< Dialogo del reggimento di Firenze
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Proemio Libro secondo

DIALOGO DEL REGGIMENTO DI FIRENZE

Parlano: Bernardo del Nero, Piero Capponi, Pagolantonio Soderini e Piero Guicciardini.

[LIBRO PRIMO]

Piero Capponi1. Noi abbiamo preso grandissimo piacere dell’ essere venuti a visitare questo santissimo luogo; ma ce l’ha ancora augumentato l’avere occasione di vedere voi, la assenzia del quale dal Palagio e dal governo della cittá reputiamo fuora d’ogni dovere, che non ci pare, in una mutazione di stato si grande, come è stata questa certamente, cosa piu strana veduto avere.

Soderini. Non solo diciamo cosí noi, che sempre vi abbiamo portato amore e riverenzia come a padre; ma universalmente tutti quelli che hanno giudicio, sono del medesimo parere.

Guicciardini. Questo però conforta ognuno, che si cognosce che quello che fa al presente, fuora d’ogni ragione, la natura delle mutazioni, in brieve tempo si ricorreggerá, ed e medesimi che vi veggono ora volentieri discostato dalle faccende publiche saranno e’ primi che, cognoscendo avere bisogno della prudenzia vostra, deposte le passioni ed e’ sospetti vani, faranno di richiamarvi, e volere che la cittá si vaglia del vostro consiglio.

Bernardo. La cittá non è sì povera di uomini, che mai in tempo alcuno abbia avuto o sia per avere bisogno del consiglio mio, ed ora massime che per la vecchiezza è declinato ed è consumato non manco forse che sia el corpo; in modo che non solo non debbo pensare di ritornare alle fatiche del Palagio, ma se vi fussi drento, bisognerebbe che io pensassi di levarmene. Mi dispiace bene che di quello che io dovevo fare volontariamente giá qualche anno, ne sia stata causa la mutazione dello stato e la cacciata di Piero de’ Medici, la quale mi è doluta e per la affezione che io sempre ho portato a quella casa, e molto piú perché in tanto tempo che io ho, ho veduto per esperienzia che le mutazioni fanno piú danno alla cittá che utile, di che vi potrei molti esempli allegare.

Capponi. Come dunche siate voi di opinione che fia dannosa questa mutazione alla cittá?

Bernardo. Io vi dico che ho sempre cognosciuto per esperienzia che le alterazioni danno travaglio alla cittá, e partoriscono cattivi effetti.

Soderini. Sì forse, quando le sono di quella sorte che sono state l’altre de’ tempi vostri, le quali si debbono chiamare piú tosto mutazioni da uomo a uomo, o come meglio avete detto voi, alterazioni che mutazioni di stati; perché in quelle o si è transferita la potenzia da uno cittadino a un altro, o per le dissensioni civili si è augumentata la autoritá di chi reggeva; e di questa natura fu el caso del 33 e del 34, del 66, del 78, e li altri insino a questo ultimo, nel quale solo a’ di vostri si è fatta mutazione d’una specie di governo a un’altra. E quando questo accade, e si muti di una specie cattiva in una buona, o d’una buona in una migliore, io non so perché la mutazione non sia utile; e se mai ne fu alcuna tale credo sia stata questa, per la quale la cittá nostra, solita a essere naturalmente libera, e che per le discordie de’ maggiori era venuta in servitú, ora con la virtú di pochi, sanza sangue, sanza ruine o notabili scandoli, con lo esilio di quello cittadino solo che la teneva oppressa, è tornata alla sua naturale ed antica libertá. E credo che a voi paia el medesimo, e che, atteso la integritá e grandezza dello animo vostro, non vi piaccia manco che a noi; se bene forse per la intrinsichezza che avete avuta co’ Medici vi pare che ’l parlarne cosí sia piú modesto.

Bernardo. Io non voglio che el piacere che io so che voi avete preso di vedere me, né quello che ho preso io di vedere voi, che è stato grandissimo, si diminuisca in parte alcuna, anzi piú presto che lo accresciamo quanto si può. Però lasciato questi ragionamenti ne’ quali el disputare e discrepare di cose importantissime, se bene fussi fatto amichevolmente, non potrebbe essere che non ci recassi qualche molestia, parliamo di cose piú dilettevoli. Andiamo, se vi piace, a vedere la possessione: vi inostrerrò molte belle cultivazione che io penso di fare non piú per me, ma per chi verrá doppo me; vi mostrerrò uno disegno di una bella fabrica che si potrebbe fare, ma non da me, che in tanto tempo che mi sono travagliato dello stato, non ho guadagnato tanto che possa cavarmi commodamente queste voglie. Vedrete quanto piacere io cavo della agricultura, e come onestamente si possa dispensare el tempo e trarre frutto dello ocio; el quale debbe essere grato a ognuno quando è bene usato, ma molto piú a chi, affaticatosi lungamente in faccende onorevoli, si riposa qualche volta. Che se bene si doverrebbe fare piú presto che non ho fatto io, e per elezione non per necessitá, come pare che intervenga a me, pure è meglio qualche volta che non mai, ed in qualunche modo che in nessuno; e certo io mi ci truovo drento piú contento e piú quieto che io non fui mai negli onori e nelle grandezze.

Guicciardini. Deh, per lo amore di Dio, lasciati e’ ragionamenti dello ozio, nel quale siamo tutti certissimi che non manco vale la vostra prudenzia che nelle faccende, seguitiamo el parlare di prima, el quale, io non dirò tra amici, ma piú tosto tra padre e figlioli come ci reputiamo esservi noi, non solo non sará molesto, ma bisogna sia piacevolissimo. Io per me non so che maggiore diletto mi potessi avere, che udire parlare delle cose publiche e civili uno uomo di grande etá e di singolare prudenzia, che non ha imparato queste cose in su’ libri da’ filosofi, ma con la esperienzia e con le azioni, che è el modo vero dello imparare. Io ho sempre desiderato una occasione tale, né credo siano di altro animo Piero Capponi e Pagolantonio, e’ quali, ancora che sappino piú di me, sono certo che pensano potere imparare assai da voi.

Capponi. Tu mi hai cavato di bocca, Piero, quello che io volevo dire; perché non potrebbe accadere cosa che io desideri piú, né so di che materia si possi parlare, che non solo ne’ tempi della qualitá che ora corrono e che si apparecchiano, ma sempre sia per essere piú utile e piú degna di animi nobili. E chi potremo noi avere migliore maestro che Bernardo, el quale, e per el giudicio suo naturale che è perfettissimo e per la esperienzia grandissima che gli ha dato la etá e lo avere maneggiato sempre queste faccende, credo ne sappia, per parlare modestamente, quanto filosofo che fussi mai. Però ardirò pregarvi in nome di tutti, perché se bene Pagolantonio tace, gli veggo scritto in fronte la sua voglia, che se mai desiderasti compiacerci e farci migliori con gli ammaestramenti vostri, come spesso avete desiderato e fatto, lo facciate oggi in questo di che vi ha richiesto Piero Guicciardini. E se qualche volta vi contradireno, non sará per disputare con voi, quale abbiamo in luogo di maestro e di padre, ma per darvi causa di dichiarare meglio tutto quello che sará in proposito. Adunche lasciata a un altro tempo la agricultura, gli orti e le fabriche, vi preghiamo di nuovo che ci diciate per che conto non vi paia utile questa mutazione che si è fatta, e quale sia circa el governo della nostra cittá la vostra opinione.

Soderini. Deh, Bernardo, in cosa si grave non mancate a’ vostri figlioli, a’ quali in minore importanzie avete sempre cercato di satisfare.

Bernardo. Io sono contento avere con voi questo ragionamento, non meno per imparare che per insegnarvi, perché quello poco che io intendo di queste cose, lo so solo per esperienzia, della quale nessuno di voi manca, avendo giá piú e piú anni sono, atteso alle cose dello stato; ed oltre a questo ed el naturale buono, avete davantaggio le lettere con le quali avete potuto imparare da’ morti gli accidenti di molte etá; dove io non ho potuto conversare se non co’ vivi, né vedere altre cose che de’ miei tempi. Vi dico dunche che, come voi sapete, io ho avuto lunghissima amicizia co’ Medici, ed ho infinite obligazioni a quella casa, per mezzo della quale, non essendo io di stirpe nobile, né cinto di parenti come siate tutti a tre voi, sono stato beneficato ed esaltato e fatto pari a tutti quegli che ordinariamente mi sarebbono andati innanzi negli onori della cittá. Però non direi che la ruina di Piero non mi sia dispiacciuta, perché direi el falso; e se lo dicessi, mi parrebbe potere essere notato di troppa ingratitudine. Ma sappiate che molto piú dispiacere ho avuto de’ modi che sono stati causa di questa ruina, la quale io prevedendo e giudicandola perniziosa non solo a Jui ed agli amici ma ancora alla cittá, se io non mi inganno, cercai di rimediarvi col consigliarlo, col riprenderlo, coll’adirarmi; pure ha potuto piú la disposizione de’ cieli e quello che era destinato che avessi a essere, che e’ consigli miei e di alcuni altri che lo consigliorono sempre bene. Ho adunche amato ed amo quella casa, e nondimanco, Dio mi sia testimonio, se io credessi che questa mutazione fussi in parte alcuna utile alla cittá, io la arei cara quanto alcuno altro; perché fui prima fiorentino ed obligato alla patria, che amico o obligato a’ Medici, e cognosco che quando Firenze stará male, non possono e’ Medici ed ogni altro che reggerá, stare altro che male. Ma può bene essere Firenze grande sanza e’ Medici; e che questo sia lo animo mio, non ne voglio dare altro testimonio, perché parlo con pèrsone che credo che oramai mi cognoschino. Ma per non fare lungo el parlare nostro piú che si bisogni, non voglio in principio convincervi con altre arme che con le vostre medesime. Non dicono e’ vostri filosofi, se messer Marsilio Ficino, con chi qualche volta ne ho parlato, mi ha riferito el vero, che essendo tre le spezie de’ governi, di uno, di pochi e di molti, el migliore di tutti è quello di uno, el mediocre quello di pochi, el manco buono quello di molti? Però non so come voi vi scuserete co’ vostri libri, poi che partendovi dal governo piú lodato da loro, eleggete e’ manco lodati.

Capponi. Tocca a rispondere a quest’altri che hanno lettere, che io non ho quasi nessuna, da uno poco di astrologia di Gino in fuora, che non serve a questo proposito; però lascerò difendersi a loro da filosofi, e mi risentirò quando si ragionerá in modo che anche chi ha poca grammatica possa parlare.

Soderini. Questa risposta appartiene a Piero Guicciardini che è de’ discepoli di messer Marsilio, ed onorato da lui ne’ libri suoi, per quello ingegno melancolico, temperato, felice; però egli risponda, ed è bene conveniente che essendo stato el primo a pregare Bernardo che parli, sia ancora el primo a rispondere.

Guicciardini. Voi non mi date questo luogo per farmi onore, ma perché la obiezione vi pare facile, e cognoscendo essere stata messa da Bernardo piú per tentare che per farvi fondamento. Osservate el costume de’ buoni capitani che nel principio de’ fatti d’arme mandano innanzi e’ cavalli leggieri per spignere, di poi quando le cose stringono, gli uomini d’arme e di mano in mano el nervo dello esercito. Però pur che io resti auditore nelle difficultá, vi dirò volentieri quello che ho imparato da messer Marsilio, e quello che ognuno di voi sa molto meglio che non so io.

È vera cosa che di questi tre reggimenti, quando sono buoni, el migliore è quello di uno, ma difficilmente può essere buono se è fatto piú per forza o per fazione o per qualche usurpazione, che per elezione o volontá libera de’ sudditi; e di questa sorte non si può negare che non fussi quello de’ Medici, come quasi sono tutti oggidí e’ domini di uno, che el piú delle volte non sono secondo la volontá o el naturale de’ sudditi, ma secondo lo appetito di chi prevale; e però siamo fuora del caso de’ filosofi, che mai approvorono reggimento di spezie simigliarne. Potrei ancora dire, secondo e’ medesimi filosofi, che el

governo di uno, quando è buono, è el migliore di tutti, ma quando è cattivo è el peggiore. Credo ancora che piú spesso si abbatta a essere cattivo el governo di uno che quello di molti perché ha piú licenzia e manco ostaculi. Però vorrei che e’ filosofi mi avessino dichiarato questo passo: se considerato da uno canto quanto sia migliore el governo di uno che di molti, presuponendogli tutt’a dua buoni, da altro canto quanto è peggiore, presuponendogli tutt’a dua cattivi, ed inoltre quanto piu spesso si abbatte a essere cattivo quello di uno; quale importa piú, o el vantaggio che ha el governo di uno quando è buono, per essere migliore degli altri, o el disavantaggio che ha quando è cattivo per essere el peggiore, e perché è piú spesso cattivo; e quale fussi migliore sorte di una cittá che nascessi ora e che si avessi a ordinare el governo suo, o che fussi ordinata in uno governo di uno, o in governo di molti.

Bernardo. È bella dubitazione, ma per ora non necessaria, perché basta la prima risposta.

Guicciardini. Ed a me basta dunche avere satisfatto, né piú torrò assunto di rispondere, perché lascerò la cura a Piero e a Pagolantonio, e’ quali sono obligati difendere con le parole quello che hanno fatto con le opere.

Capponi. Non ci darai mai a credere che tu desideri stare neutrale ed in modo da potere durare a ogni stato, ma ti ricordo che essendo tu figliuolo di Iacopo Guicciardini e nipote di Piero di messer Luigi, e sempre stato onorato da Lorenzo e da Piero, né mai stato loro contrario, assai si può comprendere che inclinazione sia la tua, come anche interverrebbe a Pagolantonio ed a me, a lui per messer Tommaso suo padre, ed a me per Neri di Gino mio avolo, se non ci fussimo governati in modo che le opere nostre avessino scancellato la memoria delle loro.

Guicciardini. Né anche per questo non cercherò di tórvi el luogo vostro, ma lasciati e’ motteggi, seguitate per Dio el ragionamento principale.

