< Dialoghi sopra l'ottica neutoniana
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III V


Nel quale si continua ad esporre il sistema di ottica del Neutono.

La seguente giornata trovavasi ancora lontano dal meriggio il sole, quando si levò la Marchesa: e senza darsi gran pensiero di quello che la mattina suol essere lo studio delle donne, mi mandò dicendo come era del piacer suo che, il più presto che per me si potesse, io mi rendessi nelle sue stanze. Io mi vi rendei senza indugio; ed ella, tosto che mi vide, si fece a dire così: - Vedete bel frutto che io colgo di cotesta vostra filosofia. Buona parte della notte ella mi ha tenuta desta, facendomi or l’una sponda cercare del letto ed or l’altra; e quando finalmente vinta dal sonno mi addormentai, immagini colorate, prismi e lenti, null’altro che quelle sperienze, che mi avete descritte ieri, andavami per la fantasia. - Madama, - io risposi - guardate il bell’onore voi mi fareste, se venissero a risapere che io non vi fo sognar d’altro che di prismi e di lenti. - Non dubitate - ripigliò ella subito - io pur aveva il pensiero a voi; io mi studiava d’imitarvi; e andava meco medesima fantasticando di recare anch’io alcuna novella prova nel sistema neutoniano. - E non era egli più naturale - io risposi - avere il pensiero al filosofo, e prescindere dalla filosofia? - Per la parte mia, - riprese a dir la Marchesa - era più naturale, il confesso, pensare a tutt’altro, che fatto non ho. Troppo male a proposito ho voluto inframettermi a cercare di quello che il trovarlo non era cosa da me. Una Bradamante o una Marfisa poteano sì bene entrare in lizza, e giostrare co’ paladini; ma una Fiordiligi dovea esser contenta a starsi sul suo ronzino, e lasciargli fare. Immaginate da questo, quale esser dovesse l’agitazione della mia mente, che si lasciò trasportare, io non so come, a così arditi ed elevati pensieri. - Alle grandi passioni, - io risposi - che più scaldano gli animi e gli mettono in azione, noi siamo debitori, anche nelle lettere, delle cose più belle: e ne’ tempi appunto che più bollivano le passioni nel mondo, nacquero la Iliade, l’Eneide, i poemi di Dante e del Miltono. Non so che di maggiore è forse nato la scorsa notte. - Or vedete sconciatura - ella riprese. - Un raggio di sole, io diceva meco medesima, non è egli un fascetto, una moltitudine, una matassa di fili di diverso colore? E dallo essere i vari fili intrigati e mescolati insieme, non ne viene egli che bianca ne apparisca tutta la matassa? Ora chi potesse rimescolare, intrigare di bel nuovo insieme quei fili, dopo che d’insieme sono stati scompagnati, ne dovrebbe di bel nuovo risultare il bianco. Ma, per quanto io abbia pensato e ripensato al modo da tenersi per venire di ciò in chiaro, al come fare una tal prova, non mi è stato possibile di venirne a capo. - Per vostra gloria, - io ripresi - vi dee pur bastare, Madama, che potrete dire di aver pensato nello stesso modo appunto che pensò un Neutono: e ben poi si conveniva ch’egli vi liberasse dalla briga di mettere in esecuzione il pensiero. - E come ha egli fatto? - riprese a dir prestamente la Marchesa. - Più esperienze - io risposi - egli immaginò a tal fine; ed eccovene una. La immagine del sole dipinta dal prisma nella stanza buia, egli la faceva cadere sopra una lente convessa, affinché i raggi di diverso calore separati dal prisma fossero dalla lente raccolti nel foco, e quivi rimescolati insieme. - Verissimo: - disse prontamente la Marchesa - ecco, la lente intriga di nuovo ciò che avea strigato il prisma. Ma, ohimè! come a me non è bastato l’animo di farlol Tutte le cose, che bisognavano, io le avea innanzi; restavami solo a congegnarle insieme, e non ho saputo. - Ricordatevi, Madama, - io risposi - di quel facile, che è tanto difficile, ed è sempre ultima cosa che si trova. Gli antichi usavano improntar nomi e cifere con forme rilevate e gittate di metallo. Perché non fare di ciascuna lettera dello abbiccì parecchi simili impronti, accozzargli insieme, stampare? E forse non vi vollero tre secoli e più, dopo la invenzione degli occhiali, a fare il cannocchiale; cioè a congegnare a proporzionata distanza delle lenti, che tutto il mondo avea tra mano? e questo istesso, più che degli uomini, si può dire opera del caso. A uno indotto artefice di occhiali in Olanda venne un tratto veduta una così fatta combinazione di lenti, per cui gli oggetti per esse traguardati ingrandivano di molto, e ne venivano come trasportati più da vicino. Sparsosi di ciò confusamente il romore per tutta Europa, e pervenuto al Galilei, egli vi almanaccò sopra; trovò quale esser dovesse quella tal combinazione di lenti; e fabbricò il suo cannocchiale, con cui si mise tosto a ricercare il cielo, e vi scoprì quelle tante novità e maraviglie, da esso lui annunziate dipoi agli uomini sotto il nome di Messaggero celeste. Ma tali maraviglie ne sarebbono forse ancora nascoste, se all’occhialaio di Ollanda stato non fosse così benigno il caso. - Veggo bene - disse la Marchesa - che voi mi volete consolata a ogni patto. Ma non è egli vero che quel luogo, dove concorrono i raggi colorati, è perfettamente bianco? - Così è - io risposi. - Bianco veramente si trova essere il bandolo della matassa, dove fan capo tutt’i fili. Non così tosto i raggi sono passati al di là della lente, che l’uno si accosta all’altro, incominciano a confondersi tra loro, sino a tanto, che incorporati tutti insieme, ne risulta una immaginetta tonda e bianca, o più presto tirante al doré, come era appunto la luce, innanzi che si scontrasse nel prisma. Tutto ciò si vede ponendo un cartoncino dopo la lente, e quindi via via rimovendonelo, e fermandolo finalmente nel luogo dove concorrono insieme e s’incrocicchiano i raggi. Che se viene ritirato più là, tornano a poco a poco a svilupparsi e a comparire di bel nuovo i vari colori della immagine. E ciò ben mostra che nel foco della lente nulla perduto aveano delle naturali loro qualità: ed è forza dire la ragion del candore, che quivi si osserva, non esser altro che l’aggregato di tutti i colori. - Un tal fatto - entrò qui la Marchesa - dovevate naturalmente avere in vista, quando ieri mi diceste che la immutabilità del colore si mantiene anche allora che raggi di differenti specie si taglino tra loro. Se così non fosse, non si vedrebbono di bel nuovo comparire i colori del prisma di là del luogo ove si uniscono. - Su questa esperienza appunto, - io risposi - benché a ciò giustamente non intesa, era fondata la mia asserzione; poiché in virtù del legame quasi geometrico che hanno tra loro le proprietà della luce, una sperienza del Neutono non si ristringe già essa d’ordinario a provare una cosa sola. - La filosofia del Neutono - disse la Marchesa si direbbe che rassomigli alle guerre degli antichi, dove una sola giornata ch’e’ vincessero, eran soliti conquistare più di una provincia. - Quello che voi dite - io replicai - tanto più è giusto, Madama, quanto che pare che la filosofia degli altri rassomigli giustamente alle guerre de’ moderni; dove il frutto