fondo a noi più vicino. Che se quell’acqua divenir potesse un cristallo, più ancora si torcerebbe, più addentro tuffandosi; e più ancora, se per opera di una qualche Alcina si convertisse in diamante. Ed ecco tutte le linee e tutte le figure, che io vi segnerò. - In fatti, - disse la Marchesa - che bisogno vi ha egli di linee e di figure, per intendere che un raggio, passando da un mezzo raro in un denso, si accosta al perpendicolo; e più vi si accosta, quanto più denso è il mezzo dov’entra? - Così però, - io soggiunsi - che il perpendicolo s’intenda sempre dirizzato sopra la superficie del mezzo, che penetrano i raggi, in qualunque modo sia posta una tal superficie: in quella guisa che la candela, che è piantata nel piattello del candeliere, vi è sempre a perpendicolo in qualunque modo il candeliere si tenga o il piattello. - Benissimo, - disse la Marchesa - e naturalmente all’opposto anderà la cosa, quando un raggio trapassa da un mezzo più denso in un meno; voglio dire che allora si scosterà dal perpendicolo. - Così è - io risposi. - Niente vi ha di malagevole a comprendere per voi, Madama. E già voi vedrete in un batter d’occhio, come queste refrazioni, o deviazioni dei raggi, di che assai imperfetta notizia aveano gli antichi, sieno cagione di mille giocolini che s’osservano tutto dì, e de’ quali moderni sanno render la ragione. Per esse refrazioni noi riceviamo i raggi, come se venissero da altro luogo che da quello ove gli oggetti realmente si trovano: e l’occhio, che non sa nulla di tutto questo, riferisce poi sempre gli oggetti colà donde pare che i raggi gli vengano; vale a dire, vede secondo la direzione dei raggi che lo feriscono. Uno di questi giocolini ve lo voglio far vedere pur ora; da che abbiamo qui in pronto quel bel catino di porcellana e una brocca d’acqua. Ora ecco io pongo nel fondo del catino questa moneta. Piacciavi, Madama, di scostarvene tanto che la sponda del catino vi copra la moneta e v’impedisca il vederla. - Così fece la Marchesa: ed io, riempiuto d’acqua il catino sino al sommo: - Non vedete voi subito - ripigliai a dire - la moneta, senza punto muovervi dal vostro posto? - Sì bene - rispose la Marchesa. - Ma come ciò? che ben sono lontana dal vederne il perché in un batter d’occhio. - Considerate, Madama, - io ripigliai - come la moneta manda raggi per ogni verso; sia pieno il catino, o pur voto d’acqua; ma quei raggi che da essa moneta sarebbono venuti per dirittura all’occhio vostro, quando voto era il catino, venivano intercetti dalla sponda del catino medesimo; e quelli che dalla sponda non erano intercetti andavano tropp’alto perché voi gli poteste ricevere: e in tal modo a voi si toglieva il poter vedere la moneta. Non così avviene, quando il catino si riempia d’acqua. Quei raggi che andavano tropp’alti si piegano alquanto in basso verso di voi, si discostano cioè dal perpendicolo nell’atto dell’uscir fuori dell’acqua; e però giungono a ferir l’occhio vostro, il che prima fare non potevano: e voi vedete la moneta, ma fuori del luogo dove realmente ella è. Di somiglianti scherzi vi ricorderete avervi fatto il prisma. Oltre al farvi apparir le cose variate di colori, ve le mostrava altresì fuori del luogo loro. I raggi degli oggetti entrando per la faccia del prisma che era loro rivolta, vi refrangevano dentro; e uscendo dipoi dalla faccia di esso, che vicina trovavasi all’occhio vostro, tornavano a refrangere. Talché da voi si ricevevano dopo due refrazioni, come se venissero o di più alto o di più basso; d’altronde in somma che in fatti non venivano. - Così è veramente - riprese la Marchesa. - Secondo che situato era il prisma, ora mi conveniva guardare in su, per vedere gli alberi e la campagna; ed ora in giù, per veder l’aria. Pareva che talvolta il cielo fosse in terra, e poi la terra in cielo. Comprendo ora il perché di tutte quelle bizzarrie; e parmi si potesse dire che le passioni, che tanto ne fanno travedere, e ne mostrano le cose fuori del loro debito luogo, sono altrettanti mezzi, o prismi, che tra il vero si frappongono e l’occhio della mente. - Buon per noi, - io risposi - se tali prismi noi gli sapessimo così ben maneggiare come i prismi dell’ottica; e potessimo almeno assegnar così bene e prevederne gli effetti. Qualunque sia la posizione o la materia di questi, si può facilmente sapere quale esser debba l’aspetto delle cose per essi traguardate; poiché le refrazioni vi si fanno con certissima regola. E generalmente elle succedono con tal proporzione e con tal legge, che, nota la inclinazione del raggio diretto alla superficie del vetro, dell’acqua, o di qualunque altro mezzo si sia, vi sanno dire a capello quale esser debba la inclinazione corrispondente nel