Bernardo. Piero dice bene, e la risposta sua ha tolto molto bene lo obietto mio, el quale io feci non per tentare, ma per aprire con questo principio la via al mio ragionamento. Dico adunche che, posposta ogni autoritá de’ filosofi, parlando naturalmente, è ancora agli uomini vulgari capace che el governo di uno buono sia migliore che altro governo, perchè è piú unito e manco impedito a fare el bene. E quella distinzione che ha fatta Piero, tra el governo di uno quando è naturale e per elezione e voluntá de’ sudditi, ed uno governo usurpato e che ha del violento, ha anche in sé ragione capace agli idioti, perché chi domina amorevolmente e con contentezza de’ sudditi, se non lo muove la ignoranzia o la mala natura sua, non ha causa alcuna che lo sforzi a fare altro che bene. E questo non interviene a chi tiene lo stato con violenzia, perché per conservarlo e per assicurarsi da’ sospetti, gli bisogna molte volte fare delle cose che egli medesimo non vorrebbe e che gli dispiacciono, come io so che spesso fece Cosimo; e sono testimonio che Lorenzo qualche volte lagrimando ed a dispetto suo fece deliberazioni che non potevano essere piú contrarie alla natura sua, ed alla generositá e grandezza del suo animo. Questa diversitá adunche tra l’uno governo e l’altro non procede perché la spezie del governo in sé faccia buono o cattivo quello che fussi d’altra condizione, ma perché secondo la diversitá de’ governi, bisogna tenerli con mezzi diversi. Voglio in effetto dire che se fussi possibile dare uno governo usurpato che si tenessi con quelli modi piacevoli e buoni che si può tenere uno governo amorevole, che questa sola ragione di essere usurpato non lo farebbe peggiore che quell’altro; perché io credo che a cognoscere quale spezie di governo sia piú buona o manco buona, non si consideri in sustanzia altro che gli effetti, e che uno governo violento soglia essere giudicato cattivo, perché ordinariamente suole producere effetti cattivi. Che dite voi a questo?

Capponi. Io credo che voi pognate uno caso impossibile, che e’ sia tanto buona una cosa cattiva quanto una buona.

Bernardo. Io non lo pongo perché cosí sia, né per disputare ora se può essere, ma per procedere piú apertamente ed avere occasione di considerare meglio la natura delle cose, e la origine e radice loro; però quando pure fussi cosi, che diresti voi? Ma diciamo piú chiaro ed in modo che io possa essere inteso meglio; se quegli medesimi mali o per ignoranzia o per malizia facessi uno principe naturale, che fa uno che ha lo stato violento, non diremo, credo io, che fussi peggiore governo el violento che quell’altro, ma considerato gli effetti di tutti dua essere in uno medesimo modo maligni e perniziosi, tanto biasimeremo l’uno quanto l’altro. Non è questo vero e senza disputa?

Capponi. È verissimo; anzi oltre al dire l’uno e l’altro governo essere equalmente cattivo, diremo essere peggiore uomo colui che avendo lo stato voluntario, facessi male per sua natura senza necessitá, che l’altro che per natura dello stato suo, facessi di quelle cose che, se non fussi necessitato, forse non farebbe.

Bernardo. Tu di’ bene; e per conchiudere quello che ho voluto dire, per non dare la sentenzia solo con la distinzione di Piero Guicciardini, dico che a volere fare giudicio tra governo e governo, non debbiamo considerare tanto di che spezie siano, quanto gli effetti loro, e dire quello essere migliore governo o manco cattivo, che fa migliori e manco cattivi effetti. Verbigrazia, se uno che ha lo stato violento governassi meglio e con piú utilitá de’ sudditi, che non facessi un altro che lo avessi naturale e voluntario, non diremo noi che quella cittá stessi meglio e fussi meglio governata? Però ogni volta che sanza venire a particulari, si ragiona quale governo è migliore, o uno violento o uno volontario, risponderei subito essere migliore el volontario, perché cosí ci promette la sua natura e cosí abbiamo in dubio a presummere, avendo l’uno quasi sempre seco necessitá di fare qualche volta male, l’altro non avendo mai cagione di fare altro che bene. Ma quando si viene a’ particulari ed a’ governi che sono in essere, e si dimanda quale è migliore governo, o quello che è nella tale cittá o quello che è nella tale o quello che fu in Firenze a tempo de’ Medici o quello che ci era prima, allora per potere rispondere risolutamente, io non guarderei tanto di che spezie siano questi governi, quanto io arei rispetto a porre mente dove si fa migliori effetti e dove meglio siano governati gli uomini, dove piú si osservino le leggi, dove si faccia migliore giustizia e dove si abbia piú rispetto al bene di tutti, distinguendo a ciascheduno secondo el grado suo. Di questo non so io quello che dichino e’ vostri filosofi, ma parlando naturalmente io la intendo cosí e mi pare cosa assai chiara.

Soderini. El medesimo diciamo noi; e se e’filosofi ne fussino domandati, non credo dicessino altrimenti.

Capponi. E cosí è la veritá.

Bernardo. Procediamo adunche piú innanzi. Noi vogliamo disputare se la mutazione dello stato è stata utile alla cittá o no; e secondo questo fondamento che io ho fatto, a volere bene risolversene, bisogna considerare gli effetti di quello governo che è mutato e le condizioni sue, e da altro canto considerare quali saranno gli effetti e le condizioni di questo che voi avete introdotto, o forse per dire meglio, pensate di introdurre; perché vedendo che el cammino al quale pare che ora si indirizzi, è diverso da quello che mostrava el principio del vostro parlamento, io non so come averlo a battezzare. Però ditemi che governo sará questo, acciò che, considerata la natura sua e la natura della cittá e di questo popolo, possiamo immaginarci che effetti producerá; e cosí postigli da uno canto, e da altro gli effetti di quell’altro che sappiamo tutti di che sorte erano, possiamo fare el nostro giudicio.

Guicciardini. Sará difficile, perché non sará altro che avere a fare giudicio tra una cosa certa ed una incerta, in che si potranno facilmente pigliare molte fallacie.

Bernardo. È vero che el giudicio non potrá farsi così risoluto totalmente, come se tutt’a dua queste cose fussino equalmente in essere; ma penso che e’ non si discosterá anche dal segno quanto forse tu credi, perché la lunga etá che io ho, e lo avere molte volte veduto travagliare questa cittá nelle cose di drento, e quello che spesso ho udito ragionare de’ tempi passati da uomini antichi e savi, massime da Cosimo, da Neri di Gino e dalli altri vecchi, dello stato, mi hanno dato oramai tanta notizia della natura di questo popolo e de’ cittadini ed universalmente di tutta la cittá, che io credo potermi immaginare assai di presso che. effetti pqtrá portare seco ciascuno modo di vivere. Né voglio mi sia imputato a arroganzia, se essendo io vecchissimo, ed avendo sempre atteso alle cose di drento e quasi non? ffial a quelle di fuora, fo qualche professione d’intenderle; la quale è di questa sorte, che io credo che facilmente molti particulari potrebbono variare dalla opinione mia, ma negli universali ed in tutte le cose di sustanzia spero ingannarmi poco. E dove mi ingannassi io, potrete facilmente supplire voi, perché avendo voi letto moltissime istorie di varie nazioni antiche e moderne, sono certo le avete anche considerate e fatto vene uno abito, che con esso non vi sará difficile el fare giudizio del futuro; perché el mondo è condizionato in modo che tutto quello che è al presente è stato sotto diversi nomi in diversi tempi e diversi luoghi altre volte. E cosí tutto quello che è stato per el passato, parte è al presente, parte sará in altri tempi ed ogni di ritorna in essere, ma sotto varie coperte e vari colori, in modo che chi non ha l’occhio molto buono, lo piglia per nuovo e non lo ricognosce; ma chi ha la vista acuta e che sa applicare e distinguere caso da caso, e considerare quali siano le diversitá sustanziali e quali quelle che importano manco, facilmente lo ricognosce, e co’ calculi e misura delle cose passate sa calculare e misurare assai del futuro. In modo che senza dubio procedendo noi tutti insieme cosi, errereno poco in questi discorsi e potreno pronosticare molto di quello che abbia a succedere in questo nuovo modo di vivere. Però ditemi, io ve ne dimando di nuovo, come s’ha egli a battezzare?

Soderini. Innanzi che e’ vi si risponda a questo, vi dirò che io dubito che e’ non si pigli una equivocazione, perché quello fondamento che voi avete fatto di volere considerare dagli effetti quale governo sia migliore, non so se stará fermo nel caso nostro; dove da uno canto viene in considerazione lo stato de’ Medici, che era governo di uno solo ed usurpato, da altro canto uno vivere libero, quale se negli altri luoghi è buono, è ottimo nella nostra cittá dove è naturale e secondo lo appetito universale; perché in Firenze non è manco scolpita ne’ cuori degli uomini la libertá, che sia scritta nelle nostre mura e bandiere. E però credo che e’ politici, ancora che ordinariamente ponghino tre gradi di governi, di uno, di pochi e di molti, non neghino però che el migliore che possi avere una cittá sia quello che è el suo naturale. Però io non so come in termini tanto sproporzionati si potrá procedere colla regola vostra, e come potreno mai dire che el governo della libertá, che a Firenze come ognuno sa è naturalissimo, non sia migliore che qualunche altro che ci si pòssa introdurre.

Bernardo. Io non veggo, Pagolantonio, che per questo abbia a variare el fondamento nostro, perché parlando in genere, tu mi confesserai che uno governo di libertá non è di necessitá migliore che gli altri. E’ vostri filosofi, o come tu dicesti ora, politici, ne sono abondanti testimoni, che ordinariamente appruovano piú la autoritá di uno quando è buono, che la libertá di una cittá; e ragionevolmente, perché chi introdusse le libertá non ebbe per suo fine che ognuno si intromettessi nel governare, ma lo intento suo fu perché si conservassino le leggi ed el bene commune, el quale, quando uno governa bene, si conserva meglio sotto lui che in altro governo. E quella ragione in che tu hai fatto fondamento grande, di essere la libertá naturale in Firenze, non contradice alle cose dette prima, perché el filosofo ed ognuno che abbia giudicio, dimandato in genere, risponderá che el migliore governo che si possa mettere in una cittá sia el suo naturale; perché confaccendosi meglio a’ cervelli ed appetiti di quegli uomini, si ha a sperare che cessando tutti gli impedimenti e difficultá che sogliano recare seco le cose che hanno del violento, fiorirá meglio e fará piú frutti che qualunche altro modo; come se tu volessi cultivare uno tuo giardino, saresti sempre consigliato di farvi porre di quelle piante che sono piú amate dal terreno, perché ordinariamente fanno meglio. Ma se venendo agli individui, si vedessi che uno vivere libero, ancora che naturale di una cittá, per qualche cagione particulare non facessi buoni effetti, allora né e’ filosofi vostri né alcuno che fussi savio, lo proporrebbono a un altro vivere, anzi loderebbono piú ogni altro governo che portassi seco maggiori beni. E però ci bisogna ritornare a quel mio primo fondamento, che se io non mi inganno è si chiaro che mi pare superfluo el perderci drento piú tempo. Dunche ditemi, questa è la terza volta che io ve ne dimando, che governo sará questo vostro?

Capponi. La intenzione nostra fu cavare la cittá dalla potenzia di uno e riducerla in libertá, come si è fatto. Vero è che desideravamo non mettere el governo assolutamente nel popolo, ma in mano di cittadini principali e di più qualitá, in modo che fussi piú tosto uno stato di uomini da bene che tutto populare; né però ristrignerlo tanto in pochi che e’ non fussi governo libero, ma non allargare tanto la briglia che e’ venissi in mano della multitudine e non si facessi distinzione da uomo a uomo; ed a questo cammino andò la elezione de’ venti con l’ordine di fare lo squittino, e gli altri modi introdotti per el parlamento. È di poi saltato su questo frate, ed ha tanto gridato el governo populare ed uno consiglio grande alla viniziana, che per essere cosa da se stessa secondo el gusto de’ piú ed avere egli el credito che ha, ha fatto variare in modo gli ordini del nostro parlamento, che non ci è restato altro che la autoritá che abbiamo noi accopiatori, di fare per tutto questo anno la signoria, che anche dispiace tanto a questo universale, che Dio sa se ci bisognerá lasciarla prima. In effetto le cose vanno a molto piú larghezza che non fu el. primo disegno; nondimeno la cittá sará libera, che fu la principale nostra intenzione, e benché el governo sia tutto populare, sará pure necessario che gli uomini da bene e che vagliono, sieno ricognosciuti piú che gli altri; ed anche di mano in mano co’ modi buoni e con le occasioni si potrá andare limando le cose e riducerle vel circa a quelli effetti che noi avevamo disegnato, ché, come dice el nostro proverbio, le some si acconciano tra via.

Bernardo. Io credo che voi abbiale uno obligo grande a questo frate, che per avere levato a buona ora el romore, è sfato causa che e’ non si sia fatto esperienzia di quello die arebbe partorito questa vostra forma di governo; perché io non dubito che arebbe introdotto discordie civili di qualitá che si sarebbe venuto presto a qualche mutazione disordinata e tumultuosa. E sarebbe per aventura prudenzia finire di fare quello che vi resta, ora che parrebbe che voi lo facessi volontariamente e ne potresti avere qualche grado, piú presto che aspettare di farlo forzatamente; perché queste sono dua cose contrarie, che a Firenze sia uno consiglio grande, e da altro canto vi siano venti cittadini che abbino autoritá di fare la signoria; ed essendo necessario che l’una di queste cose dia luogo a l’altra, credo sia poca fatica a cognoscere che el numero grande sará quello che inghiottirá el piccolo. E per parlare in questa materia liberamente, se e’ si potessi fermare in Firenze uno stato nel quale la cittá fussi veramente libera, e che gli uomini da bene, cioè e’ piú savi ed e’ migliori, vi avessino qualche grado e qualche condizione piú che gli altri, e che le cose importanti non avessino a venire in deliberazione ed arbitrio di chi non sa, io lo chiamerei governo ottimo, e credo che questo era el disegno vostro, e la elezione de’ venti e gli altri ordini del vostro parlamento, aveva qualche parte da fare questo effetto, benché in molte cose la intenzione vostra piú che la invenzione meritava di essere lodata. Ma io sono di ferma opinione, e cosí sempre mostrerrá la esperienzia, che a Firenze sia necessario o che el governo sia in mano di uno solo, o che venga totalmente in mano del popolo; ed ogni modo di mezzo sará pieno di confusione e ogni di tumultuerá. Questo me lo ha insegnato la esperienzia de’ tempi passati, ne’ quali tutti, quando lo stato è venuto in mano di pochi cittadini, la cittá sempre è stata piena di discordie: ogni di si è fatto mutazione e parlamenti; pochissimi sono stati grandi in quelli modi di governi che non siano stati decapitati o mandati in esilio; e finalmente in breve spazio di tempo lo stato uscito di mano di quelli pochi, o si è ristretto in uno solo o è ritornato alla larghezza. Li esempli sono si spessi e si noti che io non voglio perdere tempo in raccontargli, ma non sono meno note le cagioni. A Firenze li uomini amano naturalmente la equalitá e però si accordano mal volentieri a avere e ricognoscere altri per superiore; ed inoltre e’ cervelli nostri hanno per sua proprietá lo essere appetitosi ed inquieti, e questa seconda ragione fa che quelli pochi che hanno la stato in mano sono discordi e disuniti, e per appetito di prevalere l’uno a l’altro tirano chi in qua chi in lá, in modo che per difetto loro viene a indebolirsi tanto piú la sua potenzia. Ed el non amare gli altri la superioritá di alcuno, fa che a ogni occasione che venga, vanno in terra; perché dispiacendo^ naturalmente a Firenze a ognuno che non è nel cerchio la grandezza d’altri, è impossibile che la duri se la non ha uno fondamento ed una spalla che la sostenga. E come vi può essere questa spalla e questo fondamento, se coloro che reggono non sono d’acordo? Però di nuovo vi conchiuggo, e credo non ingannarmi, che se bene quello modo del parlamento fussi introdotto da voi a buono fine, nondimanco non era durabile, perché tra voi non vi saresti mantenuti d’acordo, e di necessitá innanzi a non molto spazio di tempo si sarebbe mutato con alterazione e con danno di qualcuno di voi, e mutato in uno de’ dua modi: o venuto a una larghezza populare piú licenziosa che per ora non sará quella che ha introdotto questo frate, perché sarebbe nata con impeto e con tumulto, o aperta la via alla ritornata di Piero con disordine e con violenzia, perché tra voi ed in questa cittá non è uomo che abbia tante condizioni e tante barbe, e di questo non vi ingannate che saresti pazzi, che pòssi disegnare di tirarsi adosso tanta autoritá che abbia a essere unico e superiore agli altri. Non nego che per qualche disordine non potesse accadere che qualcuno si facessi grande; ma oltre a essere difficile, sarebbe cosa di poco fondamento e da non potere durare e fermare lo stato. Bisogna che a fare questo effetto concorrino in uno medesimo, il che è cosa rarissima, prudenzia, tesoro e riputazione; e quando bene tante qualitá concorressino tutte in uno, è necessario siano aiutate da lunghezza di tempo e da infinite occasioni, in modo che è quasi impossibile che tante cose e tante opportunitá si accumulino tutte in uno medesimo; e però poi in fine non è mai stato in Firenze piú che uno Cosimo. Dunche el frate è causa che ora si sia fatto quello che senza lui si sarebbe presto fatto, e si è fatto con migliore modo e con manco disordine. E però abbiamo a ragionare dello stato populare; e per tornare al nostro principale intento ci bisogna considerare da uno canto quello che era o faceva di bene e male el governo de’ Medici, da altro, che effetto fará a Firenze uno governo di popolo, poi che el frate ci toglie questa fatica di parlare del governo di pochi, o come voi altri solete dire, degli ottimati. Ma prima che noi entriamo piú innanzi, arei caro di intendere da voi quello che vi occorra intorno a questo.