della più compita vittoria suol consistere in prendere una fortezza, che mediante un trattato si ha da restituire pochi mesi appresso. - Ma tornando - disse la Marchesa - alla nostra sperienza, e chi chiudesse la via a un colore, sicché non passasse oltre per la lente? - Anche in questo, - io risposi - Madama, il Neutono ha prevenuto i vostri desideri. Egli tagliò il passo vicino alla lente ora ad un raggio e ora ad un altro; e il colore del bianco cerchietto trasmutavasi in quello che dovea riuscire dalla mescolanza dei raggi che scorrevano oltre. Quando, per esempio, restavano esclusi i raggi rossi, il candore traeva all’azzurro; ed al rosso, quando restavano esclusi i violati e gli azzurri; perché allora predominava nella mistura l’azzurro, ovveramente il rosso. Che se, tolto via ogni impedimento, i raggi tornavano tutti quanti al cartoncino rintruppati insieme, il bianco tosto vi riappariva. - Oh! qui - disse la Marchesa - vorrei vedere l’oppositore del Neutono, e sentire dalla di lui propria bocca che sorta di obbiezioni egli potesse fare contro a così chiare prove e così evidenti. - Nè queste - io continuai - sono le sole che si abbiano a mostrare che dalla mescolanza di tutti i colori ne risulta il bianco. La immagine colorata che da un raggio di sole disviluppa il prisma, guardatela per modo, ponendo un altro prisma dinanzi all’occhio, che e’ ne ravviluppi insieme i colori, e trasformata la vedrete in un cerchio tutto bianco. Ciò si fa in tal maniera. Voi già sapete, Madama, che il rosso della immagine, che è dipinta sul muro della stanza buia, è nella parte più bassa; sieguono dipoi il doré, il giallo, il verde, l’azzurro, e l’indaco, e finalmente il violato, che è di tutti i colori il più alto. Ora immaginatevi che altri postosi dirimpetto di essa immagine, e guardandola col prisma all’occhio, debba vederla per la refrazione più giù che non è in fatti: e immaginerete anche agevolmente come il prisma portando più in giù il violato e l’azzurro, che il giallo e il rosso, cioè portando più in giù colori più refrangibili, che i meno, quelli vengono ad accavallarsi sopra questi, e tutti si confondono insieme nell’occhio. Confusi insieme mostrano il bianco. Guardata per simil modo mostrasi pur bianca l’iride, o arco baleno che dir la vogliamo; e dispariscono i bei colori, de’ quali ella dipinge e rallegra il cielo. Essa non è altro che l’effetto della separazione che si fa de’ raggi del sole nell’acquosità delle nuvole, che gli sono in faccia: e l’occhio nostro, che posto è di mezzo tra il sole ed esse nuvole, vede i colori, che si separano da’ raggi solari, disposti in altrettante fasce intorno intorno da lui. Ora tutto l’arco dell’iride bianco apparisce, e assai più ristretto di prima, come io ho più di una volta osservato, chi la guardi col prisma rivolto in modo da fare accavallare le une sopra le altre le fasce colorate, nelle quali esso arco è variato e diviso. - Egli è proprio un danno - disse la Marchesa - che questa così bella esperienza non si possa prenderla sempre che un vuole; e che la pioggia convenga per ciò aspettare ed il mal tempo. Non così avverrebbe chi abitasse presso la cascata di un qualche fiume. Non è egli vero che ivi godono ogni giorno, che è sereno il cielo, della vista dell’arco baleno? - verissimo: - io risposi - se hanno le orecchie del continuo intronate dal romore, che mena l’acqua grandissimo, hanno anche il piacere di veder l’iride nello spruzzo che si rialza dalla medesima acqua, la qual rompe ne’ soggetti sassi, e si sparge tutto intorno in sottilissima nebbia. Un così bel fenomeno si osserva tutto giorno alla cascata di Terni, a quella di Tivoli tanto da’ pittori studiata, e a quella tanto strepitosa dì Niagara; ed ivi non è guari veduto che dagli occhi poco eruditi degli Americani. Ma ben saprete, Madama, che l’arte è giunta a contraffare facilmente un così bello effetto: e oggimai più non abbiamo da portare invidia a coloro che ne sono favoriti dalla natura. I fontanieri sanno rompere così fattamente uno spillo d’acqua, facendolo schizzare a traverso di minutissimi trafori, ch’e’ si viene a dispergere per aria in una infinità di minutissime goccioline. E sol che uno si ponga tra l’acqua ed il sole, può avere a talento suo la dilettosa vista dell’iride. Un così bel giochetto mi sovviene di averlo veduto in non so qual villa di Roma. - State pur sicuro: - disse la Marchesa - un simile gioco d’acqua non passerà l’estate, che in questo giardino l’avremo anche noi. Potremo quivi a nostra posta veder l’iride ed osservarla col prisma all’occhio: e tal fontana la chiameremo la fontana dell’ottica. - Perché non farle onore - io soggiunsi - di un bel nome greco, e chiamarla Leucocrene? che significa fontana del bianco, come Ippocrene, fontana di quel cavallo che d’Elicona fece scaturir quelle acque delle quali tanti hanno sete, e a pochissimi è dato di berne. - Così la chiameremo: - disse la Marchesa - ed io avrò nel giardino le prove del sistema del Neutono; come nella galleria ho le obbiezioni contro al sistema del Cartesio. - Intanto - io seguitai a dire - rientrar potremo, se vi piace, nella stanza buia; che vi vo’ far vedere una assai vaga cosa, che mi era fuggita di mente. Tornate col pensiero, Madama, a quella esperienza, in cui dopo il prisma è collocata una lente, ed essa raccoglie i raggi colorati in un bianco cerchietto. Già a voi non è fuggito di mente che, qualora l’uno o l’altro de’ raggi veniva alla lente intercetto, il cerchietto non appariva più bianco. Ma se altri tirava in su e in giù vicino alla lente un ordigno fatto a guisa di pettine, e forte spesseggiava, sicché i raggi colorati per via de’ denti a quello alternatamente ne venissero intercetti e trasmessi, sapete voi che avveniva? Il cerchietto non mutava punto colore, e rimaneasi bianco del tutto. Le impressioni che i differenti colori fanno nell’occhio di chi guarda, durano, ciascuna in particolare, per alcuno spazietto di tempo; ma succedendosi l’una dopo l’altra con somma prestezza nello stesso luogo della retina, esse vengono per conseguente a scontrarsi tutte in un sito nel medesimo tempo, onde viene a generarsi in altrui il sentimento del bianco. E ciò stato confermato ancora con una palla dipinta a spicchi de’ vari colori del prisma, che apparisce pur bianca, girata ch’ella sia rapidamente intorno a sé - Ecco - disse la Marchesa - delle novelle prove, e più ancora che non bisogna, a mostrare che la bianchezza è la confusione o l’aggregato di tutti i colori. - E volete voi, Madama, - lo soggiunsi - che questo ver più vi s’imbianchi, come dice il poeta? Tenete, come ha fatto il Neutono, dirimpetto all’immagine dipinta dal prisma un foglio di carta, così che i colori vengano tutti a illuminarlo ugualmente. Egli resta bianco come se fosse tenuto all’aria, ma se si muove più qua che là, si tinge subito di quel colore, che gli sarà più vicino. - Certamente - disse la Marchesa - la mal consigliata fui io, pensando a cosa, a che ci avea pensato tanto un sì grand’uomo:

Commetti al savio e lascia fare a lui.