refratto. Della qual scienza è riputato fondatore il vostro Cartesio. E dove ella gioca principalmente, è in quegli scambietti, dirò così, che fa la luce passando a traverso un vetro d’occhiale colmo, o convesso da amendue le parti, che si chiama lente, per la similitudine ch’egli ha con un grano di lenticchia. Figuratevi, Madama, due raggi di luce che camminino paralleli tra loro: ciò vuol dire che mantengano sempre in camminando l’uno rispetto all’altro la medesima distanza, come fanno le spalliere di que’ viali. Se questi raggi vengano a cadere sopra una lente, vannosi ad unire in un punto di là da essa per la refrazione che ne patiscono, così sopra all’entrarvi, come sotto all’uscirne. Tal punto si chiama il fuoco della lente, ove raccogliendo i raggi del sole ha potere di ardere e di levar tosto in fiamma la polvere di archibuso che ivi sia collocata. - Vengo ora in chiaro - disse la Marchesa - di ciò che altre volte ho udito dire; come con un vetro posto dinanzi al sole altri può ardere, niente meno che si farebbe con una bragia viva. Col ghiaccio medesimamente ciò può farsi - io soggiunsi. - Come col ghiaccio? - ripigliò ella in atto di maraviglia. - Figuratevi - io risposi - un pezzo di ghiaccio conformato a guisa di lente; e vedrete ch’egli potrà ardere, come un vetro, sino a tanto che non sia disciolto dal sole. - Verissimo - ella riprese a dire. - E qual ricca fonte di concetti e di arguzie non sarebbe egli stato a’ nostri begl’ingegni di un tempo fa cotesto potere ardere col ghiaccio! - Certo, - io risposi - Madama, non sarebbono andati esenti i vostri occhi da una qualche fredda comparazione, allora quando i nostri poeti s’udivano cantare

Deh Celia all’ombra giace! Venga chi veder vuole giacere all’ombra il sole.

Ma, continuando il nostro ragionamento, i raggi che cadono sopra una lente paralleli si riuniscono nel foco di essa; e quelli che non sono tra loro paralleli, ma che procedendo da un punto si vanno discostando l’uno dall’altro, si riuniscono essi altresì in un punto, ma più lungi dal foco. E tanto più lungi quanto più presso è il punto dond’e’ procedono. - Di grazia,- entrò qui la Marchesa - non v’incresca ripetere queste ultime parole. - Voglio dire, - io ripigliai - che, quanto più presso alla lente sarà il punto donde procedono i raggi che vanno sopra di essa a cadere, tanto più lungi dal foco sarà il punto dove egli andranno ad unirsi. E per lo contrario sarà tanto più presso al foco il punto della loro unione, quanto più lungi dalla lente è il punto dond’e’ procedono. Che sì, Madama, che questa mia diceria incominciava a parervi alquanto lunghetta? - No per certo - ella rispose. - Troppo volentieri ho seguito le vie della luce. - Orsù, - io ripresi a dire - per queste vie ch’ella tiene, si giugne da noi ad avere la più dilettosa vista che un possa immaginare. Ma, per goderne, bisogna un bel dì di sole essere in una stanza affatto buia, salvo un piccolo pertugio, dietro al quale intendasi congegnata una lente. Ciascun punto degli oggetti di fuori, che sono in faccia al pertugio, vi manda dei raggi. I quali, trovando ivi la lente che gli aspetta, vengono da essa riuniti dentro della stanza in altrettanti punti, che hanno rispettivamente tra loro la medesima situazione e il medesimo ordine che i punti degli oggetti donde e’ partono. E così vengono, quasi punte di pennello, a dipingere sopra un foglio di carta, che dietro alla lente si pone, l’immagine di quegli medesimi oggetti. E ben vi so dire, Madama, che di tal forza e di tal precisione è quella pittura, che un paese di Marchetto Ricci o una veduta del Canaletto male vi starebbono a fronte. Maravigliosa vi è la degradazione, armonioso, quanto mai dir si possa, il colorito, esattissimo il disegno. Non solo vi è animato ogni cosa, ma si muove veramente. Vi vedreste camminar le persone, tremolar le foglie degli alberi, veleggiare una barchetta, o dar de’ remi nell’acqua. Che più? Su per l’onda, che rompono i remi, vi vedreste scherzar variamente ed isfavillare il lume. - Che non mandiamo tosto, - entrò qui a dire la Marchesa - per una lente? Mi par mill’anni di vedere così fedelmente copiati i bei siti che abbiamo qui d’attorno, di vedere un quadro di mano di così eccellente maestro, quale è la natura. - Grande senza dubbio, Madama, - io risposi - sarà la vostra maraviglia; né minore il piacere che ne prenderete. Ma non vi fareste poi anche le maraviglie, se, continuando io nella stanza buia a ragionarvi di filosofia, dicessi così: Ora ecco fate ragione di essere col pensiero in uno dei vostri occhi, e di vedervi quello che avviene là entro. La stanza buia, dove siamo, è la cavità, o camera interna dell’occhio. Il pertugio della stanza è la