Capponi. Fu pure, a tempo di messer Maso degli Albizzi, di Gino mio bisavolo, di Niccolò da Uzzano e di quegli altri, uno stato in mano de’ cittadini principali e di piú qualitá, né però stretto in modo che la cittá non fussi libera; durò unito molti anni, e si governorono drento e fuora con grandissima riputazione, perché tennono la cittá sanza mutazione, e non solo si difesono da inimici potentissimi che cercorono in quel tempo di opprimerci, ma ancora acquistorono Pisa e molti altri luoghi, ed augumentorono assai el dominio e la riputazione della cittá, in modo che, secondo la opinione di ognuno che ha parlato o scritto di queste cose, non fu mai stato in Firenze che l’abbia meglio governata e piú onorata di quello. E però non avevamo a disperarci che ciò che fu allora potessi tornare un’altra volta, massime che eravamo per accostarci, e giá avavamo comminciato, a quella forma di vivere el piú che avessimo potuto. Né era alcuno tra noi che si ingannassi tanto, che pretendessi alla superioritá; e la paura che noi aremo avuto di non venire a uno di quegli dua estremi, o di una larghezza populare o della ritornata di Piero inimico a tutti noi, ci arebbe di necessitá tenuti uniti e stretti insieme.

Bernardo. Io sono uno di quegli che in queste cose non allegherei mai la esperienzia, se io non la vedessi accompagnata dalla ragione, la quale in questo caso mi pare manifesta secondo quello che io ho detto; perché, se bene alcuno di voi non pretendessi per ancora a quello primo luogo, nondimeno ve ne sarebbe stati piú di quattro che arebbono sempre pensato di andare ampliando ogni di la sua autoritá. E per questo e per molti altri accidenti nascono infinite emulazioni ed ambizioni che generano disunione, la quale rare volte si raffrena per quelle paure che tu hai detto, perché gli uomini per odi, per sdegni, per cupiditá accecano; quegli che governano non sono tutti savi, anzi tanto pochi sono e’ savi che è maraviglia non saresti stati tutti tanto inimici di Piero che forse alcuno di voi, o perché fussi cosí la veritá, o per giudicio corrotto da sdegni e da ambizione, o per nuove pratiche, non si fussi persuaso non solo salvarsi ritornando lui, ma ancora farne meglio. Però non sarebbono stati bastanti questi vinculi a tenervi legati, e sarebbe intervenuto a voi quello che quasi sempre intervenne a tutti gli altri che sono stati in grado simile. Né voglio che vi inganni lo esemplo di quello stato che fu a tempo di messer Maso e delli altri; perché quando viene in considerazione una cosa che pare fuora del ragionevole, chi vi penserá bene vi cognoscerá drento qualche cagione particolare che produce quello effetto, che a chi non considerava piú oltre pareva effetto diverso dalla ragione; e cosí io ho udito molte volte da’ piú vecchi, che due condizioni che estraordinariamente vi concorsono, furono cagione di tenerlo piú unito che non erano soliti a essere e’ governi che erano stati innanzi. La prima, che la cittá nostra non ebbe mai si grande e si spesse mutazioni, nè mai in alcuna novitá furono tanto battuti gli uomini da bene, quanto era stato gli anni precedenti, massime per el caso de’ Ciompi e poi per la grandezza di messer Giorgio Scali col braccio della plebe e con la depressione di quasi tutti e’ migliori; in modo che come gli uomini di piú Qualitá, che erono pieni di stracchezza e di desperazione, ebbono punto facilitá di respirare, non fu maraviglia che la memoria si fresca di tanti mali gli facessi per qualche tempo stare piú uniti che non sarebbono stati. La seconda, che alla cittá non furono mai fatte piú pericolose guerre né piú lunghe né da piú potenti inimici; perché avemo la guerra gravissima col conte di Virtú, che durò dodici anni, e poi col re Ladislao, che furono di tanto peso e di tanto pericolo, che molto piú furono forzati, lasciato da canto le gare, attendere con ogni studio alla conservazione della cittá.

E nondimeno, leggete e considerate bene le vostre croniche, quello non fu governo libero, perché ogni cosa fu in mano di pochi cittadini, ed el popolo non vi ebbe, si può dire, parte alcuna; né fu anche pacifico, perché vi furono spesso novitá e travagli; né a pena ebbono finito di assicurarlo e stabilirlo che vennono tra loro in nuove divisioni, e sursono quelle parte donde poi nacque el 33 ed el 34. Però vi dico che, considerato bene tutto questo discorso, quello governo non fu tale, né durò tanto che voi dovessi contentarvi, se bene ne avessi introdotto uno simile; perché chi si fa autore di fondare stati nuovi, e massime sotto el nome della libertá, debbe proporsi per fine di fare migliore governo e piú lungo, non essendo ragionevole procedere nelle cose publiche con la misura solo di quegli pochi anni che egli ha a vivere; ma debbe andare con la misura della vita della cittá e della posteritá, la quale abbiamo a sperare, o almanco a desiderare, che sia perpetua. Di poi, se pure vi paressi assai in una cittá fluttuosa ed inquieta come la nostra, fondare uno stato di quella sorte, vi dico che non avevi a sperare che vi potessi riuscire, perché mancavano in voi quelle ragioni che lo causorono. E se voi mi dicessi: gli era pure possibile, e noi potremo pure avere avuta questa felicitá che fussi tornato a’ tempi nostri, io ve lo confesso; ma se e’ si ha a arguire dalla ragione, si doveva credere a venti per uno el contrario; se dalla esperienzia, el medesimo. Però io non so che prudenzia sia fondarsi in sulla speranza che una cosa abbia a succedere in uno modo, quando è solita quasi sempre a succedere al contrario. Ma lasciamo questo da parte, poi che Io stato che si è fatto è populare e che quello di pochi non ha ora a venire in considerazione.

Soderini. Cosí è bene; parliamo di questi dua che sono in fatto: di quello de’ Medici e del populare.

Bernardo. Noi dureremo poca fatica a capitolare di che natura fussi lo stato de’ Medici, perché non si può negare che non sia vero quello che disse Piero Guicciardini, che fussi uno stato usurpato per mezzo di fazione e con la forza; anzi bisogna confessare quello che per costumatezza non volle forse esprimere lui, che era uno stato tirannico, ed ancora che la cittá ritenessi el nome, le dimostrazioni e la immagine di essere libera, nondimeno loro dominavono ed erano padroni, perché si davano e’ magistrati a chi loro volevano, e chi gli aveva, gli ubidiva a’ cenni. È vero, e questo so che voi non negherete, che la tirannide loro è stata, secondo le altre, molto mansueta; perché non sono stati crudeli o sanguinosi, non rapaci, non violatori di donne o dello onore di altri; sono stati desiderosi e caldi a augumentare la potenzia della cittá ed hanno fatti molti beni e pochi mali, eccetto quegli a che gli ha indotti la necessitá; hanno voluto essere padroni del governo, ma con quanta piú civilitá è stato possibile e con umanitá e modestia. Il che credo che abbino fatto principalmente per natura loro, perché non si può negare che non siano stati di buono sangue e di animo molto generoso; ed anche essendo Cosimo e Lorenzo stati prudenti, ed avendo avuto sempre intorno a sé uno numero di cittadini savi e di buono consiglio, hanno cognosciuto che atteso la natura dello stato suo e la condizione della cittá, non potevano quasi governarsi altrimente, e che ogni modo che avessino tenuto di riducere le cose al sangue ed a piú violenzia, come vediamo che si fa a Perugia ed a Bologna, arebbe a Firenze distrutto piú che accresciuto la loro grandezza. Ho voluto dire questo in genere; ora aspetterò udire da voi piú in particulare in che voi riprendiate le cose de’ Medici.

Capponi. Io durerò piú fatica a raccontare e’ mali di quello stato, che non avete durato voi a dire e’ beni; non perché e’ mali siano manco noti, ma perché sono tanti piú che e’ beni, che la memoria non mi servirá a ricordarmi di tutti; pure dove mancherò io, Pagolantonio supplirá.

Io credo che nel governo di una cittá simile alla nostra si abbino a considerare principalmente tre cose: come si amministri equalmente la giustizia, come convenientemente si distribuischino gli onori ed utili publici, come bene si governino le cose di fuora, cioè quelle che appartengono alla conservazione ed augumento del dominio.

Quanto alla giustizia, io non voglio giá dare carico a’ Medici di essere stati molto appetitosi nella civile, perché in veritá, dove non è stato qualche interesse che gli abbia stretti assai, sono proceduti con rispetto; pure non si può negare che qualche volta non l’abbino maculata con raccommandare gli amici a’ magistrati o a’ giudici, e quello che loro non hanno fatto, hanno spesso fatto senza saputa sua e’ suoi ministri o chi era grande con loro, le raccomandazioni de’ quali per avere el caldo dello stato potevano assai. Ed ancora che fussino fatte senza consenso loro, questo non si ha a considerare, perché basta che procedendo dalla loro grandezza, [sono] de’ difetti2 che produce la autoritá de’ tiranni, le voluntá de’ quali sono avute in tanto rispetto, che eziandio tacendo loro, gli uomini cercano di indovinarle, né si pensa di satisfare solo a chi è capo dello stato, ma ancora a tutti quegli che si crede che vi abbino drento parte o favore. E che effetto crediamo noi che facessi la diligenzia che usò massime Lorenzo negli squittiní della mercatantia? Non solo era a proposito, quando lui pure avessi voluto aiutare qualche amico; ma empiendo le borse di uomini dependenti da sé, essi medesimi nelle liti l’uno de l’altro si riconoscevano, in modo che senza altro aiuto dello stato, le cause di chi era del cerchio, andavano con grandissimo vantaggio dagli altri. Né questo poteva dispiacere a Lorenzo, perché bisognava che avessi caro che le condizioni degli amici suoi fussino cognosciute da ognuno tanto migliori che quelle degli altri, che ciascuno avessi a desiderare di esser capitolato per suo amico; e credo che per la medesima ragione di potere favorire copertamente le cose degli amici, tenessi sempre alla mercatantia uno cancelliere fatto a mano, il che faceva ancora in tutte le Arti ed offici. E perché credete voi che e’ giudici de’ sei e de’ ricorsi, che solevano a tempo de’ passati nostri essere in tanta riputazione in tutte le parti del mondo, non abbino ora piú credito? Non può essere proceduto da altro che dal sospetto del favore; che giá oggi e’ nostri cittadini non intendono manco della mercatantia che facessino gli antichi, né credo che gli uomini della etá nostra sieno di sua natura più corruttibili che fussino a quelli tempi.

Ma che potren noi [dire] della giustizia criminale, dove senza comparazione si procedeva a gratificare con la mano piú larga? Io non negherò che Lorenzo in veritá desiderava ordinariamente che la cittá ed el paese stessi quieto e che nessuno fussi oppresso e che si osservassino le legge e si vivessi sanza scandoli; ma pure quando e’ delitti erano fatti, gli bisognava fare avere rispetto a’ suoi e passare le cose loro con gli occhi chiusi, overo terminarle molto leggiermente; e questi suoi erano tanti, che infiniti casi nascevano l’anno che si risolvevano con questi fini. Sapete quanti capi, quanti parentadi intratenevano nel dominio per potersene servire a’ bisogni, cioè per avere forze da tenere soffocati e’ cittadini: a tutti questi si conveniva avere rispetto, ed a’ parenti ed amici e partigiani di questi. El medesimo dico in Firenze; e per questa ragione non solo si procedeva spesso dolcemente contro alle ferite e l’altre violenzie, ma si tollerava che e’ nostri cittadini o questi tirannelli di fuora usurpavano e’ beni de’ vicini, degli spedali, delle communitá e delle chiese. Voi ve ne ricordate tutti senza che io ne nomini alcuno; e quanti soprusi di questa sorte si facevano l’anno, che non venivano in notizia, perché gli oppressi tacevano, dubitando col querelarsi degli uomini potenti trovare piú presto nuovo danno che rimedio. E che sdegno, anzi disperazione crediamo noi che si generassi neiii animi degli altri, quando vedevano che quello che in loro era peccato mortale si trattava in una sorte di uomini come veniale; che l’uno era trattato come figliuolo della patria, l’altro come figliastro? E quanto era inumana e tirannica quella parola con la quale pareva loro scaricare, anzi per ’dire meglio ingannare la conscienzia, e che giá era venuta come in proverbio: che negli stati si avevano a giudicare gli inimici con rigore e li amici con favore; come se la giustizia ammetta queste distinzioni e come se la si dipinga con le bilancie di dua sorte, l’una da pesare le cose delli inimici, l’altra quelle degli amici! Non voglio aggravare più questo capo, perché si aggrava da se stesso abastanza; però non ne dicendo altro vegnáno al secondo che è la distribuzione degli onori ed utili publici.