Come avrei io potuto mai trovarne una sola di queste esperienze, per semplici e facili che paiano? - Voi trovate ben facilmente - io risposi - quello che darebbe di che pensare a’ filosofi. A voi si convien più di sapere in qual dose sieno da temperare insieme le cortesie e le ripulse, la speranza e il timore, per tener viva una passione, che in qual dose sieno da mescolare insieme materie polverizzate di più colori per formare il bianco. Anche questo fu provato dal Neutono. E in fatti di tale mescolanza il bianco, siccome era suo avviso, ne risultò; ma era smorto, fosco, e come nuvoloso, in comparazione di quel bianco che danno i colori del prisma. E non maraviglia, da che si vede assai chiaramente

che quel vantaggio sia tra loro appunto, ch’è tra il panno scarlatto, e i panni bui.

Se non che, mettendo al sole quella composizione di varie polveri, con che altro non facevasi che accrescere in lei la forza del lume, quel bianco, di smaccato ed ottuso, diveniva più spiritoso e più vivo. Sì bene: un bianco bellissimo, che è il risultato di tutti i colori, ce lo mostra la schiuma, che si leva dall’acqua agitata con sapone. Chi la osserva da vicino, vede le gallozzole o bollicelle di essa quasi formicolate di vari colori; ma, se egli si fa alquanto dalla lunge, que’ vari colori vengono a confondersi insieme, e bianca apparisce in ogni sua parte quella moltitudine di gallozzole. - Da quale picciola cosa - disse la Marchesa - non si ricava un testimonio e una riprova per una bella e importante verità. Parmi che nella scienza delle cose naturali il più leggieri fenomeno, una fanciullaggine, un niente sia di una così grande importanza, per gli occhi di un bravo osservatore, che nel gioco degli scacchi è tra le mani di un valente giocatore una pedina. Quella sperienza della schiuma era pur bella e fatta: fu pur in ogni tempo dinanzi agli occhi di tutti; e niun altro seppe farla giocare, fuorché il Neutono. - Madama, - io risposi - voi sapete, che in ogni cosa tutti vedono, e i pochi osservano: e della scienza dell’osservare poco o niun conto ne facevano i filosofi ne’ tempi addietro, quando acremente sostenevano il colore esser l’atto del pellucido, inquanto egli è pellucido; che erano dati solamente a studiare Aristotele, ad interpretare, a stiracchiare e distorcere i testi di lui, che chiamavano il maestro di color che sanno. Facendosi ancora più addietro, già non pare che nell’arte sperimentale si lambiccassero gran fatto il cervello coloro che ragionarono sopra le cose naturali. Seneca ne dà contezza di una verga di cristallo che gli occorse di esaminare; di una certa specie di prisma che, ricevendo da un lato il lume del sole rendeva i colori dell’iride; ed entrato a ragionare della causa a tal effetto, crede aver dato nel segno, paragonando quel suo prisma al collo di una colomba, in cui non è altro, siccome egli dice, che un’apparenza di colori falsi ed incerti. Ma, per poco che esaminato avesse quel suo prisma, e fattovi su una qualche osservazione, avria conosciuto agevolmente da quanti piedi zoppicasse quel suo paragone. - Egli riesce assai strano a pensare - disse la Marchesa - come gli antichi filosofi, per dilucidare i loro dubbi, per decider le liti, che insorger potevano nella scienza naturale, non ne appellassero alla esperienza; tanto più che nella medicina non si può già mettere in dubbio che delle osservazioni non facessero gran capitale; quando sia vero, come si dice, che i loro prognostici si verificano anche oggigiorno, e le loro prescrizioni sono a nostri dottori la più fidata scorta ch’egli abbiano. Ma il cuore umano che in quelle loro poesie sapeano volgere a lor talento, non aveano certamente appreso a così ben conoscerlo, se non profondamente osservandolo. - Che volete - io risposi - che io vi dica, Madama? Non è questo il solo esempio, che delle contraddizioni c’instruisca dello spirito umano. Non avete voi tante e tante volte veduto la medesima nazione, il medesimo uomo prudentissimo, ragionevolissimo in una cosa, imprudente e irragionevole in un’altra; benché in amendue gli dovessero pur esser di regola le stesse massime, gli stessi principi? Nella medicina si trovarono, non è dubbio, tra gli antichi, e in ogni maniera d’arti ancora, degli osservatori finissimi, dei Neutoni. Non così nella filosofia; dove, per la maggior parte dati tutti allo speculativo, stimavano forse che l’arte sperimentale sentisse troppo del meccanico. In troppo picciol conto la tenevano; né si sarebbero avvisati giammai ch’essa sola potesse arrivare a conoscere l’arte finissima, il magistero di natura; ch’ella dovesse un giorno pesar la fiamma da essi creduta assolutamente leggieri; pesar le esalazioni sottilissime del mare, la traspirazione insensibile dell’uomo; collocare i corpi in un mondo differentissimo dal nostro, come è uno spazio voto d’aria; imitare per via di certe misture i Vesuvi e i Mongibelli, e contraffare il tuono e il fulmine assai meglio che il loro Salmoneo. Chi poi avesse loro detto che, mercé di quell’arte, le composizioni, le mescolanze che ha fatto Iddio, l’uomo potrà separarle e discioglierle, avrebbono fatto le risa grasse, e contrapposto l’autorità del divino Platone, al quale piacque di asserire solennemente che un tal uomo né mai ci fu nè in tutta la lunghezza de’ secoli stato ci sarebbe giammai. E il Neutono seppe non solo disciogliere ne’ loro principi e scomporre i raggi della luce, ma seppe ancora ricomporgli di bel nuovo, rimpastargli a suo piacimento, e tali tornargli quali sono da prima, quand’escono vergini dal seno del sole e dalle mani, quasi direi, del Creatore. Pare forse a voi, Madama, che io dica di troppo? State ad udire. Entro alla stanza buia egli collocò due prismi, e una lente tra mezzo in tali distanze che i raggi del sole, i quali erano refratti e sciolti dal primo prisma, e poi riuniti nel foco della lente, fossero dal secondo prisma refratti un’altra volta per modo che ne uscissero perfettamente paralleli tra loro. Con si fatto artifizio, dopo aver separato i colori della luce, di nuovo gli rimescolò non già unendogli in un punto, ma per tutta la lunghezza di un raggio. Esso era non tanto nella bianchezza, ma in tutte le altre sue proprietà somigliantissimo a un raggio diretto del sole; tanto che rifatte con esso tutte le sperienze che fatte avea nel diretto, tornavano tutte a capello. Bello era vedere, se alla lente s’intercettava un colore, il verde, il rosso od altro qualunque, come quello mancava dipoi in tutte le sperienze che si prendevano; né refrazione o riflessione o altra cosa che fosse avea potere di riprodurlo. Ancora posti differenti corpi di vario colore in quel raggio artifiziale, mostravano tutti il proprio colore, come se tenuti fossero all’aria od al sole. Ma se vi mancava, per esempio, il rosso, il cinabro perdeva tutta la sua rossezza; e le viole il loro pavonazzo, se vi erano meno i raggi azzurri e i violati. Così il Neutono venne ad emular la natura, l’arte cioè d’Iddio nella materia (come la diffinisce quello istesso filosofo, che non credeva si potesse giugnere a tanto): venne a confermare più che mai le verità dianzi scoperte, e a dare alla bella opera sua l’ultima mano. - Oh! questo - disse la Marchesa - è stato il bel colpo di maestro; e se un tempo si favoleggiò di Prometeo ch’egli rubò il fuoco agli dei, si può dire presentemente che il Neutono rubò loro il secreto della composizione della luce, e ne fe’ parte agli uomini. Già non crederei