pupilla, che è nella parte anteriore di esso: la lente è un certo umore detto cristallino, il quale appunto di lente ha figura, e stassi a rincontro della pupilla: il foglio di carta, che riceve la immagine degli oggetti, è la retina, che è una pellicella che soppanna il fondo dell’occhio, ed è tessuta de’ filamenti del nervo ottico, per cui l’occhio mette nel cervello. Mercé di tali ordigni si dipingono nel vostro occhio le cose che vi si fanno innanzi, e voi vedete. Per certo, - ripigliò la Marchesa - io non mi sarei mai pensata che quel bel quadro fosse tanto filosofico. E non è egli il Cartesio che lo intese il primo, a dir così, e ce lo rese altrettanto utile, quanto era dilettevole? - O felice il Cartesio, - io risposi - al quale voi vorreste aver obbligo di ogni cosa! Ma di questa conviene averlo a un tedesco, per nome Keplero, a cui la fisica ha parecchi altri obblighi, e non piccioli. Credevasi comunemente ne’ tempi addietro, che dalle superficie dei corpi traspirassero del continuo, e si andassero distaccando certe membrane, o pellicelle, a guisa di effluvi: e queste pellicelle, che chiamavano simulacri, somigliantissime a’ corpi donde partivano, volavano per aria, ed entravano poi nell’occhio, non si sa come, e vi recavano dentro una fedele immagine delle cose poste al di fuori. Così spiegavano il come per noi vedeasi; o piuttosto così folta era la nebbia, che ricopriva le viste di quei filosofi. Presentemente è chiaro ogni cosa, per la similitudine che ha l’occhio con la camera scura, che camera ottica medesimamente si chiama. Gli oggetti mandano raggi da ciascun punto a traverso della pupilla all’umor cristallino; ed esso, riunendogli in altrettanti punti, restituisce la immagine de’ medesimi oggetti, e la porta sulla retina. E perché i raggi che formano le immagini degli oggetti si uniscono dietro all’umor cristallino a varie distanze, secondo la varia distanza donde procedono, perciò è necessario che la retina si faccia quando più dappresso all’umor cristallino, e quando se ne allontani; acciocché la immagine di ciascun oggetto possa nell’occhio riuscir netta e distinta. Nè più nè meno che nella stanza buia convien fare col foglio di carta; che se non è posto ivi giustamente, dove per la refrazione della lente concorrono i raggi di un oggetto, la immagine di esso ne torna sfumata e confusa. A tale effetto si vuole sieno ordinati certi muscoli che fasciano il globo dell’occhio. Ciascuno de’ quali ha in oltre un proprio e particolar suo ufizio: questo di volger l’occhio all’in su, quello all’in giù; questo a destra, quello a sinistra; ed uno ce n’è, al cui governo presiede chi governa buona parte della nostra vita. Muove esso obliquamente l’occhio, e gli dà quel muto favellare, che suole essere più eloquente e più caro di qualunque più espressa parola. Tutti dipoi insieme quei muscoli si vuole che concorrano a portare la retina ora più dappresso all’umor cristallino ed ora ad allontanarnela; secondo che da noi or qua or là si viene rivolgendo la vista, ed ora quella cosa si adocchia ed or questa, posta più vicina o più lungi da noi. Ma qualunque sia l’ingegno, per cui si ottenga di conformar diversamente l’occhio, secondo le varie distanze degli oggetti, ci sono di quelli che per proprio difetto noi possono conformare in maniera da veder distintamente le cose lontane, e dagli ottici sono detti miopi: ed altri all’incontro, che noi possono per le vicine, sono detti presbiti. - E per questi tali, - disse la Marchesa - mi penso sieno fatti gli occhiali. - E di varie specie occhiali - io risposi. - Gli ordinari non sono altro che una lente convessa da amendue le bande; e trovati furono solamente quattrocento anni fa a consolazione de’ presbiti, o sia de’ vecchi. L’uno de’ tanti incomodi che mena seco la vecchiaia è lo appassire dell’occhio, e il soverchio accostamento della retina all’umor cristallino. Da ciò ne viene che i raggi degli oggetti vicini, che dalla lente sono raccolti più da lontano, arrivano alla retina prima di essere riuniti, e vi stampano una immagine confusa e sporca. - Non maraviglia dunque, disse la Marchesa - se cotesti vostri presbiti, quando hanno da leggere una lettera, e non trovano gli occhiali in pronto, la tengano molto lungi dall’occhio. In tal caso la immagine, che cade all’umor cristallino più vicina, può riuscir netta e distinta. - E similmente avviene - io soggiunsi - se, tenuta la lettera alla consueta distanza, la lente dell’occhiale aiuti la refrazione del cristallino, e faccia sì che i raggi si uniscano a minor distanza a esso che fatto non avriano: malinconie per altro, delle quali non si conviene parlare a chi ha, come voi,

chiar’alma, pronta vista, occhio cerviero.