Quanto importi questa distribuzione in una cittá è superfluo a dire, ed a Firenze massime dove pagando e’ cittadini per sostentazione della republica le gravezze grande che si pagano, è molto onesto che siano aiutati con quegli emolumenti che sono propri della republica; e tanto piú che essendo el nostro naturale avere avuto quasi sempre la libertá, non interviene a noi come a chi è consueto di stare sotto uno principe, perché giá queste cose, cioè gli onori e gli utili, appartengono a tutti noi e sono commune. Come questi siano stati distribuiti dalla casa de’ Medici lo sa ognuno, perché el principale obietto non è mai stato di dargli a quelle persone che per la qualitá della casa, per le virtú o altri meriti se gli convenghino, ma fargli girare in chi hanno riputato amico e confidente, e contentatone ancora spesso gli appetiti piú leggieri. Lo sappiamo tutti, che non solo le moglie, e’ cagnotti e molte persone basse loro domestiche hanno avuto autoritá in questo, ma se ne è satisfatto insino agli amori. E quello che importa piú ed è manco tollerabile in una republica, una parte grande della cittadinanza ne è stata esclusa quasi per legge, cioè quelle case delle quali non si sono mai voluti fidare, che cominciando dal 34, e’ figliuoli e discendenti loro in perpetuo ne sono stati privati totalmente, come prodotti da radice infetta. Di che è riuscito el male doppio, perché non solo si è tolto a chi si doveva dare, ma ancora mancando questi, si è dato a chi non si doveva, ed esaltato a’ primi onori molte case ignobile ed abilitati allo stato infiniti plebei e contadini; e come tirannicamente disse Puccio, sforzatisi di riempiere el luogo de’ nobili col mettere indosso alla gente vile e’ panni di grana di san Martino.

È appiccata con questo capo la disonestá delle gravezze, perché coloro a’ quali hanno tolto gli utili hanno anche caricato di pesi maggiori. È notissimo quante nobilita, quante ricchezze furono distrutte da Cosimo, e poi ne’ tempi sequenti, con le gravezze; e questa è stata la cagione che mai la casa de’ Medici non ha consentito che si truovi uno modo fermo, che le gravezze si ponghino quasi dalla legge, perché hanno voluto riservarsi sempre la potestá di battere co’ modi arbitrari chi gli pareva. E certamente se avessino voluto tenere in mano questo bastone per usarlo solo contro alli inimici e sospetti, sarebbono alquanto piú escusabili, non lo adoperando per altro che per la sicurtá sua; ma si è veduto che se ne sono serviti a fare terrore a ogni generazione di uomini; e non potendo muovere con lo appetito delli onori e’ cittadini quieti e le persone non ambiziose che pretendevano piú alle mercatantie che allo stato, hanno usato quest’altro instrumento per farsi adorare e diventare con questo mezzo padroni di ogni cosa e di ognuno, e sforzare gli uomini a cercare di indovinare per ubidirgli nelle cose eziandio minime. Ho troppo dispiacere a fermarmi nella memoria di questa parte non che a parlarne piú; però passiano piú innanzi e ragioniano del terzo capo che io proposi, cioè di quella parte del governo che tocca alla conservazione ed augumento del dominio.

Dico che avendo e’ Medici sempre per ultimo fine el bene suo particulare, ed a questo tutti e’ mezzi dirizzando, le deliberazioni del pigliare o lasciare le imprese e del fare o conservare le amicizie, erano non secondo la utilitá della cittá, ma come pareva loro che fussi piú a proposito della grandezza propria; e se pure in alcuna concorrevano l’una e l’altra insieme, cioè el beneficio publico e lo interesse suo particulare, usavano arte di governarle in modo che non solo tutto el maneggio dependessi da loro, ma ancora tutto l’onore, tutto el grado fussi suo, e che a ognuno fussi noto che loro erano padroni assoluti. La guerra di Volterra che ci messe in grave spesa e pericolo, fu causata da Lorenzo che per sdegni suoi particulari constrinse e’ volterrani a ribellarsi. El volersi conservare privatamente lo appoggio della casa sforzesca, e lo inimicarsi Sisto ed el conte Girolamo per cose sue particulari, esasperò tanto el papa ed el re Ferrando che tentorono la novitá de’ Pazzi, e non gli riuscendo el rovinare Lorenzo per questo verso, ruppono la guerra con grandissima spesa nostra e gravissimi danni del paese. Per aiutare el medesimo re nella guerra de’ baroni, facemo spesa grossissima e senza necessitá perché a noi non veniva male a proposito el suo travaglio; ma non lo volle comportare Lorenzo per la intelligenzia stretta che aveva fatta con lui. Questa medesima ragione e la intrinsichezza con gli Orsini è stata causa che Piero, per non si volere sviluppare da quelli nodi co’ quali gli pareva avere molto bene legato lo stato suo, fece questa pazzia di opporsi al re di Francia e messe in tanto precipizio la cittá, di che io non mi voglio lamentare, poi che da questo ha avuto occasione la nostra libertá, ma è pure stato con troppo pericolo dell’ultima ruina di tutti. La difesa di Ferrara fu deliberata saviamente per opporsi alla troppa grandezza de’ viniziani; ma per tirare a sé Lorenzo tutta la riputazione ed el grado, volle andare in persona alla dieta di Cremona. Né biasimo la impresa di Pietrasanta per le cose di Lucca; ma quando la fu stretta dal campo nostro in modo che bisognava si arrendessi, Lorenzo vi andò per avere lui solo l’onore delle fatiche d’altri. El medesimo fece a Serezzana, dove nello acquistarla e poi nel fortificarla, si è fatto senza proposito una spesa intollerabile; benché questo non attribuisco a interesse suo particulare, ma piú tosto a essere mancato di giudicio. La conclusione in somma è che la cittá ed eì privati hanno corso molte volte grandissime spese e pericoli per satisfare agli interessi loro particulari; ed el danno che si è avuto di qualunche impresa è stato commune a tutti e’ cittadini, l’onore ed el grado si hanno appropriato loro.

Tutti questi mali hanno una medesima radice, perché chi è capo di uno stato stretto non ha per fine altro che la grandezza sua particulare e fa sempre quanto gli pare a proposito di conservare questa, senza rispetto alcuno di Dio, della patria e degli uomini. Non sappiamo noi quante volte, perché l’arme nostre fussino dipendenti da loro, ci hanno fatto fare condotte senza bisogno, tolto capitani insufficienti ma sua amici e confidati? Per potere reggere le spese eccessive e mantenersi gli amici nelle corte ed appresso e’ principi, Lorenzo, quasi fallito nelle mercatantie, non mess’egli mano a’ danari del commune, facendosi servire con modi coperti di grosse somme? Non si sa egli come andorono le cose di quel suo banco, al quale si voltorono e’ pagamenti de’ soldati nella guerra del 78 e 79? Quello che lui fece per sé non seppe o non volle o onestamente non potette negare agli amici; de’ quali molti furono serviti de’ danari del commune che uscivano del sangue e delle ossa de’ poveri cittadini, anzi che erano le dote delle sventurate fanciulle. Doppo simili portamenti viene di necessitá el sospetto; perché sapendo che questi termini non possono piacere a chi non è maligno o di animo vile o interessato molto estraordinariamente seco, hanno sospetto di tutti gli altri, però sono sforzati a guardare alle mani a ciascuno e tenere bassi tutti quegli che gli paiano grandi o di troppo ingegno. Da questo nacque el tórre a’ Pazzi con una legge iniqua l’ereditá de’ Borromei, ed el battergli per tanti versi che la desperazione gli condusse alla congiura donde seguirono infiniti mali; da questo, el non lasciare fare parentadi tra quelle persone che gli pareva che congiugnessino insieme troppe qualitá; da questo, el travagliare e tenere indrieto molti con diversi modi. Non parlo del fallimento mio, perché poi che non segui lo effetto, mi ricordai sempre più del beneficio che Lorenzo mi fece in mostrare di aiutarmi, che della ingiuria del mettermi in pericolo; ma si sa che non fu per altro che per tórre lo ardire a me e forse con questo esemplo a molti altri. Né mi voglio maravigliare delle altre cose, quando mi viene in mente che degli amici suoi piú confidenti non si fidava, aggirandogli con vari mezzi ed avendo sempre con loro qualche riservo; di che può fare fede quella sottile invenzione di tenere, con ordine degli otto della prattica, cancellieri fermi appresso agli imbasciadori, nonostante che gli imbasciadori erano pure sempre de’ suoi piú intrinsechi.

Da questi fondamenti si può inferire che se a’ Medici fussi venuto a proposito lasciare da canto la mansuetudine con la quale voi avete detto che sono vivuti, ed è la veritá, a rispetto de’ tiranni di Bologna e di Perugia, l’arebbono lasciata; perché chi si propone per ultimo fine suo la grandezza propria, ha per inimico ogni cosa che è contraria a questa e per conservarsela farebbe, ogni volta che bisognassi, uno piano delle facultá, dell’onore e della vita di altri. E che piú bello esemplo vogliamo noi che el 34, dove Cosimo mandò in esilio e distrusse tanta nobilita e tante case, che si può dire con veritá che di tutti e’ mali che ha avuto la cittá nostra in alcuno tempo, nessuno è stato comparabile a questo? La ingiuria che ebbe Lorenzo da’ Pazzi fu gravissima; errerò forse manco a dire l’offesa, perché non pare si possa dire ingiuriato chi ha provocato; e nondimeno la vendetta passò ogni misura di civilitá, perché non solo nel primo impeto furono impiccati molti che non erano in colpa, ma poco appresso fu fatto el medesimo a Renato che aveva sempre detestato l’arme, e poi a sangue freddo tenuti tanti anni in prigione quegli poveri giovani innocenti; vietato el maritarsi alle fanciulle, e fatto molte altre esorbitanzie che sono tutte secondo la natura di simili stati, ne’ quali si castiga non solo chi ha cercato mutazione, ma ancora e’ figlioli, e’ fratelli, e’ parenti. Potrebbesi dire infinite altre cose, ma avendo io detto assai voglio lasciare el luogo a Pagolantonio.

Soderini. Piero ha toccato in modo tutti e’ capi principali, che io giudico sia abastanza, massime che a volergli narrare tutti sarebbe troppo lungo, perché in fatto e’ mali di quello tempo sono infiniti; e quello che Bernardo ha detto con veritá, che el modo di Cosimo e di Lorenzo fu mansueto a comparazione degli altri tiranni, o per la loro buona natura o per essere savi e bene consigliati, questa ragione dico che mi fa più avere in odio simili governi, perché se sotto uno tiranno piacevole e savio si sopportano tanti mali, che si può aspettare da uno che sia imprudente o maligno? Che si poteva aspettare da Piero, che oltre a non avere avuto prudenzia maggiore che voi sappiate, non fu anche di quella buona natura e dolcezza di sangue che furono el padre e lo avolo, e che ordinariamente suole essere la nostra nazione? Né è maraviglia, perché essendo nato di madre forestiera, era imbastardito in lui el sangue fiorentino, e degenerato in costumi esterni e troppo insolenti ed altieri al nostro vivere. Che si sarebbe poi potuto aspettare da’ figliuoli di Piero che sono Orsini da tutte le bande? Ma che dirò io? Che se bene Piero fussi stato simile al padre, le cose sarebbono sempre a ogni modo di necessitá andate in peggio, perché la natura degli stati stretti è che del continuo si vadino piú strignendo, e si augutnenti sempre la potenzia del tiranno, ed in consequenzia tutti e’ mali che procedano dalla grandezza sua. Considerate e’ progressi di Cosimo, e quanto egli fu maggiore nel fine della vita, che non era nel principio del 34. Lorenzo successivamente ebbe lo stato piú assoluto che Cosimo; e negli ultimi anni suoi era molto piú stretto in lui ogni cosa, e si strigneva a giornate, che non fu ne’ primi tempi doppo la morte del padre. El medesimo si sarebbe veduto in Piero, anzi giá si vedeva, avendo messo in mano ogni cosa a ser Piero da Bibbiena e tirato alla cancelleria di casa sua tutte le faccende che a tempo di Lorenzo solevano stare negli otto della prattica. E questo procedeva, perché, come ha detto Piero Capponi, chi ha lo stato stretto si diffida eziandio degli amici; a’ quali se bene piace el partici pare, nondimeno quando anche non avessino punto di spirito di buono cittadino, il che mal volentieri si debbe credere in chi non ha lo animo al tutto corrotto, quando, dico bene, non avessino alcuna scintilla di amore alla patria sua, non può essere che tacitamente non si sdegnino, vedendo aversi sospetto di loro, e che la autoritá ed el pondo del governo è in cancellieri, persone vili e di poca qualitá, ed el piú delle volte sudditi nostri; a’quali nondimeno chi vuole intratenersi bisogna che diferisca e che gli onori per maggiori. E questo oltre a essere cosa molestissima a chi ha punto di gusto, di essere dominati da chi doverebbe servire, è ancora pernizioso alla patria trovarsi in mano di persone che ci sieno inimici ed almanco non ci abbino amore; e che e’ segreti ed intrinsichi di tutti noi e gli umori e valuta della cittá abbino a passare ogni di per mano a simili ed a essere noti a loro piú che a noi medesimi.

Però non so come Bernardo potrá aguagliare el vivere di simili stati al governo populare, nel quale quando bene gli effetti non fussino migliori che quegli della tirannide, l’uno è secondo lo appetito naturale di tutti gli uomini che b anno per natura lo appetire la libertá, l’altro è direttamente contrario, avendo ognuno in orrore la servitú; donde eziandio con disavantaggio sí debbe preporre quello che satisfa piú alla naturalitá, che el contrario. E questa ragione è generale in tutti gli uomini, perché ordinariamente gli instinti naturali sono in ognuno. Ma particolarmente coloro che sono di ingegno piú elevato o di animo piú generoso, non possono né debbono stare contenti alla servitú, anzi bisogna si disperino quando veggono che le azioni loro, che arebbono ragionevolmente a essere libere nè avere dependenzia da altri che da sé medesimo e dal bene della patria, bisogna che si regolino secondo lo arbitrio di altri, o sia giusto o sia a beneplacito; quando cognoscono che non solo sono constretti a sottomettersi a chi sa molte volte manco di loro, ma ancora gli bisogna andare nascondendo la sua virtú, perché al tiranno dispiacciono tutti gli spiriti eccelsi, ogni potenzia eminente, massime quando procede da virtú, perché la può manco bat tere; e questo fa qualche volta per invidia, perché vuole essere lui singulare, spesso per timore, del quale per l’ordinario è sempre pieno. Non voglio applicare queste parole a particolare alcuno, ma voi sapete tutti che io non le dico senza proposito.