che recar si potesse a maggior sottigliezza l’arte dello sperimentare. - Ma perché vediate ancora meglio - io risposi - quanto egli si fosse in quest’arte eccellentissimo, e il torto che aveano gli antichi a non coltivarla, sappiate, Madama, che quella medesima schiuma, di cui parlammo poc’anzi, così poco filosofica dinanzi agli occhi dei più, fu per esso il principal motivo onde scoprire il perché altre cose appaiono di questo colore, e altre di quello. - E non avea egli trovato - disse qui la Marchesa - che viene dal riflettere che fanno raggi di diverso colore le une in maggior copia delle altre, questo taffettà i gialli, l’erba i verdi, il cielo gli azzurri? - Sì, certamente: - io risposi - e ben egli erasi assicurato che tutti i fenomeni de’ colori, onde sono dipinte le cose, non risultano da altro che da separazioni o misture di raggi difformi; e che se i raggi della luce fossero di un color solo, di un color solo medesimamente sarebbe tutto il mondo. In tale certezza sarebbesi forse acquetato qualunque più sottil filosofo; ma egli si accese più che mai nella voglia di sapere più là. Per che ragione cotesto vostro taffettà ama egli, piuttosto che tutti altri raggi, di riflettere i gialli, l’erba i verdi? Simili domande egli ardiva fare alla natura; e vedete industria ch’egli usò, per ottenerne risposta. Egli si pensò di soffiare con un cannellino in quella schiuma, perché in mole alquanto considerabile ricrescesse una di quelle gallozzole, che levava qua e là. Quindi posata leggermente la gallozzola, fattasi mai più panciuta che non era prima, sopra di un tavolino, la ricoperse con un vetro a difenderla da quel po’ d’ondeggiamento che è sempre nell’aria, e che poteva turbar la sperienza. Ciò fatto egli osservava che in breve spazio di tempo la si andava spargendo di vari colori, i quali si stendevano l’uno dentro dell’altro intorno alla sommità di quella, a guisa di altrettanti anelli. Ma secondo che il velo d’acqua ond’era formata si faceva di mano in mano più sottile in cima, e più grosso all’in giù, discendendo l’acqua del continuo. si vedevano quegli anelli slargarsi a poco a poco, e venire ordinatamente essi ancora all’in giù, sino a tanto che si dileguavano dalla vista uno dopo l’altro, e il velo della bolla si scioglieva nell’aere in un minutissimo spruzzo. Ora da questa esperienza ben traluce, come attribuir si doveva alla varia grossezza del velo d’acqua, e non ad altro, la varietà de’ colori che vi si scorgevano per entro. Ma per averne più precisa contezza, avrebbe bisognato fermar l’acqua, che il proprio suo peso portava sempre all’in giù, o poter maneggiare a suo piacimento particelle di differenti materie, e particelle oltre ogni credere sottilissime e di varie grossezze; e su quelle fondare dipoi sue considerazioni e suoi computi. A ogni cosa si aperse il Neutono la via, reso dalle difficoltà medesime più animoso e sagace. A tal fine pigliò due lastre di vetro, l’una piana da amendue i lati, l’altra piana da un lato, e dall’altro rilevata alquanto o convessa. Il convesso dell’una pose sopra uno de’ piani dell’altra, soavemente comprimendole insieme; e in tal positura le fermò. Ora quelle lastre congegnate a quel modo postele in faccia al sole, osservava, nel punto del loro combagiamento o contatto, trovarsi una picciola macchia nera; e questa esser cinta da alcuni anelli diversi di colore, quale violato, qual rosso, qual giallo o doré; i quali formati venivano dal lume, che rifletteva tutto intorno la falda o laminetta d’aria, che tra quelle due lastre era come contenuta e compresa. Altri simili anelli di vario colore apparivano traguardando a traverso le lastre; e questi erano formati dal lume ch’essa laminetta trasmetteva. La varietà del colore procedeva qui ancora dalla varia grossezza della laminetta d’aria: picciolissima verso il contatto delle lastre, e gradatamente maggiore verso le estremità delle medesime, tanto che a ciascuno di quegli anelli, così dal lume trasmesso, come dal riflesso formati rispondeva nella laminetta d’aria una certa grossezza maggiore o minore, secondo che più o meno largo era l’anello. Per meglio poi determinare quali grossezze a ciascun colore rispondessero, si pensò il Neutono di porre quelle lastre ora in uno ed ora in un altro de’ lumi primitivi od omogenei della immagine solare, dove gli anelli tutti erano di un color solo, di quel medesimo cioè che sulle lastre batteva: rossi, se quello era rosso; azzurri, se azzurro, e così degli altri. Fattele però illuminare da ciascuna specie di raggi, l’una appresso dell’altra, misurò separatamente in ciascuna la larghezza dell’anello, ch’era più vicino al contatto, o alla macchia nera; e trovò che più ristretto di tutti era l’anello nel color violato, un po’ più larghetto era nell’indaco, più ancora nell’azzurro, e così successivamente sino al rosso; nel qual colore l’anello avanzava tutti gli altri in larghezza. Né diversamente accadeva, se in luogo dell’aria era tra quelle lastre intrusa dell’acqua, salvo che i colori erano men vivi; e il primo anello in ogni mano di colori era più ristretto che nell’aria, e più vicino alla macchia nera. Ora ecco che i raggi più refrangibili sono ancora i più riflessibili. Ciò viene a dire che in una data materia di minori grossezze è mestieri a riflettere il violato e l’indaco; e di maggiori a riflettere il rosso e il doré. Che se la densità in una materia sarà maggiore che in un’altra, sarà bisogno di minor grossezza nelle particelle della più densa che della meno, perché ne sia riflessa la medesima specie di raggi. E così i corpi sono come altrettanti tessuti, le cui fila, in virtù di certa densità o grossezza, ne riflettono all’occhio questa sorta di raggi meglio che quella; gli altri raggi che vi dan su, vengono a spegnergli nelle cieche vie, che sono tra filo e filo; e tutto il tessuto ne apparisce di quel tal colore che le fila riflettono. - Io per me già non dubito - ripigliò la Marchesa - che la cosa non sia così per appunto, come voi dite. Ma per essere di ciò più chiarita, mi farebbe mestieri comprendere qual relazione ci abbia tra l’aria o l’acqua, e l’erba, e il taffettà. Altrimenti come potrei io mai credere che quello che in uno anello o in una laminetta d’aria cagiona un certo colore, quello medesimo lo cagioni eziandio in un filo di erba o nella mia andrienne? - Oh, qui, Madama, - io risposi - gioca il gran principio dell’analogia, che è quasi la pietra angolare degli edifizi, che va innalzando qua e là la scienza della fisica, o per meglio dire la ragion dell’uomo. Se due o più cose noi le conosciamo esser simili in molte e molte loro proprietà, sicché ne sembrino come della stessa famiglia, noi dovremo inferirne, e non a torto, che simili sieno ancora in ciò che sappiamo appartenere all’una, e non è così manifesto appartenere anche all’altra. Con tale principio si governa, quasi che in ogni cosa, la umana prudenza; e arrivano per tal via i filosofi a conoscere la natura di quelle cose che da noi maneggiare, a dir così, non si possono, o per la immensa loro distanza o per la incredibile loro picciolezza. E dove con la scorta di esso non conduce egli la sua Marchesa il grazioso Fontenelle? Mostrandole, che la luna è illuminata dal sole, che ha il giorno e la notte, che ha delle valli e delle montagne, e tali altre cose, nè più nè meno, come la nostra terra; giugne a persuaderle ch’ella pure come la nostra terra ha i suoi abitanti

con le cittadi, e co’ castelli suoi.