A voi, Madama, si conviene piuttosto parlare degli occhiali de’ filosofi; voglio dire dei microscopi e telescopi, mercé i quali pur possono contentare in parte e sbramare la loro curiosità. Di moltissimi oggetti avviene che la immagine non riesca per conto niuno sensibile alla nostra vista, a cagione della estrema sua picciolezza; di alcuni oggetti, perché minutissimi, quantunque a noi sieno vicini; di altri, perché da noi sommamente lontani, quantunque in sé sieno vastissimi. Intorno a quelli si adoperano i microscopi, i telescopi intorno a questi: e per via di varie sorte di lenti in essi congegnate ingrandiscono quelle piccioline immagini, per modo che ci è ora dato veder quello che altre volte non vedeasi; o vedere con distinzione grandissima ciò che solamente vedeasi così in confuso. Non si potrebbono mai esaltare abbastanza così nobili trovati, de’ quali siamo debitori al nostro Galilei, che prese di Linceo meritamente il nome, e rese, si potrebbe anche dire, lincei gli occhi dell’uomo. Cogli aiuti del telescopio l’uomo si è fatto più d’appresso al cielo, e si mescola, in certo modo, con le cose che tanto sono al di sopra di lui. Quante stelle non siamo noi giunti ad scoprire, che isfuggono l’occhio nudo? E la via lattea, che veggiamo biancheggiare la notte, e stendersi dall’uno all’altro polo, non è altro che una moltitudine infinita, uno esercito innumerabile di stelle. Delle montagne e de’ valloni che sono nella luna, sarà senza dubbio, Madama, giunta la voce anche a voi. Sono esse pure una scoperta de’ telescopi, i quali nelle macchie di quel pianeta ci hanno fatto vedere delle bassure e delle alture grandissime: a tale che ce ne ha che superano di molto queste nostre Alpi. Per via poi delle macchie che ci hanno mostrato sulla faccia di Giove, di Marte e del sole, siamo pervenuti a conoscere il giro ch’e’ fanno intorno a se stessi. E solamente dal passato secolo in qua, che sonosi trovati que’ belli ordigni, sappiamo che Giove ha intorno di sé una corona di quattro satelliti, o lune, che vogliamo chiamarle; e Saturno ne ha una di cinque, con di più un bello anello luminoso, che gli aggiorna di continuo le notti. Per essi finalmente si conobbero con precisione le grandezze de’ pianeti, quelle distanze di tanti milioni di miglia che sono tra essi e noi; si è venuto in chiaro del vero sistema del mondo; e se già disse un antico poeta che Giove guardando la terra, non vi potea veder nulla che non fosse trofeo dell’armi romane, forse i filosofi potrian dire al presente che, guardando il cielo, non vi può veder cosa che non sia scoperta e quasi conquista de’ telescopi. Feci io qui un po’ di pausa. E la Marchesa riprese a dire: - Con tali e si magnifiche parole avete voi rappresentate le gesta de’ telescopi, che non so già io qual figura vi potranno fare i microscopi al paragone. - Di molto, Madama, - io ripigliai - hanno disteso anch’essi i confini dell’umano sapere. Se i telescopi, allungando la vista degli astronomi, ne hanno fatto conoscere mondi remotissimi da noi, e i microscopi ne hanno fatto conoscere noi stessi, assottigliando la vista degli anatomici. E se gli uni, mostrandoci le valli e i monti, la notte e il giorno, che a somiglianza della nostra terra hanno ancora i pianeti, ne hanno fornito argomenti per non credergli paesi oziosi e morti, ma abitati anch’essi, e gli altri ne hanno veramente mostrato innumerabili nazioni, dirò così, di viventi, incognite agli antichi, e in cose che non pareano gran fatto acconce ad essere abitate. In una gocciola di aceto e di altri liquori moltissimi vi si è discoperta una tal popolazione di animaluzzi, che la Ollanda e la Cina sono in paragone un deserto. Lascio poi a voi a pensare, Madama, quanto minutissima sia la picciolezza di quegli animaluzzi. Basta dire che dentro a un granello di miglio ce ne capirebbono i milioni. Né pare che sia meno mirabile di quelle strabocchevoli grandezze che ci ha fatto conoscere il cannocchiale, quella picciolezza incredibile, che pur ci ha fatto vedere il microscopio. - Ben pare - disse la Marchesa - che l’uomo tenga del divino; là singolarmente, dove ha saputo col suo ingegno trovare aiuti onde accrescere la picciolina sua forza, e farsi come maggiore di se medesimo. Ma sovra ogni altra cosa ammirabili mi paiono questi strumenti