Adunche se el primo obietto di coloro che hanno retto legitimamente le citta, se la principale fatica de’ filosofi e di tutti quegli che hanno scritto del vivere civile, è stata di mettervi quella instituzione che produca le virtú ed eccellenzia di ingegno e di opere generose, quanto sará da biasimare e detestare uno governo, dove per contrario si fa estrema diligenzia di spegnere ogni generositá ed ogni virtú! Parlo di quelle virtú con le quali gli uomini si fanno atti alle azioni eccellenti, che sono quelle che fanno beneficio alla republica. E che misera condizione è degli ingegni nobili e degli uomini che desiderano fama, vedere che gli siano tagliati tutti e’ mezzi di fare opere egregie e di acquistare gloria, ed essere necessitato lodare spesso chi non lo merita, ed avere a interpretare la voluntá di chi vuole essere inteso a’ cenni! In che, come ognuno sa, Lorenzo premè sopra tutti gli uomini. E non si ha però a fare cosí per altri meriti che per dire: egli ha piú forze di me. Però io replico di nuovo che ogni volta che el governo non sia legitimo, perché allora la virtú è onorata, ma abbia del tirannico o fiero o mansueto, che con ogni disavantaggio ed incommoditá di roba o di altra prosperitá, si debbe cercare ogni altro vivere; perché nessuno governo può essere piú vituperoso e piú pernizioso che quello che cerca di spegnere la virtú ed impedisce a chi vi vive drento, venire, io non dico a grandezza, ma a grado alcuno di gloria, mediante la nobilitá dello ingegno e la generositá dello animo. Aggiugnerò un’altra considerazione la quale a me pare verissima, se bene non sarebbe forse capace a ognuno: che la casa de’ Medici, come fanno tutti gli stati stretti, attese sempre a cavare l’arme di mano a’ cittadini e spegnere tutta la virilitá che avevano; donde siamo diventati molto effemminati, né abbiamo quello vigore di animo che avevano gli avoli nostri; e questo quanto sia di danno a una republica lo può giudicare chi ha considerato che differenzia sia a fare le guerre con le arme proprie, a farle con le arme mercennarie. Né sia alcuno che lodi questo ordine perché el vivere dove non si adoperano le arme è quieto, e dove le arme si maneggiano surgono spesso degli scandoli; perché el verso vero sarebbe non volere, per questo timore, perdere el bene che resulta a chi tiene le arme in mano, ma ordinarsi in modo che le arme si adoperassino a benefício della patria e non si potessino adoperare a’ tumulti e sedizioni. E che questo sia facile lo dimostrano le antiche republiche e se ne vede oggi qualche vestigio in questi svizzeri, che ora cominciano a farsi conoscere in Italia; e’ quali ancor che siano feroci ed armigeri quanto si vede, intendo che in casa loro vivono in libertá, sotto le leggi ed in somma pace, Potrebbonsi, credo, dire delle altre cose, ma mi pare sia detto abastanza, e pure anche sarebbe bene che Piero Guicciardini aggiugnessi quello che noi abbiamo lasciato.

Guicciardini. Io mi rallegro che voi avete detto tanto che mal volentieri si debbe potere dire piú; ed è tanto che non si potrá rispondere per Bernardo, né alle risposte che egli fará replicarsi per voi, senza dichiarare molti passi belli appartenenti al governo di una cittá, che è quello che io desideravo. Però essendo in sul cammino di avere ciò che io ho cercato, non accade che per ora io interrompa senza proposito.

Bernardo. Voi avete raccontato con tale ordine e con tanta memoria e’ difetti di quello stato, che bene si vede che voi vi avete pensato piú di una volta; né io voglio negargli o alleggerirgli piú che si convenga, perché noi ragioniano per trovare la veritá, non per disputare; ma credo bene che mi riuscirá el mostrarvi che questo vostro governo, dal quale voi aspettate una etá di oro, ará seco molti di questi medesimi difetti, e ne ará anche degli altri, in modo che, bilanciando minutamente l’uno e l’altro, troverrete forse le cose in grado diverso da quello che voi vi immaginate. Ma perché Pagolantonio mi vuole tagliare sempre la via col nome della libertá, e dimostrando quanto la sia naturale allo appetito degli uomini, massime nella nostra cittá, e per contrario quanto sia detestabile la servitú, conchiude che uno governo libero, ancor che portassi seco peggiore condizione, debbe essere piú amato che uno stato che sia in mano di uno, e spezialmente dagli uomini di ingegno e generosi e che aspirano alla gloria, a’ quali sotto la potenzia di uno è levata ogni occasione di operare la sua virtú e di acquistare fama, anzi sono a sospetto e bisogna che cerchino di coprire le sue virtuose qualitá; mi pare necessario, prima che io passi piú oltre, parlarne qualche cosa, perché, se ci lasciassimo ingannare da questa equivocazione, sarebbe interrotto ogni mio fondamento.

Io ho considerato spesso die questo nome della libertá è molte volte preso piú presto per colore e per scusa da chi vuole occultare le sue cupiditá ed ambizione, che in fatto si truovi cosí naturale negli uomini questo desiderio; parlo di quella libertá che si considera nel governo di una cittá, non di quella che concerne lo stato delle persone, cioè che uno uomo sia libero o sia stíavo. Mi pare bene, se io non mi inganno, che negli uomini si truovi naturale el desiderio di dominare e di avere superioritá agli altri, e che communemente siano pochissimi che amino tanto la libertá, che se avessino occasione di farsi signori o superiori degli altri, che non lo facessino volentieri. E questo si vede in fatto ogni di, non solo tra quegli che non hanno congiunzione l’uno con l’altro, come uno principe o una republica che cercano sempre di insignorirsi delle terre e stati vicini, ma ancora tra quegli che sono membri di uno medesimo corpo. Però se voi considerate gii andamenti di coloro che vivono in una medesima cittá e le discordie che nascono tra essi, troverrete che per ultimo fine riguardano piú la superioritá che la libertá; ma gli uomini si lasciono spesso ingannare tanto da’ nomi che non cognoscono le cose, e però allegandosi el piú delle volte nelle discordie civili il nome della libertá, e’ piú, abagliati da questo, non cognoscono che el fine è diverso.

Coloro che sono de’ primi gradi delle cittá non hanno tanto per obietto la libertá, quanto cercano sempre di ampliare la sua potenzia e farsi superiori e singulari quanto possono. Sforzonsi bene, mentre lo possono fare, di coprire la ambizione sua con questo piacevole titolo della libertá, perché essendo in una cittá molti piú quegli che temono di essere oppressi che quegli che sperano di opprimere, ha molti piú compagni chi pare che pigli el patrocinio della equalitá, che chi scopertamente andassi alla via della superioritá; e nondimeno se la gli viene bene colta, lo effetto mostra e’ pensieri loro, perché con questo inganno si servono el piú delle volte della moltitudine a farsi grandi. Degli esempli credo ne troverrete molti se leggete le vostre istorie e l’antiche. Da altro canto e’ popoli cercano e pigliano per obietto la libertá, perché essendo la maggiore parte in grado che dubita di essere oppressa o che participa manco degli onori ed utili della republica, bisogna che la prima cosa a che attendino sia la equalitá, perché con questo mezzo si assicurono e ricevono piú parte che prima; e chi vuole di grado basso salire in alto, bisogna che di necessitá arrivi prima al mezzo. Nondimanco si vede sempre per esperienzia, che questi medesimi, come sono condotti alla equalitá, non fermano quivi el suo fine, ma cominciano a cercare o almeno a desiderare la grandezza ed avanzare gli altri; e dove prima procuravono la libertá, cominciano, se ne avessino occasione, a procurare la servitú, o cercando di farsi capi principali dello stato o di fare capo un altro, sotto la aderenzia di chi sperino piú parte che non speravano dalla equalitá. E questo vi dimostra veramente quale sia el fine degli uomini, poi che chi è potente si serve molte volte del nome della libertá per ingannare gli altri, e molti di quelli che la hanno cercata, come sono condotti alla equalitá, la abbandonano, pur che paia loro essere di sorte da potere sperare superioritá.

E se voi mi dicessi che nelle istorie si truovano pure molti che hanno avuto per ultimo fine el desiderio della libertá della patria, e si ardente che hanno messa la vita propria in certo pericolo, vi prego non inganniate voi medesimi, e che se io mi ingegnerò di farvi cognoscere bene la natura delle cose, non mi riputiate per questo amatore delle tirannide ed inimico della libertá e delle republiche, massime che io spero che innanzi che sia finito el nostro ragionamento farò manifesto che io non ho lo animo punto alieno da una libertá bene ordinata. Tutti quegli che si sono messi a pericolo per la patria, o lo hanno fatto contro a inimici forestieri, o contro a quegli che drento occupavono la tirannide. Lo esemplo di chi ha fatto contro alli inimici forestieri, come furono molti appresso a’ romani, non è a proposito del nostro ragionamento, perché costoro hanno fatto per amore della patria, e perché la non sia concultata o depredata dagli inimici; in che non ha avuto a venire in considerazione che lo stato sia in mano di uno, o di pochi, o di republica. Si può dire piú tosto che questi simili abbino fatto per amore della patria che della libertá; la patria abbraccia in sé tanti beni, tanti affetti dolci, che eziandio quegli che vivono sotto e’ principi amano la pa- ’ tria, e se ne sono trovati molti che per lei si sono messi a pericoli.

Coloro che hanno fatto contro a chi occupava la tirannide, o gli è riuscito loro el disegno di avere levato el tiranno, o sono stati impediti. Di questi ultimi non si può dare giudicio certo che fine gli abbia mossi, perché non sappiamo, se gli fussi riuscito lo opprimere la tirannide, se si sarebbono fermati quivi o se pure avessino poi cercato di andare piú innanzi ed attendere alla grandezza propria. Ma se ne può dire quasi el medesimo che si dice di quelli a chi è riuscito opprimere el tiranno, molti de’ quali si è veduto che in progresso di tempo hanno cercata la tirannide; donde bisogna giudicare che questo fussi anche lo animo loro in principio.

Molti perché non erano grandi né onorati a loro modo, né vedevano altro mezzo da sollevarsi, possono avere cercata la libertá a questo effetto; altri di questi è certo che si sono mossi da qualche sdegno o da qualche ingiuria ricevuta dal tiranno o da altri, ma non vendicata da lui, come gli pareva conveniente; altri hanno avuto paura che el tiranno non gli opprima, e però hanno prevenuto e cercato per questa via la sua sicurtá; altri trovandosi in disordine delle facultá, hanno cercato novitá per trovare modo di riordinarsi, come fanno covnmuneniente e’ malestanti; altri per essere stati parenti o amici di qualche sbandito dal tiranno, hanno procurato con questo mezzo el ritorno de’ suoi. Molte altre cagione si possono considerare, per le quali tutte si inferisce questo: che tra gli inimici del tiranno sono stati pochissimi quegli che si siano mossi meramente per amore della libertá della sua patria, a’ quali si conviene supprema laude e tanto maggiore quanto è piú rara; ma dico che sono si pochi che non si può inferire da questo lo appetito universale degli altri, perché, come si dice in proverbio, una rondine non fa primavera. E se e’ non paressi che io volessi troppo anichillare questo appetito della libertá, direi piú oltre, che forse la maggiore parte di questi tali pochissimi non si sono mossi tanto per amore della libertá, quanto perché cognoscendo questo patrocinio essere gloriosissimo, hanno cercato con questo mezzo di acquistare nome e gloria; e cosí vengono a essersi mossi non per bene commune, ma per fine di proprio interesse; e’ quali però meritano commendazione singulare di averla voluta guadagnare con opere laudabili e con opinione di fare bene alla patria, e non con modi scelerati, come si è giá trovato chi ha fatto.

Conchiudendo adunche dico che non è cosí naturale né cosí universale el desiderio de’ governi liberi come ha detto Pagolantonio; e se era cosí a’ tempi antichi, è molto piú ne’ nostri, che sono piú corrotti; e però dico che se questi che predicano la libertá credessino in uno stato stretto avere per el particulare suo, migliore condizione che in uno libero, ne resterebbe pochi che non vi corressino per le poste. E questi ingegni elevati e spiriti generosi che lui ha detto, non sarebbono forse degli ultimi, e’ quali quando cercano la libertá, si muovono quasi sempre per qualcuna delle ragioni dette di sopra. E de’ lamenti loro di non avere in uno stato stretto occasione di mostrare bene la sua virtú, diremo in altra parte del nostro ragionamento, bastandoci per ora solamente questo: che chi ha scritto de’ buoni governi delle cittá, non avendo rispetto a questa ambizione di pochi, ha sempre proposto el governo di uno, quando è stato buono; e la ragione è stata questa, perché e’ governi non furono trovati per fare onore o utile a chi ha a governare, ma per beneficio di chi ha a essere governato, e nel disporgli non si cerca che ognuno governi, ma solo chi è piú atto. E però sempre è piú approvato e chiamato migliore governo quello che partorisce migliori effetti. Ed infine, discorrete quanto volete, bisogna, se io non mi inganno, ritornare a quello mio primo fondamento: che gli effetti de’ governi sono quegli che danno la sentenzia; però è necessario calculare quali siano maggiori, ò’ beni che si avevano dal governo de’ Medici, o quelli che si aranno da questo nuovo populare.

Soderini. Ancora che chi cerca la libertá per avere la equalitá non la cercassi mai per suo ultimo fine, come voi avete detto, e’ non si può però negare che in ogni cittá non siano senza comparazione molti piú coloro che desiderano la equalitá, che non sono gli altri; perché è maggiore numero di chi manco participa che la rata, e di chi teme di essere oppresso, che di quelli che hanno piú che parte e che sono in grado da pensare di potere opprimere altri. E però in ogni tempo è maggiore assai el numero di coloro a chi piace el vivere libero, perché vi si truova drento la equalitá piú che in nessuno altro; donde ne seguita che el vivere non libero non si può negare che c contra el gusto e desiderio della maggiore parte, e quello che ragionevolmente dispiace a’ piú debbe essere rifiutato, massime che la piú utile sorte di cittadini che possa avere una cittá, sono quegli che stanno nella mediocritá, perché sopra a questi s’ha a fare el fondamento, e contro a chi vuole tiranneggiare e contro alla plebe che voglia disordinare.

Bernardo. È difficile rimuovere questa impressione dallo animo di Pagolantonio; nondimeno io dico che questa equalitá non s’intende in ogni cosa; verbigrazia che le sustanzie di ciascuno siano pari, perché le vanno diminuendo o crescendo secondo la industria e fortuna degli uomini; ma si ristrigne a’ termini debiti, e quanto al caso nostro si può considerare in dua cose, cioè che ognuno sia equalmente sotto le leggi, né possa l’uno essere oppresso da l’altro; e questa paritá e sicurtá s’ha tanto, e forse meglio, sotto un altro governo quando è bene ordinato, come sotto el governo libero; e però per questo solo non è necessario desiderare la libertá. Nel secondo capo si può considerare la equalitá, cioè che ognuno governi, tanto l’uno quanto l’altro; e questo non è appetito ragionevole, perché ne’ magistrati e nel governo debbe avere piú parte chi è piú atto a governare, essendo, come è stato detto innanzi, trovate le autoritá civili ed e’ magistrati per beneficio di chi è governato, non per satisfazione di chi ha a governare. Però non si debbe tenere conto di chi desidera per questo rispetto la libertá, perché è cosa non ragionevole e non utile, e chi ordina le cittá non debbe dare fomento alle voglie ambiziose, anzi tagliarle e stirparle quanto può.