In somma le fa vedere con questa analogia alla mano popolato tutto l’universo quanto egli è. - Fate ora voi vedere a me - disse la Marchesa - la somiglianza, che è tra i colori dell’aria e i colori delle cose, che abbiamo per le mani; e non andiamo con questa analogia più là che il nostro picciolo mondo. - Molte sono le similitudini - io ripigliai - trovate dal Neutono tra le laminette d’aria o d’acqua, che tra quelle sue lastre erano comprese, e le particelle della materia, onde composti sono i corpi; e ben pare che le une e le altre si abbiano a tenere come di una stessa famiglia. Tra le quali similitudini principalissima è quella, che così quelle laminette, come le parti minutissime di qualsivoglia corpo, sono diafane; che già non è cosa così opaca, che ridotta in sottilissime schegge non dia il passo alla luce; e le pietre più dure, e gli stessi metalli ridotti in foglie d’impenetrabili ch’erano ai lucidi dardi del giorno, come chiamò quel poeta i raggi del sole, divengono ad essi permeabili e trasparenti. E però siccome dalla varia densità o grossezza di quelle laminette dipendeva la qualità del loro colore, dalla stessa cagione pur dee procedere la varietà del colore dei corpi medesimi. Generalmente parlando converrà dire le particelle dei drappi azzurri essere meno dense o più sottili che quelle non sono dei drappi che ne mostrano il color rosso; in quella guisa che cotesta bella tinta di zaffiro, che veste ora il cielo, ed è così dolce agli occhi nostri, ne è riflessa da’ più tenui vapori, che di terra si alzano in aria; come da’ più grossi vapori ne è riflesso quel rossigno, di cui all’orizzonte si tinge il cielo al cader del giorno. - E quei bianchi nuvoli - soggiunse la Marchesa - che si veggon laggiù, converrà dire essere uno ammassamento di vapori di varie grossezze, ciascuna delle quali riflette un particolar suo colore; e bianco di qua ne apparisce il totale di essi, come appunto quella gallozzola formicolata di vari colori, vista dalla lungi bianca del tutto appariva. - In fatti - io risposi - i corpi bianchi altro non sono che tessuti di varie e differenti fila; di fila eterogenee, diciam così, le quali riflettono e ributtano da sé ogni qualità, ogni generazione di raggi. Segno è di questo, oltre alle altre prove che se ne ha, che posti al sole penano moltissimo a riscaldarsi; dove gli altri corpi, che riflettono una sola specie di raggi, gli altri li ricevono dentro a sé e ve gli spengono, si riscaldano assai più presto dei bianchi. E più di tutti sono presti a concepire il calore i corpi neri, i quali ammorzano ed inghiottiscono quasi tutti i raggi che vi dan su. E vi so dire, Madama, cha un cappellino nero, come usano portarlo le belle inglesi nel Parco di Londra, non sarebbe il vostro caso, passeggiando all’occhio di questo nostro sole d’Italia. - Considerando - ripigliò qui la Marchesa - cotesti vari tessuti dei corpi, mi sovviene ora di cosa che ho già udito dire più volte, ma a prestarvi fede non mi potei indurre giammai: voglio dire che vi sieno dei ciechi, che al tatto sappian distinguere l’un colore dall’altro. Ma adesso parmi veder chiaro che ciò sia un effetto e insiem una prova del sistema neutoniano. E in verità, perché non potremmo noi co’ polpastrelli delle dita sentire i vari colori, se meglio ponessimo mente al sentimento del tatto, come sono necessitati di fare i ciechi? Distingueremmo allora dalla grossezza delle fila, delle quali è tessuto un corpo, qual sia la tinta che ne dovesse mostrare. Non è egli così? - A non volere, Madama, - io risposi - dissimulare la verità, la faccenda di quei ciechi, posto che vera, potrebbe ancora quadrare alle immaginazioni del Cartesio, non che ai trovati del Neutono. Che certo tra le particelle dei corpi della differenza ci ha da essere, e non picciola; perché questo modifichi la luce di un modo e quello di un altro. Ben vi ha tal fenomeno, sopra cui il sistema cartesiano non può aver presa di sorte alcuna; anzi ad ogni altro sistema, dal neutoniano in fuori, è impossibile a renderne la vera ragione. Due liquori, per esempio un rosso, l’altro azzurro, amendue diafani, tanto che traguardando così per questo come per quello si vede il chiaror delle cose, cessano di esserlo, se si pongano l’uno accanto dell’altro, e si traguardi per amendue. Come è mai, che da due corpi in sé trasparenti ne risulta un terzo opaco, che non lascia passar lume di sorte alcuna; da due simili un contrario? - Ben comprendo - disse la Marchesa - quanto sarebbe riuscito malagevole, anzi impossibile a’ Cartesio lo spiegare una tale maraviglia: ch’ei non sapeva come i raggi rossi, a cui danno la via le particelle di un liquore, vengono ad essere intercetti e spenti dalle particelle dell’altro, che non dà la via che a’ raggi azzurri. Così quello disfa l’effetto di questo, o questo di quello: e, in sostanza, niun raggio può arrivare all’occhio di chi traguarda per amendue. - Ed ecco nodi dell’ottica - io ripigliai che voi e il Neutono sciogliete, Madama, senza eludere gli oracoli della natura. Ogni prova che non ha forza di dimostrazione non può stare in ischiera con le prove neutoniane: né ci starebbe né anche una per altro bellissima conformità o analogia, la quale si trova tra la produzione de’ colori e quella delle altre cose naturali; che pur sarebbe il fondamento o il perno di un altro sistema. Egli è oramai fuori di quistione che le piante, gl’insetti ed i viventi tutti non sono mica formati di nuovo, ogni volta che veggono in prima la luce; ma, secondo che vi concorrono le cause esterne, vannosi spiegando da’ propri embrioni, che dal bel principio delle cose furono creati di già. Una ghianda per esempio contiene dentro a sé, quasi in miniatura, una picciolina quercia; la quale ombrerà la terra, darà di nuove ghiande anch’essa, e queste un foltissimo querceto dipoi, soltanto che trovisi un terreno che le riceva con certi sughi e con certi gradi di calore, con quello che a tali sviluppamenti è necessario. Simile avviene degli animali, di qualunque specie e’ sieno, che o nell’ovaio o altrove sono anch’essi prima del nascere in moltitudini infinite contenuti; simile dell’uomo, che quantunque degli animali il re, non ha in ciò sopra di essi privilegio alcuno. In conclusione non sono formate le cose di mano in mano che appariscono nel mondo, come è credenza comune; ma dalla natura fu veramente fatto ogni cosa tutto a un tratto, e una volta per sempre. Il medesimo è de’ colori, che non si generano mica di nuovo ad ogni instante, come altre volte credeasi; ma a rendergli manifesti, altro non bisogna che questo o quel modo, onde si sviluppano dal seno della luce, che tutti in sé gli contiene. - Per quanta ricchezza mostri la natura, - disse la Marchesa - per quanta magnificenza dispieghi nei tanti e tanto vari suoi effetti, egli sembra nondimeno che nelle sue operazioni ella abbia avuto in mira un certo risparmio, e una certa bella economia. Dal bel principio ella ha formato con que’ suoi embrioni come altrettanti conservatoi delle cose, che hanno dipoi in sì gran copia a provvedere e fornire il mondo, e della luce ella ne ha fatto il tesoro, la miniera, l’embrione, diciam così, de’ colori, che ha prodotti una volta per sempre belli e immutabili e atti solamente a separarsi d’insieme, e a mostrarsi quando bisogna ai di fuori. Mirabile veramente si manifesta in ogni suo effetto, in ogni sua operazione la natura, quando n’è dato di conoscerla. Laddove, secondo il Cartesio, conviene che ad ogni instante ella imprima nuovi moti di rotazione a que’ suoi globetti, che a ogni refrazione, a ogni riflessione, a ogni minimo che, ella si dia il pensiero e la briga di andargli variando: talché ha sempre mille faccende in sulle braccia e si direbbe che per lei non è mai domenica né festa. Qui non potei fare a meno di non sorridere così un poco, indi ripresi a dire: - Lodato sia Iddio, Madama, che pur nel sistema del Neutono