per cui ora la nostra vista si stende quasi in infinito di qua e di là degli strettissimi confini che pareva averle prescritti la natura. Che cosa vedevano, si può dire, gli uomini avanti la invenzione del cannocchiale e del microscopio? Non altro che la scorza, e un barlume delle cose. Starei per dire che gli antichi, riguardo a noi, fossero quasi ciechi. - In questa parte non è dubbio - io risposi. - Sebbene, ciechi erano reputati coloro, o almeno aver le traveggole, i quali vedeano con quegli strumenti quelle tante cose che hanno di tanto ampliato la sfera del nostro sapere. Ben ebbe a provarlo il nostro Linceo medesimo, al quale toccò di pagare assai cari i benefizi che colle sue scoperte si avvisò di fare all’uman genere. - Come? - ripigliò in atto d’impazienza la Marchesa. - Non si alzarono le statue, non si arse l’incenso, non si appiccarono i voti a un tal uomo? - Al contrario, - io risposi - la ricompensa che egli ebbe fu la stessa che, per avere discoperto un nuovo mondo, avea avuto alcun tempo innanzi il Colombo: accuse, processo e carcere. Né altrimenti succede a coloro i quali a fil di ragione pigliano a combattere le opinioni radicate nelle menti degli uomini, e colla verità alla mano fannosi ad atterrare gl’idoli della prevenzione. Le discoperte del Galilei contraddicevano a quanto insegnavano i maestri di allora sulla struttura del corpo umano, e sulla fabbrica singolarmente de’ cieli; andavano per diritto a ferire quanto sulla parola di Aristotele credevasi a quei tempi nella filosofia essere più solenne e più sacro. Ed ecco quanto bastò perché egli fosse contrariato da ogni parte, perseguitato, condannato, tenuto reo. Oltre di che le nuove scoperte si disprezzavano, perché nuove; gli errori che messo aveano, dirò così, tanti secoli di barba, si sostenevano come le verità le meglio dimostrate. Tanto è vero che la caligine dell’antichità suole ingrandire nella nostra apprensiva l’altrui merito, come appunto gli oggetti per nebbia sogliono apparir più grandi del giusto. Né io mi maraviglierei punto che anche al dì d’oggi alcuni ci fossero tra noi, tanto innamorati delle cose antiche, i quali facessero maggior caso dei sogni di Parmenide, secondo cui il sole è freddo e caldo, la via lattea un miscuglio di denso e di raro, che de’ più bei trovati de’ nostri filosofi. - Per quanto venerabile - riprese a dir la Marchesa - essere possa la nebbia o la barba dell’antichità, non credo però già io il facessero, una volta che avessero veramente assaporata la filosofia moderna, che con tanta chiarezza rende le ragioni delle cose, e udito avessero quanto da voi mi è stato esposto sinora. - Peccato, - io risposi - Madama, che tutto quello che avete udito non sia per star saldo alla prova. Non dico già che dobbiate aver dubbio alcuno intorno al refrangere e riflettere della luce, che abbiamo discorso; intorno alla perfetta similitudine che corre tra la camera oscura e il nostr’occhio: né che dobbiate ritrattarvi della rinunzia che avete generosamente fatta del colore, che tenevate più vostro, del misto di rose e di ligustri. Ma finalmente del sistema del Cartesio voi dovete fare quel conto, e non più, che si vuol fare d’un bel giuoco di fantasia. - Ecco adunque soggiunse qui prestamente la Marchesa - che la miglior parte del mio sapere è ita in fumo. Con quanta facilità non poteva io render ragione di mille cose, e tra le altre formarmi dentro alla mente qual colore più mi piaceva? E Dio sa quanti pensieri mi costerà da qui innanzi una sola mezza tinta! Io vi confesso che mi sa malagevole a dovere abbandonare il Cartesio: e io pur mi sentiva affezionata a quel suo sistema. - Ma senza dubbio, Madama, - io risposi - molto più il sarete alla verità. Il sistema del Cartesio ebbe, come Ercole, sin dalla culla di gran nimici a combattere; ma, al contrario di Ercole, quasi che nella culla medesima fu spento. Appena comparì al mondo, che fu obbiettato da alcuni come il lume delle stelle non potrebbe in niun modo giugnere a noi, perché la pressione di un vortice rintuzza ed uguaglia la pressione degli altri co’ quali è in equilibrio; cosicché lungo i confini di ciascun vortice la luce è come ammorzata da una contraria luce. Da altri più sottili esaminatori delle cose naturali fu poi mostrato lo imbarazzo, anzi la impossibilità