Soderini. Non voglio per ora dire altro, perché forse udendo le altre cose che voi direte, resterò piú satisfatto che ancora non sono, o almanco nella fine del ragionamento potrò replicare, se altro mi occorrerá.

Bernardo. Passiamo adunche alle cose dette per Piero Capponi, e de’ tre capi bene considerati e bene discorsi da lui, io commincerò dal secondo, cioè da quello che appartiene alla distribuzione degli onori ed utili publici; perché venendo sotto questo membro la elezione de’ magistrati da chi depende la amministrazione della giustizia ed el maneggio delle cose di fuora, potreno meglio esaminare questi dua altri capi, se aremo dichiarato bene questo. Nel quale tre sono gli errori che ci si possono considerare: el difetto della persona, cioè quando colui a chi si danno e’ magistrati non gli merita, o per non essere buono uomo, o per non essere atto a tale peso; la condizione della casa, cioè quando si danno a uomini nuovi e non di tale nobilita che se gli convenga quello onore, perché e’ gradi delle persone sono distinti, e ne’ governi bene ordinati non si debbono confondere; el terzo, fargli girare in una parte solo della cittá, escludendone, come per legge, quasi sempre un’altra. L’ultimo di questi errori è ingiusto, el secondo è disonorevole, el primo è dannoso al publico.

A me pare che avendo voi, o per dire meglio chi ha ordinato questo governo nuovo, rimesso al consiglio grande la elezione di tutti gli offici, che non si possa aspettarne altro che molti errori, perché el popolo non sará buono giudice delle qualitá degli uomini, né misurerá con diligenzia quanto pesi ognuno, anzi andrá alla grossa e si governerá piú con certe opinioni che andranno fuora senza fondamento, e per dire meglio con certi gridi, che con ragione. Però vedrete che spesso sará messo ne’ primi gradi chi non sarebbe atto a governare la casa sua, e che aranno piú corso e piú fave certe persone riposate e da sapere fare poco bene o poco male, che gli uomini savi ed atti a’ governi. E’ populi danno spesso piú riputazione a chi se la guadagna col non fare nulla e con lo stare cheto, che a chi l’ha meritata col sapere fare; e se pure uno fa qualche pruova che gli piaccia in una spezie di cose, lo adoperano senza distinzione a un’altra tanto lontana da questa, quanto, come dice el proverbio, è el gennaio dalle more, imitando e’ medici poco pratichi che mettono al capo quelli unguenti che non hanno proprietá a altro che allo stomaco. Ed essendo el corso della cittá fondato, come sapete, in sugli esercizi ed in sulle botteghe, non sará col consiglio poca scala allo stato ed al governo, lo avere nome di attendere sollecitamente a queste. Però vedrete spesso e’ gonfalonieri di giustizia, e’ dieci della balia e gli altri magistrati che hanno el peso d’ogni cosa, andarne in mani che ve ne verrá compassione. Si aggiugne che questo governo è stato principiato con uno certo nome ed opinione di larghezza, che si fará tuttodí a gara a allargarlo; perché ognuno pretende a’ primi onori, e tale che è stato in villa trenta anni e non ha notizia alcuna delle cose della cittá, è corso qua a furore, persuadendosi di avere a essere de’ primi del suo quartiere. Donde vedrete distendersi tanto e farsi si universale, non dico el desiderio degli utili, perché questo sarebbe tollerabile, ma le ambizioni degli onori e del governare, che sanza dubio andranno con poca distinzione; conciosiaché nella moltitudine sono piú senza comparazione gli insufficienti, e però la diligenzia o la ambizione del minore numero non potrá resistere a questa piena. Mi darebbe el cuore nominarvene venticinque che voi vedrete avere favore al gonfaloniere ed a’ dieci, che io non so se e’ vi paressi troppo el fargli de’ cinque del contado, o degli ufíciali della torre. Né crediate che benché el popolo sia buono ed abbia nome di buono, e’ cattivi non ci abbino a avere luogo, perché la medesima ignoranzia che sará causa che a’ dapochi sia dato quello che si arebbe a dare agli uomini d’assai, fará spesso mettere e’ cattivi dove arebbono a stare e’ buoni. El popolo, come io ho detto, va alla grossa, non discerne né pesa sottilmente le cose, però con facilitá ò ingannato da chi si ingegna parere buono; pensa ciascuno, agli esercizi suoi, né fa diligenzia di informarsi del vivere di questo e di quello; però non gli sono note le opere particulari di ognuno, e piú lo moverá el portare uno el collo torto, che è cosa che si vede senza che la si cerchi, che le azioni sue, perché non le sanno; e cosí facilmente si appiccherá, e sará creduta, una infamia adosso a uno che non la meriti, come uno bene di uno che sia lo opposito.

Da non pensare alle cose e non ne tenere conto diligente, nasce la oblivione, perché ancora che uno si porti male in uno magistrato ed in modo che sia noto, nondimanco si dimentica presto; né mi negherete ancora che in quello consiglio si troveranno molti cattivi, e’ quali non possono tenere le fave a’ suoi simili. Per queste cause adunche e per altre che appariranno alla giornata, dico che in quanto a quelli che non meritano o per insufficienzia o per bontá, si distribuiranno, a giudicio mio, peggio gli onori e gli offici, che non si faceva a tempo de’ Medici e che non si fará forse mai in uno governo simile; perché chi ha la cura d’uno stato tale esamina diligentemente la natura e qualitá degli uomini, e dove gli bisogna mettere persone che vaglino, si sforza di farlo, né è ingannato facilmente come el popolo, perché discerne piú, vi pensa con piú diligenzia, ed essendo questa la sua bottega, ne tiene conto particulare e non si regge co’ gridi e con le opinioni vane, ma tocca el fondo delle cose; e se pure uno lo inganna una volta, perché non si può sempre cognoscere la condizione di ciascuno, non si lascia ingannare l’altra. E se voi mi dicessi che uno stato, verbigrazia di Lorenzo, non aveva bisogno di usare spesso questa diligenzia, perché da imbasciadori, commessari e simili carichi in fuora, dove erano necessari valentuomini, e’ dieci, gli otto della prattica, le signorie non importava quello che fussino, perché a ogni modo avevano l’orma del maestro; vi rispondo prima, che questa ragione fa contro a voi, perché dunche quando fussino stati insufficienti, questo errore importava poco; non cosí nel governo del popolo, dove avendo questi magistrati tutto el peso in sulle spalle, gli errori saranno capitali.

Ma lasciando questo, vi rispondo che uno stato simile aveva per molti rispetti bisogno di intratenersi gli uomini d’assai e di buona fama, perché communemente gli importava avere per amici piú presto questi che gli altri; e però se bene qualche volta avevano anche bisogno servirsi di persone non buone, né potevano lasciarne facilmente indrieto qualcuno per essere di linea troppo amica, pure questi non erano tanti che si potessi dire che ordinariamente non carezzassino sempre e onorassino, da quegli in fuora da chi la diffidenzia non gli ritiri, piú volentieri le persone bene qualificate, ed a questi piú che agli altri voltassino non solo e’ magistrati di onore ma ancora di utile. E perché Pagolantonio mi dira che e’ cercavano di tenere bassi gli uomini di ingegno e di animo, vi dico essere vero che uno che ha lo stato in mano ha rispetto di non fare alcuno si grande che gli possa portare pericolo, e piú teme da’ valent’uomini che dagli altri, perché sono atti a maggiori cose; nondimeno se è prudente, si governa con modo e con distinzione, faccendo differenzia da uno che è savio e non animoso, a uno che è savio, animoso e non inquieto, e da questi a chi ha ingegno ed animo ed inquietudine: co’ primi procedei’á largamente, co’ secondi bene con qualche rispetto piú, co’ terzi andrá piú stretto. E questo si doverrebbe anche fare in una libertá, non però togliendogli le dignitá né alienandogli dalle faccende, ma avvertire di non gli confidare, massime in tempi sospetti, la somma delle cose, o dargli tale compagnia che non possa disordinare; e tutto si fa in modo che questo resta piccolo errore, perché nuoce a pochissimi e non totalmente.

E di questo participa anche el popolo, perché spesso, e con minore cagione, si reca a sospetto gli uomini che vagliono ed usa minore prudenzia a sapergli ritirare ed assicurarsene, anzi gli esclude sanza rispetto ed in modo che gli dispera; perché non ha maggiore giudicio nel non dare che nel dare, anzi si confida bene spesso e con grandissimo suo danno di quegli di che sarebbe bene di guardarsi, perché non cognosce e non distingue. E se el popolo nelle cose ponderose ed in quelle che contengono la importanzia della republica, si governa cosí indiscretamente, che pensiamo noi che abbia a fare in quelle che importono manco, come sono gli offici di utile e di non molta amministrazione, e’ quali ancora che, come ha detto Piero Capponi, sia bene che siano communi in Firenze, dove si pagano tante gravezze e dove giá sono stati communi, pure si debbe fare qualche distinzione da chi merita a chi non merita, almanco per invitare gli uomini alle virtú ed al bene operare?

Conchiuggo in effetto che se bene a tempo de’ Medici, el dare magistrato a chi non lo meritassi procedeva piú da malignitá, per dire cosi, che da ignoranzia, e per contrario al governo del popolo nascerá piú da ignoranzia che da malignitá, pure che in questo piú spesso e con piú danno del publico errerá el popolo che’ Medici; perché quello che si fa studiosamente, suole avere peso e misura; ma la ignoranzia è cieca, confusa e sanza termine e regola, e però dice el proverbio che spesso ò meglio avere a fare col maligno che co’ l’ignorante.

Soderini. Io dirò una parola circa a questo: io non so se le elezione del popolo saranno tanto cattive quanto voi presuponete, poi che si è ordinato el vincere per le piú fave; perché avendo a concorrere tante opinioni insieme, spero pure che el piú delle volte el maggiore numero giudicherá bene, e di questo veggo lo esemplo in Vinegia; né mi pare che si abbi a fare coniettura da quelle poche elezione che si sono fatte in questi principi, perché ancora ogni cosa è piena di appetiti vani, di sospetti e di confusione, umori che si purgheranno in brieve tempo; e fatta questa digestione, io ho speranza che le elezione del consiglio, massime negli offici piú importanti, saranno assai ragionevoli.

Bernardo. Potrebbe forse essere vero quello che tu di’, se questo modo delle piú fave durassi, ma che sicurtá hai tu che gli abbi a durare? Io per me credo che se le elezione si andranno limando come sarebbe ragionevole, che tutti questi che amano la larghezza, e’ quali sono grandissima parte, saranno contrari a questo modo; e se e’ si abbatterá che ne’ signori o ne’ collegi siano una volta tanti di loro che possino conducere ne’ luoghi larghi una provisione di levare le piú fave, lo faranno subito e si vincerá. E se e’ non potranno per questa via, non mancherá loro al peggio el non vincere in consiglio grande né offici né provisione, tanto che sará necessario che e’ migliori cedino a’ piú; massime che con questo modo non bisognerá che e’ duo terzi siano d’acordo, ma basterá si ristringhino tanti, che impedischino el vincere. Ed a questo se voi avessi pensato da principio si sarebbe forse potuto fare qualche rimedio.

Soderini. Ed a questo ed a molte altre cose che non si possono cognoscere ne’ principi, si potrá col tempo pigliare qualche buono ordine. Non solo ne’ governi, ma nelle arti, nelle scienzie ed in ogni altra cosa, non furono mai perfetti e’ principi, ma si va aggiugnendo alla giornata secondo che insegna la esperienzia.

Bernardo. Io non voglio entrare per ora in questo ragionamento, perché mi pare essere certo che in altro luogo accadrá molto piú in proposito; ma ritornando dove noi eravamo, mi pare si possa comprendere assai chiaro che manco errava lo stato de’ Medici circa la sufficienzia e bontá di chi aveva gli offici, che non fará el popolo; gli errori del quale procedono in questo da ignoranzia, e però sono indistinti e spessi quante volte el caso gli porta; ma quegli de’ Medici erano fatti in pruova, anzi forse quasi sempre per necessitá, però non erano generali, ma quanto el bisogno o e’ fini loro gli ricercavano.

Vegnamo ora alla altra considerazione della nobilitá e condizione delle case; in che io mi ricordo che da’ Medici furono abilitati molti allo stato che erano inabili. Credo che el popolo ne abiliterá anche lui, e forse non minore numero; vedete che giá si è ordinato che ogni anno ne vada tanti a partito in consiglio, e che quegli che vincono restino abili; e forse non è fuora del ragionevole, perché alle case ed alle nobilitá interviene come alie cittá ed alle altre cose del mondo, che invecchiano, si diminuiscono e si spengono per vari accidenti, ed in luogo di quelle che mancono bisogna che sempre surgelino e si rinnovino delle altre. Ricordomi ancora che delle case che sono abili ne furono esaltate da’ Medici piú che non si conveniva al grado loro, dico per favore, non per virtú, perché per virtú non sarebbe stato errore; ma credo che el medesimo interverrá molto piú dal consiglio, perché loro, e Lorenzo massime, per potere onorare e’ cittadini ed intratenergli diversamente secondo e’ gradi loro, si ingegnava di conservare in riputazione le dignitá ed offici principali; conciosiaché quanto erano piú stimati, tanto piú beneficio pareva ricevere a chi gli aveva. Ma el popolo che non distingue, e non ha questi obietti, confunderá tutte le distinzione che erano da l’uno officio, e da l’uno scaglione di onore a l’altro; in modo che se nel governo di una cittá è errore el non fare qualche distinzione, credo che errerá piú el consiglio; pure voglio gli mettiano del pari.

Resta di questo primo membro l’ultima parte, cioè dello essere esclusa come per legge una parte della cittá, ed in questo io confesso liberamente che è la veritá quello che disse Piero Capponi: e’ Medici ed ogni stato stretto escludono di necessitá le case che gli sono state mimiche, e come lo stato va per successione, cosí si conserva negli eredi la memoria di queste inimicizie e sospetti. Cosa certo detestabilissima, né io la scuso; ma affermo che in uno governo populare non interverrá cosi, e che quando bene qualche volta le fave si recassino a urtare uno cittadino, o forse, per qualche sedizione che nascessi, una parte della cittá, nondimanco, non che sia per andare in successione, ma rare volte si allungherá molto tempo, se giá per causa onesta o urgente non si facessi per legge, come a’ tempi antichi furono fatti dal popolo, gli ordinamenti della giustizia contro alle famiglie.