ci trovate quella semplicità, che tanto vi va a genio. Ma questa così fatta attitudine che hanno i raggi a separarsi d’insieme, per quanto sia mirabile e torni anche comoda alla natura, pur talvolta riesce incomoda per noi. - Come incomoda? - rispose la Marchesa. - Troppo mancherebbe agli oggetti della lor bellezza, se ciò non fosse. Vorreste voi vedere il medesimo colore ripetuto in ogni cosa, vorreste vedere il mondo come un chiaroscuro? - Un grandissimo inconveniente - io risposi - sarebbe senza dubbio per le dame, se elle non dovessero vestirsi che di un solo colore, e se con la varietà de’ colori venissero a perdere un così ampio soggetto di belle quistioni, di consulte, di discorsi. Ma in contraccambio verrebbono gli astronomi a guadagnarci non poco. E qual cosa non darebbe un astronomo, per potersi assicurare del tempo preciso che la luna occulta una stella, o del punto che fa un eclissi? Sono costoro una certa generazion d’uomini che se ne sta quasi sempre su per le torri, cogli occhi rivolti e puntati al cielo; e di questa nostra terra non curano, se non quanto è un pianeta, che fa suo viaggio intorno al sole, ed entra essa pure nel sistema celeste. - Ma che hanno mai tanto che fare - disse la Marchesa - i colori vari della luce colle osservazioni di cotesta strana generazion d’uomini? - Basta dire - io risposi - ch’e’ fanno non picciolo impedimento alla perfezione degli occhi loro, o sia de’ cannocchiali. Io vi dissi già, Madama, come i raggi paralleli, o che derivano da un punto, dando sopra una lente, sono da essa uniti in un punto; ma a parlar giustamente, non è un punto, dove i raggi concorrono passata la lente, ma un picciolo cerchio. Talché a ogni punto di un oggetto corrisponde nella immagine di esso, che ne forma la lente uno spazietto; e tali spazietti contigui tra loro, venendo ad entrare alquanto l’uno nell’altro, e ad intaccarsi insieme, non può a meno che tutta la immagine non riesca alquanto confusa: come farebbe una miniatura che non fosse abbastanza fina e granita a dovere. - Tanto che - disse la Marchesa - voi mi avete rappresentato coteste lenti, come i poeti ne rappresentano gli uomini; non quali sono, ma quali si vorrebbe che fossero. - Appunto: - io risposi e quello spazietto o cerchio, che si chiama aberrazione del lume, procede, come ben potete vedere, Madama, da quell’attitudine che hanno i raggi, allorché refrangono, a separarsi d’insieme. Vero è che una qualche colpa vi ha anche la figura che si suol dare d’ordinario alle lenti; ma troppo è picciola cosa al paragone. E difatti, qualunque figura diasi alla lente, il foco de’ raggi azzurri o dei verdi sarà sempremai diverso da quello dei rossi o doré, in virtù della varia refrangibilità, che non si scompagna mai da essi raggi; e però la immagine degli oggetti, che si fa dalle lenti del cannocchiale, è ben lontana da quella nettezza che sarebbe necessaria a quell’ultima precisione che vorrebbon gli astronomi. Tanto più ch’essi vagheggiano il sole, le stelle, i pianeti: oggetti che mandano in egual dose al cannocchiale ogni sorta di raggi. - Che farci? - disse qui la Marchesa. - Se la immagine degli oggetti non è nel cannocchiale così distinta, colpa la separazione dei colori; l’aspetto però del mondo, in virtù di essa, è tanto più bello. In ogni cosa ci sono dei compensi; e la condizione delle umane faccende porta che non ce ne sia niuna senza difetto. Sicché pare che anche gli astronomi, se pur vogliono essere discrete persone, dovessero finalmente prender partito di ciò che è impossibile a ottenersi. - Le loro domande però io risposi - parvero così giuste, e i loro bisogni si trovano talmente uniti con quelli degli altri uomini, che si pensò in ogni tempo a provvedervi. Avanti che si scoprissero le vere proprietà del lume, cercarono i più sottili ingegni, e tra questi fu anche il Cartesio, a perfezionare i cannocchiali, immaginando di dare nuove figure a’ vetri, perché veramente raccogliessero i raggi in un punto e formassero le pitture degli oggetti distintissime; ma perdettero l’opera e lo studio. Il Neutono, lasciati da banda simili pensieri, de’ quali avea mostrato la vanità, avvisò di fare un cannocchiale d’invenzione del tutto nuova, e che soddisfar dovesse pienamente a’ più ricercati bisogni dell’astronomia. Come la pensò, così appunto riuscì la cosa: ed io vidi in Inghilterra il primo ordigno, che fatto fosse di questa specie, lavorato dalle stesse sue mani; il quale conservavasi dagli eredi di quel grand’uomo insieme con quei prismi, co’ quali egli notomizzò da prima la luce, e vi seppe veder dentro quelle maraviglie che rendono ancora, se è possibile, la stessa luce più bella. La invenzione consiste in questo: che l’ufizio che ne’ cannocchiali ordinari fa la lente principalissima, e la più colpevole nella aberrazione del lume, lo fa nel suo uno specchio concavo di metallo; e si opera qui per riflessione quello che là operavasi per refrazione. Raccoglie anche lo specchio per la concavità sua i raggi, come fa la lente; ma nella riflessione i raggi si rialzano tutti dallo specchio con la obbliquità medesima con cui sopra vi cadono; e non succede veruna separazione di colori, che intorbidi la immagine, come nella refrazion della lente; onde col nuovo cannocchiale si veggono gli oggetti di gran lunga più distinti, che non si fa cogli antichi. Senza che, un cannocchiale neutoniano di poche once equivale ad un ordinario di altrettanti palmi, contenendo sotto mole minore maggior valore, non altrimenti che le monete d’oro verso quelle d’argento. - Ben seppe il Neutono - disse la Marchesa - trovare rimedio al male, di cui avea scoperto la origine. Ma non ci volea niente meno ad acchetar cotesti astronomi, che pare sieno una gente di non così facile contentatura. - Certamente - io risposi avrebbono il torto, se non fossero contenti del Neutono. Oltre all’avergli armati di un occhio tanto più fino, egli difese, non ha gran tempo, e in certa maniera salvò in faccia al mondo l’astronomia. Voi sapete, Madama, come l’onore di questa scienza dipende principalmente dal predire gli ecclissi, che sono avvenimenti palesi alle viste del volgo, non meno che a quelle de’ filosofi. Talete milesio fu considerato in Grecia come un dio, per aver predetto così in digrosso che in certo tempo dovea fare un eclissi del sole; cioè che la luna frapponendosi tra esso e noi, dovea scurarlo. Perfezionatasi di mano in mano l’astronomia, quello per cui già sarebbesi a un Talete innalzata un’ara, quasi che al dì d’oggi facesse disonore a un Hallejo o a un Manfredi. Si esige ora dalla specula il minuto preciso, non che il giorno e l’ora, in cui farà l’eclissi, e la quantità sua per appunto; vale a dire se la luna scurerà tutto il sole o parte, e quanta precisamente sarà la parte scurata. Ora non sono ancora molti anni passati, che tutti i computi de’ più famosi astronomi aveano predetto a certo tempo un eclissi totale del sole. Scuratasi interamente la lucerna del mondo, dovea nel mezzo del giorno farsi notte, e coprirsi ogni cosa di cupe tenebre; la quale scurità, benché predetta e aspettata, pur nondimeno è cagione, quando avviene, di non picciolo smarrimento all’uomo, animale di una specie assai strana, che in una vita brevissima nutre in cuore di così lunghe speranze; che nella sua mente dà ricetto al vero, egualmente che al falso; che può ardire al di là delle sue forze, e suol temere in onta della sua ragione. Ognuno ebbe dunque quel giorno gli occhi rivolti al cielo, e si aspettava che nel pieno dell’eclissi dovesse mancare interamente e spegnersi il sole. Ma non andò così; ché rimase tutto intorno dagli orli della luna, che lo copriva, uno anello luminoso; e piuttosto che temere, ebbero quel tratto di che maravigliarsi. E lo stesso avvenne in un altro simile eclissi non molto tempo dipoi. Molti furono i ragionamenti che si tennero dalle persone intorno a così strana novità, la quale