che avrebbono i pianeti a muoversi nei vortici del Cartesio; e molto più le comete, che vi girano talvolta per un verso contrario a quello de’ pianeti. - Non mi diceste già voi - soggiunse qui la Marchesa - che dal vortice sono portati in giro i pianeti, come giù a seconda sono portate le navi da una corrente? - Così è - io risposi; ed ella: - Pel giro adunque de’ pianeti pare non ci abbia luogo difficoltà alcuna. Niente immaginare potrebbesi di più chiaro. E tra le correnti del vortice, che vanno tutte per un verso, non potria egli avvenire che se ne formassero alcune, che andassero per un verso contrario, come, per rivolgimento delle acque ritrose, avvenire pur talvolta si vede ne’ fiumi? E non potrebbero esse correre per di assai lunghi tratti, atteso la vastità medesima del vortice? E queste correnti contrarie saran desse, che ne porteranno le comete a ritroso e per un verso contrario a quello de’ pianeti. - L’amore - io risposi - che avete posto nel vostro Cartesio, vi rende più ingegnosa che mai. E ben voi, Madama, cercate ogni via, come fanno i veri amanti; vi atterreste ad ogni ragione, per non dipartirvi da lui. Se i pianeti non facessero altro che girare, o danzare a tondo, non ci saria che dire. Il male si è che il fanno con certe particolarità, con certe tali leggi, le quali non ci è verso, per quanti tentativi sieno stati fatti, di aggiustarle con quello che vorrebbe la propria natura e l’indole del vortice; e guastano ogni cosa. E quanto al vostro sistema delle comete, ben può ne’ fiumi venirsi formando alcuna corrente contraria al filo dell’acqua, per la più o meno profondità del letto del fiume, per la varia posizione delle sue rive, o che so io. Ma simili cause, come trovarle nel libero corso di un vortice nell’ampiezza del cielo? senza che qualche particolar corrente, che si venisse anche formando sarebbe assai prestamente vinta dalla corrente generale, e quivi si perderebbe; come vediamo appunto avvenire ne’ fiumi, che il filone dominante, a parlar così, dell’acqua porta via seco e assorbe ogni cosa. In una parola molte e gravissime obbiezioni furono mosse contro a quel sistema che ha trovato tal grazia dinanzi a voi, e per cui ha tanto combattuto il fiore dell’accademia di Francia. Ma una tra le altre ce n’è che gli dà l’ultimo crollo.

Quivi non fanno i Parigin più testa.

- E qual è mai - disse la Marchesa - questa così terribile obbiezione? - Ecco qua, Madama: - io risposi - la pittura di questo muro è quello che gli fa così cruda guerra. - Se egli non ha a temere - soggiuns’ella - altro nemico, io fo tosto cancellarla quella pittura. - Oramai - io risposi - il vostro amore per il Cartesio non conosce più termine, nè segno alcuno; che gli vorreste anche sacrificare il vostro Paolo, che ha saputo così ben ritrarre su questo muro la pittura omerica dell’ira d’Achille. Ma troppe bisognerebbe cancellarne delle pitture, e secondo l’uso d’oggidì dar di bianco a ogni cosa. Orsù, Madama, io pianterò questo mio coltello qui nella tavola, che è in mezzo della galleria. Voi rimanetevi qui; io andrò a pormi là in quel canto. Or bene, voi, Madama, tenete l’occhio fisso nella clamide rossa di quell’Achille; ma fate di traguardare per mezzo l’estremità del manico di quel coltello. - Volete dire - ripigliò qui la Marchesa - che io faccia come i cacciatori, quando prendon la mira. - Così per appunto - io risposi. - E intanto che voi state mirando quella clamide rossa, io traguardo per simil modo quell’azzurro del mare; cioè prendendo la mira anch’io per mezzo alla estremità del manico del medesimo coltello. Ora egli è indubitabile che ivi, per quel punto per cui da noi si traguarda, passa un raggio che viene dalla clamide ed uno che viene dal mare. I quali due raggi altro non sono se non due filze di globetti, l’una delle quali si stende dalla clamide al vostro occhio, l’altra dal mare al mio. E ancora è indubitabile, che questi due raggi si tagliano insieme nel punto da noi preso per mira; e però si trova ivi un globetto, che è comune, ed appartiene così all’un raggio come all’altro. - Io non vedo ancora - disse la Marchesa - dove si vada a parar la cosa. Ed io: - Acciocché quei raggi facciano impressione in noi, sarà mestiero che i globetti del raggio che viene dalla clamide premano dalla clamide sopra il vostro