Guicciardini. Questo primo membro resta, a giudicio mio, molto bene discusso, e secondo che voi avete conchiuso, in quello che è disonorevole, cioè in abilitare gli uomini nuovi e nobilitare le case basse, saranno quasi pari gli errori dell’uno e dell’altro governo; in quello che è ingiusto, cioè in escludere una parte della cittá, erravano sanza comparazione piú e’ Medici; nello inutile, cioè in dare a uomini non sufficienti e non buoni, errerá piú el popolo. Ma vorrei intendere ora quale errore di questi dua sia piú importante, cioè o el dare a chi non merita, o escludere e per successione una parte che merita.

Bernardo. Se e’ non si trattassi di altro interesse che del privato, biasimerei piú e’ Medici perché el tórre è odioso, el dare è favorevole, e però credo che si debba manco imputare chi dá a chi non conviene, che chi toglie a chi merita. Ma essendo interessi publici, dico che se parlassimo da filosofi, che ho sempre sentito che in queste discussioni propongono l’onesto a l’utile, saranno piú biasimati e’ Medici, perché erra piú chi si discosta dalla onestá, che chi si discosta dalla utilitá; pure secondo le considerazioni con che ordinariamente si governano le cittá, sará forse maggiore errore quello del popolo, perché el dare amministrazione a chi non merita è danno publico, atteso che ne nascono e’ travagli e la mina qualche volta delli stati; ma lo escludere chi merita, quando nondimeno el governo resti in mano di chi è atto, è piú presto danno di chi è escluso che della republica; ed ognuno sa che e’ rispetti publichi si hanno a preporre a’ privati.

Capponi. Pare pure che anche sia danno del publico, perché la parte esclusa resterá mal contenta, e sempre macchinerá novitá.

Bernardo. Né anche restano bene contenti e’ valentuomini, quando veggono che quello che si converrebbe a loro è dato a uno che non lo merita, e però si volgono alle sedizioni ed alterazione dello stato; e questo si può fare molto piú facilmente in uno governo di popolo che in uno simile a quello de’ Medici, e piú è da fuggire el tenere mal contenti coloro che vagliono, che gli altri.

Guicciardini. Ma che direte voi circa le gravezze?

Bernardo. Dirò la prima cosa, che non mi alleghiate lo esemplo de’ tempi primi di Cosimo, né in questo né in male alcuno che si facessi allora, perché el parlare nostro nacque dal dire che io non credevo che questa mutazione fussi utile, in che avevo rispetto a questi ultimi anni di Lorenzo e poi di Piero, e non a’ principi di Cosimo, che furono come sono tutti gli altri stati quando si fundano, che sono pieni di rigore e di mali esempli; perché chi fonda uno stato stretto, bisogna che lo assicuri e lo stabilisca e sbarbi gli ostacoli con piú violenzia e con manco onestá che non è necessario usare nel conservargli, poi che sono indiritti e stabiliti. Ed in questo merita forse qualche escusazione Cosimo che a assicurarsi degli inimici e sospetti usò le gravezze, in luogo de’ pugnali che communemente suole usare chi ha simili reggimenti nelle mani. Quanto alle gravezze adunche de’ tempi sequenti, ripiglierò quel fondamento che mi converrá replicare oggi piú volte, cioè che gli errori che fa lo stato stretto per malizia o per necessitá, e’ medesimi fará spesso per ignoranzia el vivere populare; ed ogni volta che gli errori siano del pari, tanto nuoce quello che si fa per una di queste cause, quanto quello che si fa per l’altra, anzi è da avere piú paura della ignoranzia, perché, come ho detto di sopra, la non ha né misura né regola. Io vi confesso che nelle gravezze e’ cittadini dello stato erano riguardati, e che a comparazione loro erano gravati gli altri, ed anche talvolta per altre cause piú particulari qualcuno era male trattato; ma io vi dico che anche el popolo fará el medesimo, perché al porre le gravezze eleggerá spesso persone che sapranno poco di questo come delle altre cose. E dove le gravezze, quando non sono fondate in su’ beni sodi, arebbono bisogno di grande prudenzia e di uomini che cognoscessino bene la cittá e le condizione de’ cittadini, ed anche poi arebbono fatica a non fare di molti errori, pensate quanti ne faranno quando sará in mano di chi sappia poco; sanza che anche loro aranno de’ parenti e degli amici da riguardare, e di quegli a chi voranno male, in modo che e per private passioni peccheranno qualche poco, e per ignoranzia erreranno assai. Vi dico bene che quanto a’ modi delle gravezze, saranno communemente piú ingiusti e peggiori quegli del popolo, perché la natura sua è caricare sempre adosso a chi ha piú condizione; e perché sono piú numero quegli che ne hanno manco, riesce loro facilmente. E però ordinariamente propongono modi che battono oltro(’) al dovere e’ ricchi, in modo che gli rovinano; che è cosa dannosa alla cittá, perché si debbe conservare ognuno nel grado suo, ed e’ ricchi si hanno a acarezzare non a distruggere, perché in ogni tempo fanno onore alla patria ed utile a’ poveri, e quando è bisogno, sovvengono el publico; e Lorenzo ed e’ Medici avevano rispetto grande a fare che e’ modi fussino piú vivi e manco ingiusti che si potessi. E quanto a ordinare una gravezza che si ponga dalla legge, come disse Piero Capponi, io credo che non sarebbe piaciuta a’ Medici perché volevano in mano el bastone delle gravezze; ma perché ne ho udito parlare mille volte vi dico, se io non mi inganno, che sará grandissima fatica a metterla in uso, e le ragioni vi saprei dire, ma si allungherebbe troppo fuori di bisogno. (1) Cosi, corretto dall’A. su oltre.

Capponi. Si torna pure nel medesimo; se a tempo del popolo si porranno le gravezze ingiustamente, non sará sempre contro a’ medesimi, ma come girerá la sorte, secondo la ignoranzia o passione di chi ará a porle; però sará minore male e manco ingiusto quello che toccherá quando a uno e quando a un altro, che quello che sempre stará fermo in uno luogo medesimo.

Bernardo. ...3 pure nelle gravezze come uno è segnato male una volta, è piú facile lo andare di male in peggio, che ricorreggere lo errore; sanza ch’io non sono bene certo che anche a questo consiglio non sia con le gravezze battuta fermamente piú una parte che un’altra; perché chi assicura, verbigjrazia, noi altri tenuti amici de’ Medici, contro a’ quali è ora l’odio, la invidia ed el sospetto, che non siamo caricati disonestamente? E nondimeno sarebbe fuora di ogni giustizia, massime non faccendo distinzione da quegli che col favore dello stato non si sono valuti disonestamente e non hanno in cosa alcuna soprafatto gli altri, a quegli che si sono portati altrimenti; perché se questi ultimi non sono puniti per altra via de’ peccati loro, può parere loro manco strano el sentire qualche cosa per questa; ma che ordinariamente abbia a essere offeso uno cittadino che non abbi fatto altro errore che di avere avuto favore da’ Medici, è cosa molto strana; anzi piú tosto si doverrebbe cercare di conservarlo, perché maggiore certezza non si può avere che in uno governo libero e sottoposto alle leggi, sia per vivere sempre bene, che vedere che abbi fatto el medesimo in uno stato stretto, dove aveva caldo e licenzia. Di poi io mi persuado che nelle cittá bene ordinate si debbe fare ogni diligenzia possibile perché non le si riduchino sotto uno governo tirannico; ma non mi pare giá che se la mala fortuna loro o la disposizione de’ cieli ha voluto che surga uno tiranno, che si debba dare nota di cattivo cittadino a quelli che, poi che el tiranno sanza opera loro è introdotto, si sforzano, non mutando costumi o non usando male la autoritá che avessino, a avere luogo nello stato stretto; e massime quegli che sono di qualche condizione, perché se vogliono giucare al largo vengano presto a sospetto di essere inimici dello stato; e se questo non nocessi loro in altro che in tòrgli gli onori, gli chiamerei ambiziosi se cercassino guadagnargli con lo accostarsi allo stato.

Ma impossibile è che uno uomo qualificato possa riposare in una cittá dove el capo dello stato stretto non lo reputa amico, né può difendersene col non travagliarsi o col non lo offendere, perché a ogni ora nascono infiniti casi che di necessitá bisogna capitargli alle mani, ed avendo lo animo alieno da te, sei trattato di sorte, che meglio sarebbe abbandonare la patria che vivere cosi. Però non veggo che si possa biasimare chi cerca conservare le facultá ed el grado suo, intratenendosi con lo stato stretto, poi che altro rimedio non vi è; e se nel resto vive modestamente ed è sempre uomo da bene, non solo per questo non viene a offendere la patria, ma piú presto gli fa beneficio, perché trovandosi in qualche fede con chi regge, gli viene occasione co’ consigli e con le opere di favorire molti beni e disfavorire molti mali;,e nessuna cosa potrebbe fare peggio alla cittá, che el non essere intorno al tiranno altro che uomini tristi. E questa è forse la ragione che, secondo che m’ha raccontato messer Marsilio, diceva el suo Platone che quando le cittá sono bene ordinate e bene governate, gli uomini buoni debbono fuggire quanto possono lo intromettersi nel governo e nelle faccende publiche; ma quando veggono essere pericolo che in luogo loro piglino autoritá persone triste e che siano per nuocere alle cittá, errano grandemente se non si ingeriscono alle faccende e non fanno el possibile di trovarsi ancora loro a governare.

Se adunche io e gli altri che sono vivuti col caldo della casa de’ Medici modestamente e nettamente, sareno in questo nuovo vivere caricati con le gravezze, ecco che el vostro consiglio ará in questo articolo, oltre agli errori che io ho detto di sopra che causerá la ignoranzia, questo altro di piú della passione e malignitá; nondimeno, perché io non voglio credere el male se io non lo veggo, e massime in modo che abbia a durare, non voglio fare fondamento in questo ultimo; basta avere mostro che la ignoranzia sola fará, in questo caso delle gravezze, molti mali.

Guicciardini. In ogni modo ci è da fare; ma non vi paia grave dirci la opinione vostra circa le gravezze che pone la legge; né bisogna avere paura che si consumi troppo tempo, poi che non si può spendere meglio che in questi ragionamenti.

Bernardo. Io ve lo dirò brevemente. A volere che la gravezza sia posta dalla legge, bisogna che sia fondata o in su la entrata delle possessioni, e questa non basta a’ bisogni, perché a Firenze el minore membro che sia di ricchezza sono le possessioni; o ha a essere fondata in sugli esercizi ed in sul mobile, e questo, parte è impossibile, perché e’ danari si girano in molti modi che non si vede, parte è difficile e disonesto: difficile, perché sarebbe troppo faticoso avere a tenere conto di tutti e’ contratti, mercati e cambi che si fanno; ed essendo spesso le faccende fondate in sul credito, è disonesto avere a publicare lo stato vero de’ mercatanti.

Se adunche non ci è altro che la entrata delle possessioni dove la legge possa fermare el piede, bisogna che per supplemento la si fondi in su lo augumentare le gabelle o’ pregi della farina e del sale. E questo, se voi considerate bene tutti gli altri luoghi di Italia, ha ora piú che la parte sua, e volergli dare nuovo peso sarebbe ingiusto, ed uno fare gridare tanto el popolo minuto, che non si troverrebbe facilmente chi volessi esserne autore e tirarsi adosso carico si grande, e genererebbe si mala disposizione, che io non so se a qualche tempo la fussi forse troppo. Però se si potessi trovare uno modo che fussi ragionevole, sarebbe molto utile, perché assicurerebbe gli uomini dal potere essere battuti dalle gravezze, che è una delle importanti cose che abbia la nostra cittá; ma perché sono cose che meglio si dicono che non si fanno, se questo modo non si è trovato agli stati passati, credo che non si troverrá anche a tempo del consiglio grande.

Ma passiamo, se vi piace, al primo membro della distinzione di Piero Capponi, cioè alla osservazione della giustizia, che è la piú importante cosa che sia, perché le libertá ed e’ governi buoni furono ordinati principalmente per conservare questo, volendo che ognuno fussi sicuro di non potere essere oppresso, cosí nella persona come nelle facultá; e però mi ha detto messer Marsilio, da chi io ho pure imparato alcuna volta qualche cosa, che Platone, quando fece quello libro che parla delle republiche, lo intitolò dalla giustizia, volendo mostrare che era el fine principale che si aveva a cercare. Dunche gli errori che si fanno circa a questa, importono piú che tutti gli altri, perché offendono la parte piú sustanziale e, per dire cosi, la anima delle cittá.

In dua modi errono gli uomini, come io ho detto giá piú volte: o per ignoranzia o per malignitá; della ignoranzia avete inteso di sopra la opinione mia, dalla quale potete concludere che gli errori che nello amministrare giustizia possono nascere dalla ignoranzia, saranno piú spessi nel governo del popolo. Quanto alla malignitá, io vi dico che per natura tutti gli uomini sono inclinati al bene, né è nessuno a chi risulti interesse pari dal male come dal bene, che per natura non gli piaccia piú el bene; e se pure se ne truova qualcuno, che sono rarissimi, meritano esser chiamati piú presto bestie che uomini, poi che mancono di quella inclinazione che è naturale quasi a tutti gli uomini. Vero è che la natura umana è molto fragile, in modo che per leggiere occasione diverte dalla via diritta, e le cose che la fanno divertire, cioè le cupiditá e le passioni, sono tante ed in uno subietto debole come è la natura dello uomo hanno tanta forza, che se non fussi altro rimedio che quello che ciascuno fussi per fare da sé medesimo, pochissimi sono che non si corrompessino. E però è stato necessario a chi ha ordinato e’ governi pensare a’ modi di mantenere fermi gli uomini in quella prima inclinazione naturale; e per questo furono trovati e’ premi e le pene, e’ quali dove non sono o sono male ordinati, non vedrete mai alcuna forma buona di vivere civile; né sanza questo sprone e freno aspettate mai che gli uomini faccino troppo bene.

Dunche se noi vogliamo fare giudicio dove chi sará sopra alla giustizia studiosamente errerá piú, o a tempo de’ Medici o del populo, bisogna considerare dove alle opere loro saranno piú presenti e’ premi o le pene. Ed in questo, se io non mi inganno, ci è differenzia non piccola, perché uno ufficiale che si porti bene, spererá poco dal popolo, uno che si porti male ne temerá poco, non distinguendo, come ho detto, el popolo di sua natura, non pensando e non tenendo a mente; in modo che in capo del gioco ará cosí facilmente un altro officio chi si sará portato male nel primo, come chi si sará portato bene, massime se voi leverete questo modo delle piú fave, che per mia oppenione si leverá presto. Appresso, se uno ufficio fará uno torto, a chi si ará a ricorrere che vi provegga? Non ci sará rimedio alcuno, perché non ci sará chi abbia facultá di prò vedergli. Di poi molte volte, chi sará in ufficio ará forse buona mente, ma quando si ará a toccare persone di qualitá, ará rispetto a farlo, perché ne’ governi liberi l’uno cittadino riscontra spesso con l’altro, e non avendo uno capo che ti difenda dalle ingiurie, ognuno faccendo dispiacere a altri, dubita di quello che gli potrebbe spesso intervenire.