se da principio fu cagione di maraviglia, lo fu poscia di romori e di scandalo. Vi studiarono sopra, vi si lambiccarono il cervello gli astronomi punti nel vivo. Chi mise in campo una cosa, chi un’altra, come cagione di quell’effetto, o piuttosto disordine; ma tutto indarno. E ben potete comprendere, Madama, che l’astronomia fu allora per rimetterci moltissimo del suo, come quella che non potea assegnare ragione alcuna di quegli anelli, ch’erano appariti al dispetto de’ suoi computi. - Il popolo - disse la Marchesa - perdona facilmente all’astrologo di essere tutto dì ingannato da un’arte, la quale asseconda e adula le sue passioni; ma egli è naturale che, per ogni picciolo sbaglio che paia prendere un astronomo, si faccia beffe della scienza, quasi volendosi vendicare della propria ignoranza. Io però non potrei non prendere qualche parte nel dolore, che dovettero gli astronomi in tale disavventura sentir grandissimo. Egli è pur vero che umana cosa è aver compassione degli afflitti. - Buon per noi, - io ripresi a dire - se tanto realmente vi toccassero i mali altrui. Ma datevi pace, Madama; ecco il Neutono che ha sciolto lo enimma, e in aiuto se ne viene degli afflitti. I raggi della luce nel passar ch’e’ fanno rasente l’estremità di un corpo, si piegano verso il corpo medesimo, sino ad entrare anche un poco nella sua ombra. Prova è di questo, che se un coltello bene affilato si presenti per taglio a una sottil striscia di luce nella stanza buia, si vede i raggi, che passano a una picciola distanza dal taglio, buttarsi verso la costa di esso coltello. I più vicini si piegano assai; non tanto quelli che passano un po’ più lontanetti; e così di mano in mano, sino a tanto che a una certa distanza dal taglio vanno oltre diritti, seguitando il filo della striscia. Del qual effetto, chiamato diffrazione, o sia infiessione della luce, il Grimaldi fu veramente il primo ad accorgersene; e il Neutono l’ha dipoi autenticato con nuove sperienze. Que’ raggi adunque del sole, che passano presso agli orli della luna, dovranno piegarsi verso della medesima, ed entrare anche nell’ombra ch’ella getta sopra la terra. E però noi, che durante gli eclissi ci troviamo immersi in quest’ombra, vediamo intorno intorno da essa luna un anello luminoso. E per averne dipoi una maggior riprova, si posero in faccia al sole dei globi in tali distanze che doveano ricoprirlo del tutto ed eclissarlo a chi dietro guardava; e ciò non ostante, il medesimo luminoso anello ne li cingeva, che visto intorno alla luna fu per iscreditare in questo basso mondo la scienza dei cieli. - La ragione - disse allora la Marchesa - assegnata dal Neutono di quegli anelli, mi par ben chiara e palpabile. Ma ditemi: il maggior male a cui vanno soggetti anche i filosofi non è egli la curiosità? - Mai sì: - io risposi - e sull’aver essi corta vista e molta curiosità è appunto fondata, come altri disse, tutta la loro scienza, qual ch’ella sia. - Or non ci fu egli alcun filosofo - replicò la Marchesa - il quale domandasse al Neutono la ragione perché i raggi, che non sono tocchi da un corpo, abbiano da piegarsi verso di quello nel passargli d’allato? - Oh voi, Madama, - io risposi - siete di assai più difficile contentatura che tutti gli altri; che vorreste sapere sino alla causa della diffrazione. Troppo la gran cosa è quella che domandate, e s’io la dicessi, ci saria forse pericolo di disfarmi con mezzo mondo. - A parlar meco, - ripigliò subito la Marchesa - voi pure il sapete, non correte nessun pericolo. - Tutto bene, Madama, - io seguitai - ma temo non la troppo strana cosa vi debba parere ad udirla. Ora ecco: la ragione perché i raggi si piegano verso i corpi nel passar loro dappresso è l’attrazione ch’essi corpi esercitano sopra la luce. - L’attrazione -, ripigliò tosto la Marchesa - che i corpi esercitano sopra la luce! Voi vi prendete gioco di me, o forse punir mi vorreste della soverchia mia curiosità. - Ed io allora: - Non vel diss’io, Madama, che la troppo strana cosa vi sarebbe paruta cotesta? Voi avete fermo nell’animo che nella universalità delle cose quella forza ci sia solamente, e non altra, onde i corpi, urtandosi tra di loro, si pongono vicendevolmente in moto, e le loro particelle si vanno in quello o in quell’altro modo disponendo; e con ciò credete che operi la natura qualunque effetto, che da noi si osserva, qualunque cosa si sia. Né altrimenti pare, che dobbiate pur credere - massimamente dopo quanto udiste l’altro dì della dottrina del Cartesio. Ma ora svelarvi conviene i più riposti arcani della filosofia. Convien dirvi che, oltre a quella forza, un’altra ancora ce ne è sparsa per tutto l’universo, onde i corpi hanno come sentore gli uni degli altri: benché lontani, tra loro vicendevolmente si attraggono e, rimosso che fosse ogni impedimento, correrebbono tutti ad unirsi insieme. E cotesta universale attrazione della materia, di cui è un ramo l’attrazione particolare tra i corpi e la luce, fu subodorata quasi che in ogni tempo da coloro che considerarono più addentro il sistema del mondo; ma fu discoperta veramente, posta in chiaro e ridotta a computo dal Neutono; e oramai si può riguardare come la chiave della fisica. - La Marchesa recatasi in sé, e ponendomi ben mente nel viso: - Adunque, - ripigliò - voi dite seriamente che tutti i corpi si attraggono? Ecco un mondo novello per me, dove io mi trovo tutta smarrita. - Madama, - io soggiunsi - egli accade a voi quel medesimo, che già accadde a molti filosofi di professione. Ma perché essi sdegnarono di reputarsi nuovi, come fate voi, in questa filosofia, adombratisi al solo none di attrazione, si levaron tosto ad impugnarla. Dissero che quest’attrazione è tutt’uno con quelle qualità occulte, di cui gli aristotelici informavano i corpi, e colle quali credevano render ragione degli effetti naturali; che con questa attrazione si veniva a rimettere in seggio quel filosofare enimmatico e inintelligibile, a mostrare la cui vanità convenne che tanto oprassero col senno e con la mano i più sani ingegni della passata età; e vanno formando addosso al Neutono un gravissimo processo. - E quali ne furono le difese? - disse la Marchesa. - Ben lontano - io ripigliai - che l’attrazione sia una qualità occulta, ella è una qualità manifestissima della materia, da cui dipende la spiegazione d’innumerabili effetti naturali. Né questa a niun patto vuol esser confusa con que’ nomi voti di senso, trovati ora l’uno ed or l’altro dalla volgare schiera de’ filosofi, a rendere un tal qual conto di questo fenomeno o di quello; quando realmente ella è un principio universale, a cui ubbidisce ogni cosa dal più minuto granello di sabbia sino a’ corpi vastissimi de’ pianeti, di cui si assegnano le leggi e si determina ogni suo effetto sino alle ultime differenze. Gli aristotelici facevano come i sacerdoti del gentilesimo, che secondo i bisogni vi creavano a lor talento di novelle deità, e ne avean pieno ogni cosa; dove il Neutono la fa da filosofo, e riconosce soltanto quei principi, che realmente esistono insieme col mondo. Guidato dalle più sottili osservazioni e dalle considerazioni più profonde, è forzato a riconoscer nella materia, come qualità primordiale, la virtù attrattiva. E quando egli afferma che la luce radente l’estremità de’ corpi è tirata da quelli, non intende già di darci l’intero intorno alla causa della diffrazione; ma d’indicar solamente quella proprietà generale della materia, che è pure fare un gran passo in filosofia, da cui procede la ragione immediata di tal fenomeno. Lo investigare poi la essenza di questa attrazione, e come i corpi posti in distanza operino l’uno sopra l’altro, e quasi per naturale instinto amino di farsi tra loro vicini, egli lo lascia alla penetrazione di que’ filosofi che, navigando per lo gran mar dell’essere, vorrebbono sorgere alle cagioni prime delle cose, e arrivare colà dove

molto si mira, e poco si discerne.