occhio; e i globetti del raggio che viene dal mare premano dal mare sopra il mio. E così quel globetto, che si trova esser nel punto per dove da noi si traguarda, e che appartiene ad amendue questi raggi, bisognerà che prema a un tempo e sopra il vostro occhio e sopra il mio. Che sarebbe lo stesso che dire che, essendo voi in capo di due viali, vi avviaste nel medesimo tempo e per l’uno e per l’altro. E questo non è il tutto. Parmi però - disse la Marchesa - essere tanto che basti a rovesciare ogni cosa. Bisognerebbe ancora - replicai io - che in quell’ istesso globetto, solido come egli è, ci fossero due differenti moti di rotazione a un tempo: quello che è voluto dal Cartesio, per muovere in voi l’idea del color rosso, e che dalla clamide scorre per il vostro raggio; e quello che è necessario a muovere in me l’idea dell’azzurro, e che dal mare va scorrendo per il raggio mio. Voi comprendete adunque, Madama, che con questi globetti non potremmo veder nulla di quello che noi pur veggiamo. - Comprendo ora - ripigliò la Marchesa - con quanta ragione dicevasi della poca fede che si vuol dare a’ sistemi di filosofia. Ma certo non avrei pensato mai che questo dovesse dare in terra così facilmente. - Lo stesso Mallebranchio, - io risposi - una delle più ferme colonne del cartesianismo, fu scosso egli medesimo da quella difficoltà; e pensò di metter mano nel sistema, cercando di assestarlo in modo che non repugnasse all’esperienze, che con ragione furono da lui chiamate revelazioni naturali. - E venne egli poi fatto -disse la Marchesa - a cotesto Mallebranchio di raddrizzare in qualche modo l’edifizio? - Il Mallebranchio - io seguitai - ha fatto in picciolo nel sistema della luce quello che nel sistema del mondo avea fatto in grande il Cartesio. Per ispiegare i moti de’ pianeti aveano immaginato gli antichi ch’e’ fossero portati in giro da certe sfere solide dette epicicli: e, per render ragione delle varie apparenze di essi moti, facevano entrare così sgarbatamente quegli epicicli gli uni entro degli altri, ch’era proprio una confusione; lo che diede motivo allo scandaloso motto di quel re matematico: che se Iddio, quando fece il mondo, l’avesse chiamato a consiglio, l’avrebbe assai meglio consigliato. Il Cartesio, per far giocare i pianeti più liberamete, sostituì a quegli epicicli i suoi vortici. E similmente il Mallebranchio, per meglio spiegare gli effetti della luce, in cambio dei globetti duri immaginati dal Cartesio, vi sostituì dei vorticetti di materia sottile od eterea, picciolissimi e fluidissimi, de’ quali ha riempito nel mondo ogni cosa. Il corpo luminoso, dic’egli, a guisa di cuore nell’uomo, si ristringe a ogni momento e sì dilata; il che è causa di ondeggiamento nel mare dei vorticetti, che da ogni lato l’attorniano. Ora questi ondeggiamenti medesimi sono la luce; e la varia loro celerità il colore. Di qui egli ricava un’assai stretta parentela che corre tra la luce e il suono, ond’altri non s’era avvisato per ancora. Gli ondeggiamenti che concepisce una corda, quando percossa, e ch’essa comunica all’aria, e l’aria dipoi all’organo dell’udito, risvegliano in noi il sentimento del suono; e gli ondeggiamenti che da una fiaccola vengon comunicati alla materia eterea, e quindi al nervo dell’occhio, risvegliano in noi l’idea della luce. Nella maggiore o minor forza degli ondeggiamenti dell’aria sta la maggiore o minore intensione del suono; e nella maggiore o minor forza degli ondeggiamenti dell’etere sta la maggiore o minore intensione della luce. Anzi, a quel modo che la varia frequenza nel guizzar dell’aria fa la varietà de’ tuoni, come grave, acuto, con quelli che sono di mezzo, così la varia frequenza nel guizzar dell’etere fa i vari colori rosso, giallo, e gli altri, che si possono considerare come i tuoni della luce. - Io non so - disse la Marchesa - se mai similitudine sia stata, e direi anche da certi nostri oratori, spinta tant’oltre. E più oltre ancora lo è - io risposi - da cotesto filosofo. Non è dubbio che i vari ondeggiamenti dell’aria si tagliano insieme, senza che l’uno rechi un minimo turbamento all’altro, non che si distruggano tra loro: come veggiamo tutto dì avvenire nei concerti di musica, dove il violino non si confonde col basso, o il basso col violino,

e dove in voce voce si discerne.

Per simil modo, è ben naturale a pensare che succeda dei vari ondeggiamenti dell’etere, che dai diversi colori delle cose si trasmettono a varie parti; i quali potranno tagliarsi fra di loro senza confondersi, ovvero alterarsi in alcun modo. E ciò perché un vorticetto, che sia comune a due filze che ondeggiano, potrà da una parte ondeggiare per un verso e dall’altra per l’altro, dividendosi, per la medesima cedevolezza delle sue parti, come in due. E così i vorticetti del Mallebranchio, mercé la fluidità loro, vagliono a far quello che non potean fare i globetti del Cartesio, colpa la loro solidità. - State: - qui m’interruppe la Marchesa - chi veggo io là nel giardino? Il signor Simplicio, che viene alla volta di noi. Che partito prendere per difenderci da quella noia di sonetti, con che egli mi rifinisce; e ciò non falla mai, in ogni sua visita? Ché non viene un qualche vortice a seco rapirlo, e a torlo via dal nostro sistema? - Alla quale io risposi: - Madama, non vi lasciate vincere a troppa pulitezza; tenetevi sempre in sulla filosofia: ed ella sarà il vortice o l’Apollo, che ne salverà da tale seccaggine. - La Marchesa disse che le piaceva. Mentre tra noi erano questi ragionamenti, ed ecco il poeta, il quale in sul primo abbordo prese occasione da un "come sta ella?" di ragguagliarne che da un tempo in qua pareva lo avessero in ira le Muse; che la vena d’Ippocrene e dell’usato ingegno era omai secca per lui. Avendogli noi fatto il piacere di contradirgli, egli ne rispose esser presto a provarne quanto detto ne avea con due sonetti e con una canzone, composti in quella istessa mattina, da’ quali ben avremmo potuto conoscere quanto poco gli prestasse Apollo di quel favore del quale altre volte gli soleva esser così largo e cortese. - Quando sia così, - riprese la Marchesa - io per me, se fossi voi, vorreimi or ora spoetare. Venite terzo tra noi a ragionar della luce e de’ colori, che hanno oggi fatto la materia de’ nostri discorsi: e questi boschetti diverranno un’Arcadia di filosofia. - Egli se ne schermì, dicendo non aver ala così robusta da salir tant’alto. Aggiunse non potersi meglio temperare la severità de’ discorsi filosofici che con la poesia; e adduceva l’esempio del divino Platone, il quale non isdegnò, diceva egli, con quelle stesse mani che scrissero il Timeo di toccar la cetera: ed entrava in più altre novelle, quando la Marchesa pur ferma a non voler dar retta a’ suoi sonetti, rivoltasi a me, tornò in sul discorso del Mallebranchio, dicendo che veramente con que’ suoi piccioli vortici si veniva a scansare la difficoltà che era stata tanto fatale a’ globetti; ch’ella per altro non si teneva gran fatto sicura della sussistenza di quella riforma, per la fresca memoria delle disavventure del Cartesio. - Pur troppo è vero, - io risposi - della natura delle cose umane essere la caducità: - cosa che il signor Simplicio ne l’avrebbe confermata con molti bei luoghi di poeti, e, a un bisogno, ancora co’ suoi. - Ma quello, Madama, - io continuai a dire - che certamente non vi aspettereste mai, si è ch’egli è pur forza rinunziare al sistema o alla riforma del Mallebranchio, per quella medesima similitudine tra il suono e la luce, che al primo ispetto gli dà tal aria di verità. Ella vien meno questa similitudine al maggior uopo. Ogni moto di ondulazione, il quale dal suo principio si dilata d’ogni intorno per cerchi via via più grandi, se viene ad incontrar nel cammino un qualche impedimento, non per questo si ristà egli; che anzi piegando da’ lati di quello, e facendogli ala, procede innanzi in cerchi ordinati tuttavia. Non vi sovviene, Madama, che noi l’altro dì udimmo molto bene il suono di un corno da caccia, che veniva di oltre quel colle? Segno manifesto che, non ostante lo interposto impedimento, giugnevano a noi i cerchi ondeggianti mossi dal suono nell’aria. Lo stesso vedremmo avvenire in quella vasca: che se altri vi gettasse dentro un sassolino, l’onda non si arresterebbe già nel mezzo di essa, scontrando il piedestallo di quel gruppo; ma ben si dilaterebbe da ogni lato, e cercherebbe con la fluttuazion sua tutta la vasca. Adunque, come si ode il suono, dovrebbesi ancor veder la luce, ad onta di qualunque cosa frapposta. In conclusione non avremmo mai ombra; che, massime a questi dì, non sarebbe la più dilettosa cosa del mondo: come neppur l’avremmo con la pression del Cartesio. Ogni globetto di luce, toccandone molti altri, a sé contigui, e questi toccandone degli altri, dovrebbe col suo premere sparpagliar la luce per qualunque verso, e illuminare anche colà dove non può dirittamente il sole. Talché nel colmo della mezza notte ci vedremmo così chiaro come di bel mezzodì. - Ecco - disse la Marchesa - una nuova difficoltà contro al sistema del Cartesio, di cui per altro io non avea bisogno a sapere da quanto egli fosse. - In fatti - io ripigliai avremmo sempre luce senza interrompimento d’ombra, tanto nella supposizione del Cartesio, quanto in quella del Mallebranchio, siccome ha dimostrato il Neutono; il quale non si contentò di scoprire nell’ottica gli errori altrui, che vi sostituì del suo le più belle verità. Dette queste cose noi scendemmo nel giardino a pigliare un poco d’aria. E quivi entrammo in altri discorsi, cercando però sempre di distornare in un modo o in un altro la vena poetica del signor Simplicio.

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