E, come sapete, Madama, l’intendimento suo è solamente di assicurarsi delle proprietà generali della materia, delle leggi con cui la natura governa l’universalità delle cose; siccome avete sinora veduto nella storia, che con la scorta di lui siamo andati tessendo della luce. - Intendimento ben giusto; - disse la Marchesa - ma questa diffrazione, e l’attrazione che ne è la causa, è un così fatto avvenimento storico che, a saper che ne è, converrebbe entrare nel gabinetto. Quanto è facile a capire che i raggi per esempio della luce sieno ripercossi da una superficie, contro a cui vengano a battere, altrettanto è difficile a capire come i corpi spirino non so qual loro propria virtù, per cui possano torcere i raggi della luce, che passano a qualche distanza da essi e sopra i quali non han presa. - Che ciò sembrar debba - io risposi - alquanto duro da comprendere, non potrei già io negarlo, Madama: e così pure avvisò lo stesso Neutono. Benché fosse stretto da’ più forti argomenti a credere che i corpi scambievolmente si attraggono senza intervento di materia veruna, che l’uno verso l’altro gli spinga, ciò non ostante uscì in alcun luogo a dire che l’attrazione era forse effetto della impulsione, dell’urto, come che fosse, di una materia oltre ogni credere finissima, di un vapor tenuissimo, che diffuso trovasi per avventura in tutte le parti dell’universo: segno ch’egli volle entrare, come si suoi dire, ne’ piedi altrui; e credette non dovere prender di punta la comune opinione. Per far la via alla verità, gli convenne servirsi di un qualche artifizio; adoperare come quegli scrittori, i quali nella storia vanno inserendo qua e là un qualche episodio favoloso, onde sia letta dai più, e per gradire all’universale le danno aria di romanzo. - E la Marchesa: - Non sarebbe egli questo piuttosto un artifizio vostro per piccarmi d’onore, o per farmi credere che io meglio non intendo come il moto sia ne’ corpi che come vi sia l’attrazione? - Gli uomini - io risposi - veggono i corpi muoversi tuttodì; ma di rado gli veggono attraersi; e però dell’attrazione fanno le maraviglie, e non del moto. Ma i filosofi sanno ben essi maravigliarsi delle cose, quantunque le abbiano del continuo dinanzi agli occhi. Perché noi potessimo chiaramente intendere come un corpo, scontrandosi, per via d’esempio, in un altro, debba comunicargli parte del proprio suo moto, dovremmo anche intendere come ciò sia uno effetto della natura, della essenza del corpo medesimo; talmente che così egli sia necessitato di fare, e non altrimenti. Ma qual cosa sappiamo noi mai della essenza de’ corpi? nulla, se pure il vero si vuol da noi confeessare. A noi è dato soltanto di potere francamente asserire che i corpi sono cose estese e impenetrabili. E perché? perché veggiamo la estensione e la impenetrabilità trovarsi in tutti corpi, e trovarsi sempre di uno stesso modo; laddove non è il medesimo delle altre loro qualità. Ora chi ne potrebbe mai assicurare col ragionamento che una cosa impenetrabile ed estesa, scontrandosi in un’altra impenetrabile parimenti ed estesa, debba comunicarle parte del suo moto, e non piuttosto perdere essa tutto il moto che avea, e ridursi alla quiete? Né l’una cosa né l’altra ripugna alla estensione e alla impenetrabilità, che è quanto si conosce per noi della natura dei corpi; e però così l’una come l’altra potrebbe egualmente avvenire. La osservazione soltanto e la esperienza ne ha fatti chiari di ciò che veramente avviene; né mai cogli occhi della mente l’avremmo conosciuto, se veduto non l’avessimo cogli occhi della fronte. In qual modo e per qual cagione il moto che è in un corpo trapassi in un altro, già per noi non si sa; mistero egualmente impenetrabile che il muover della mano o del piede alla volontà della nostr’anima. In una parola i filosofi sono egualmente all’oscuro del come operino i corpi l’uno sopra l’altro, quando sono contigui tra loro, che quando sono tra loro lontani; ma non sono già all’oscuro che, ancorché in distanza l’uno dall’altro, vicendevolmente si attraggano. Cotesta attrazione, uno de’ principali ingegni, una delle più gagliarde molle della natura, è abbastanza provata da moltissime sperienze fatte ne’ corpi che ne stanno d’attorno; ma si palesa singolarmente ne’ fenomeni celesti, che l’hanno narrata al Neutono, ed egli alle genti. - Veramente, - disse la Marchesa - la non più udita novità della cosa non abbisogna di una testimonianza meno autorevole. - Ma non intendo già - ripigliai io - che voi stiate, Madama, a detto d’altrui. Domani, poiché oggi

il tempo è breve, e vostra voglia è lunga,

cercherò di mostrarvi quanto sia ben fondata l’attrazione. Solo m’ incresce che io non potrò esporvi cotesta dottrina con tutto il corredo delle dimostrazioni e de’ computi che la fiancheggiano e la rendono vittoriosa delle menti. - Pazienza; - disse la Marchesa - se io non la potrò vedere in tutto quel lustro, in cui la vedrebbe un matematico, io farò come que’ dilettanti di pittura, i quali, non potendo avere il quadro di uno eccellente maestro, sono contenti ad averne la stampa; e son sicura, che voi la renderete, quanto è possibile, vicina al dipinto.

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