Queste cagioni cessavano assai a tempo di Lorenzo, perché tenendo lui diligente conto de’ portamenti degli uomini, era in luogo di premio el satisfargli, in luogo di pena lo essergli in cattivo concetto, vedendosi per effetto che con l’uno andavi innanzi, con l’altro restavi indrieto; e però ognuno aveva grandissimo rispetto a non mancare del debito suo, ed era questo maggiore freno che non sará quello né del consiglio né di una legge. Cosí se pure eri gravato, avevi el rimedio presente: quivi era el ricorso, quivi la appellazione; e quando per uno magistrato sí faceva torto a uno, gli erano spesso tirati gli orecchi di sorte che si ritirava nel cammino diritto. Ed a gastigare uno gli uomini erano piú animosi, perché si temeva piú el non satisfare a lui che el dispiacere a qualunche cittadino, e sapevi che aresti chi ti difenderebbe, quando per quella cagione ti fussi voluto fare torto. Se adunche e’ magistrati aranno minore stimulo e manco freno, chi dubita che si fará manco ragione? Perché e’ parenti, gli amici, e’ presenti e gli altri mezzi piegheranno chi ara a giudicare; né so se sareno piú sicuri da questi giudici forestieri che sono sopra el civile, che non si lascino maneggiare da’ prieghi degli amici e dalle corruttele, che non facevano allora che gli era dato diligente e particulare ricordo che tenessino la bilancia pari. E appresso a questi è forse vero che a tempo di Piero si facessi a instanzia sua qualche torto; ma se fu, fu rarissime volte, e so che voi non lo negate; ma non giá, forse mai, a tempo di Lorenzo; né aveva cancelliere o ministro che avessi avuto ardire di fare loro una raccommandazione, e credo che anche e’ cittadini dello stato ne facessino poche; e se ne facevano erano di poco momento, perché e’ giudici tenevano piú conto de’ ricordi del capo che delle instanzie d’altri. Cosí ne’ sei e nelli altri uffici andavano le cose civili nette dal canto dello stato, e la diligenzia che si faceva negli squittiní della mercatantia non veddi mai che avessi questo fine, né la riputazione mancò loro per questa causa, perché si sa che era mancata molto innanzi ed imbastardito quello giudicio, come fanno ogni di tutte le cose del mondo. Né e’ cancellieri che vi si tenevano a proposito loro, era a altro effetto che per pascere gli amici e forse per sapere gli andamenti e modi di ognuno, cognoscere le qualitá e passione de’ cittadini, per valersi di questa notizia; perché si stava a bottega a questo mestiero e si teneva conto e diligenzia di ogni cosa.

Queste ragioni servono cosí al criminale come al civile; né voglio però negare che è vero che nel criminale, cosí in Firenze come di fuora, bisognava avere spesso rispetto agli amici dello stato e dependenti da loro, pure o poco o assai, si puniva quasi sempre ogni delitto; ed a conservare bene la giustizia basterebbe assai che e’ delitti, da quegli in fuora che sono molto atroci, fussino puniti a dodici soldi per lira, pure che fussino puniti tutti. E’ casi scandolosi o di malo esemplo si gastigavano; ed in quegli a chi si aveva rispetto, si usava pure qualche destrezza di non lasciare disordinare le cose, e sempre era parte di pena sapere di avere offeso la mente di Lorenzo o di essere in cattivo concetto appresso a lui. In somma io non nego che la giustizia criminale sarebbe potuta andare molto piú severa e molto piú universale che la non andava, ma dico che e’ medesimi disordini e forse maggiori saranno nel governo populare. La ignoranzia, la timiditá, e’ parentadi, le amicizie, e’ rispetti, e’ presenti molte volte e le corruttele ne saranno cagione; alle quali cose gli uomini si inclineranno spesso, né ci sará chi gli ritiri, o per riverenzia di chi se ne astenghino. E’ governi populari in qualche impeto sono piú presto furiosi o bestiali che severi; che è quando giudicano a sangue caldo, massime in sulle imputazione di machinare contro allo stato; ed allora è pericoloso che non faccino qualche ingiustizia e stravaganzia grande, spezialmente contro agli uomini potenti e di autoritá, che spesso per sospetti vani gli rovinano. Ma per l’ordinario sono facili e dissoluti, perché gli uomini hanno e’ rispetti detti di sopra, né toccando la cura delle cose particolarmente piú a uno che a un altro, non è chi ne tenga conto, ma ognuno lascia andare l’acqua alla china, e chi si truova in magistrato, avendo a uscirne presto, si va piú volentieri temporeggiando che ingolfando nelle cose.

Credo bene che la giustizia andrá meglio ordinata per el dominio, perché in quello cesseranno in gran parte le ragioni che noi abbiano considerato di sopra; ma dubito in Firenze del contrario, e massime contro a quegli che sono di piú parentado e di piú qualitá. E questo sarebbe disordine di piú importanza, essendo la cittá el capo principale, e perché le autoritá che si pigliano e’ maggiori partoriscono discordie tra loro medesimi, disperano e’ minori ed in effetto rovinano le republiche; e di questo non si aveva a dubitare a tempo de’ Medici, perché uno stato simile è pure troppo presto a ovviare a simili inconvenienti. È adunche vero che a quello tempo non era la giustizia ordinata bene come si converrebbe in uno vivere retto civile, pure io non veggo le cagioni da sperare che questo la abbia a avere migliore; e se bene nasce da diverse fonti, basta che gli effetti siano e’ medesimi, anzi piú pericolosi a partorire nel governo populare maggiori disordini, perché non è presto ed abile a rimediargli, come si fa dove le cose dependono da uno o da pochi.

Sotto questo membro mi pare che caggia molto bene la considerazione delle legge; non dico delle legge che si fanno contra le violenzie e gli inganni, perché sotto le cose criminali vengono discusse abastanza, ma di quelle che si fanno per riformazione, per ornamento delle cittá, per limitare le spese superflue e per inducere buoni costumi e modo di vivere civile; nel quale membro non si può negare che meglio provede e meglio e con piú facilitá fa osservare uno governo stretto che uno largo. E la ragione è manifesta, perché chi ha lo stato non ha interesse particulare di farle piú a uno modo che a un altro, anzi gli torna a proposito che le cittá e le facilitá degli uomini siano bene ordinate e che le ricchezze si mantenghino, gli è onore che le cose publiche paino intese e governate bene, e gli dá grazia e riputazione; però ha causa di desiderare che le si faccino bene e si osservino. E presuposto che abbia questo desiderio, come è da credere, lo sa fare meglio, perché intende piú che una moltitudine: piacendo a lui, si fanno; volendo lui, si osservano; che non interviene in uno vivere largo, dove e’ pareri degli uomini sono vari, né concorrono facilmente nella medesima opinione; poi nel farle osservare ci sono gli impedimenti detti di sopra, cioè e’ rispetti e la negligenzia.

Ricordatevi delle legge degli ornamenti e delle spese, fatte quando era gonfaloniere di giustizia messer Luigi Guicciardini, quanto Lorenzo fu caldo a ordinarle ed a farle osservare; però furono bene intese e distinte, e di poi osservate quanto legge che si facessi mai in questa cittá; nonostante che simili legge difficilmente si mantengono, perché nel farle osservare si offende chi è condannato, ed el non le fare osservare è con poco carico, perché non si offende direttamente alcuno, ed el male che ne risulta non viene evidentemente in pregiudicio del terzo, ma in consequenzia e con uno certo esemplo che non muove alcuno a querelarsi. E però credo certo che in uno vivere largo non si sarebbono inai osservate tanto tempo, perché operò piú che la pena, la riverenzia di Lorenzo e lo esemplo suo, che mi ricordo che mai volle comportare che le figliuole portassino drappi di grana ancora che permessi e che ognuno li portava, solo perché non si dessi materia di credere che fussino drappi chermisi, che erano proibiti. Restami, se voi non volete dire altro, parlare di quella parte che spetta alla conservazione ed augumento del dominio.

Capponi. Per ora non voglio dire altro, né interrompervi.

Soderini. E1 medesimo dico io, perché alla fine potreno riandare quello che ci occorressi; però seguitate el ragionamento.

Bernardo. Se voi fussi cosí capaci di quello che io ho detto insino a ora, come io mi persuado che voi resterete di quello che io dirò in questa ultima parte, noi saremo troppo bene d’acordo, perché a me non pare che ci sia dubio che altrimenti era atto a conservare ed accrescere el dominio lo stato de’ Medici, che non sará questo del popolo. La conservazione ed augumento del dominio depende dalle cose di fuora, cioè dagli andamenti degli altri potentati, e’ quali continuamente pensano di ampliarsi e di usurpare quello di altri, e chi non è in grado da sperare questo, fa tutto el possibile per conservare quello che ha; e per diffondersi dalie macchinazioni de’ primi e vincere la vigilanzia de’ secondi, è necessaria una diligenzia ed industria incredibile, e bisogna farlo con consiglio e con forze, le quali dua cose erano molto piú vive e piú pronte nello stato de’ Medici, che non saranno nel governo di una moltitudine. Perché le cose di questa sorte non hanno regola certa né corso determinato, anzi hanno ogni di variazione secondo gli andamenti del mondo, e le deliberazioni che se ne hanno a fare, si hanno quasi sempre a fondare in su le conietture, e da uno piccolo moto dependono el piú delle volte importanze di grandissime cose, e da principi che a pena paiano considerabili nascono spesso effetti ponderosissimi. Però è necessario che chi governa gli stati sia bene prudente, vigili attentissimamente ogni minimo accidente, e pesato bene tutto quello che ne possi succedere, si ingegni sopra tutto di ovviare a’ principi ed escludere quanto si può la potestá del caso e della fortuna.

Questo è proprio di uno governo dove la autoritá è in uno solo o in pochi, perché hanno el tempo, hanno la diligenzia, hanno la mente volta tutta a questi pensieri, e quando cognoscono el bisogno, hanno facultá di provedere secondo la natura delle cose; che tutto è alieno da uno governo di moltitudine, perché e’ molti non pensono, non attendono, non veggono e non cognoscono se non quando le cose sono ridotte in luogo che sono manifeste a ognuno, ed allora quello che da principio si sarebbe proveduto sicuramente e con poca fatica e spesa, non si può poi ricorreggere se non con grandissime difficultá e pericoli, e con spese intollerabili. Né basta che nella cittá sia qualche savio che lo cognosca a buona ora, perché come questi propongono e’ rimedi, e’ piú, che non sono capaci della ragione, gli gridano drieto ed interpretando che lo faccino per ambizione o per qualche altro appetito particulare, non solo impediscono la provisione per allora, ma sono causa che a un altro tempo questi medesimi, vedendosi delusi ed in sospetto, non ardiscono mostrare un altro periculo. La moltitudine ha sempre questa opinione, che gli uomini eccellenti non si contentino del vivere libero, e però che di continuo desiderino guerre e travagli per avere occasione di soffocare la libertá, o almanco perché la cittá abbia bisogno di adoperargli piú che non sono adoperati nel tempo della pace. Però la autoritá di questi tali non muove, perché non hanno fede; le ragione loro non persuadono, perché non sono intese. Per questa fallacia sono rovinate molte republiche, moltissime hanno perduto opportunitá bellissime di accrescere el dominio, infinite si sono invilluppate in grandissime spese e pericoli.

A’ tempi de’ padri nostri, volendo Filippo Maria Visconte ricuperare lo stato vecchio della casa de’ Visconti che per la morte di Gian Galeazzo suo padre si era dissipato in molte parte, cercò di adormentare la nostra republica dimandando pace onorevolissima per noi e tanto sicura quanto si poteva desiderare se fussi durata. Fu cognosciuto da Nicolò da Lizzano e da qualche altro savio questo inganno, e che egli non desiderava pace ed amicizia con noi, ma di levarsi con questo modo lo ostaculo nostro per potere stabilire le cose sua di Lombardia ed acquistare Genova, e poi attendere a opprimerci; ed ancora che nelle pratiche e ne’ consigli mostrassino questo pericolo, nondimanco el nome della pace piacque tanto a’ mercatanti ed al popolo, che rifiutati e’ consigli de’ savi accettorono el partito proposto. E dove sicuramente e con poca spesa arebbono potuto interrompere lo augumento del suo inimico, bisognò che poi entrassino in lunghissime e pericolosissime guerre, nelle quali si consumò tesoro infinito e si messe assai della dignitá della cittá; perché la fu constretta collegarsi co’ viniziani con le legge che parvono a loro, né si potette assicurare da quello pericolo sanza farne nascere un altro, cioè fare grandi e’ viniziani che sono sempre poi stati formidolosi allo stato nostro.

Morto Filippo predetto, e’ viniziani pensorono di usurpare el ducato di Milano, che non era altro che la via di insignorirsi presto di tutta Italia; e questo pericolo fu nel principio si poco considerato da’ nostri cittadini, che se la cittá fussi stata in uno governo di molti, è certissimo che non vi si provedeva. Ma la grandezza di Cosimo fu cagione che noi ci ristrignemo col conte Francesco e lo aiutamo di sorte che diventò duca di Milano; il che se non si fussi fatto, sarebbe, giá sono molti anni, di altri quello che per grazia di Dio e per la autoritá e prudenzia di Cosimo è ancora nostro. Di queste cose sono infiniti gli esempli nelle istorie moderne e credo anche nelle antiche, e’ quali riandare sarebbe superfluo.

Né negherò per questo che anche uno governo stretto non faccia qualche volta degli errori, ma sanza comparazione minori e piú di rado; perché oltre a quello che è detto, che piú vigila, piú intende, piú cognosce uno o pochi che tanti, ci si aggiugne che el provedere a’ pericoli, lo ovviare a’ principi non si fa communemente sanza qualche spesa, sanza qualche fastidio, sanza qualche difficultá; cose che dispiaccino a’ populi, e per la dolcezza di starsi in odo, di non travagliare, di non spendere, lasciano scorrere le cose in luogo che per una oncia di quello che hanno fuggito bisogna che a dispetto loro ne portino cento libre. Ci si aggiugne che uno governo largo non ha quella facultá e quello mezzo d’intendere e’ segreti e gli aggiramenti degli altri potentati, che uno governo stretto; perché oltre a non usare la medesima diligenzia, chi sono quegli che voghilo occultamente rivelare uno segreto in luogo donde oltre al non aspettarne premio, sia prima publicato che detto? Perché el manifestarlo a uno o dua cittadini non gli serve, dirlo nelle pratiche, ne’ consigli è come bandirlo; però non solo gli uomini privati che per speranza di premi o per altri suoi fini scoprirebbono qualche cosa, non ardiscono di farlo, ma e’ principi ancora parlano con gran riservo, perché non dá loro el cuore tenere con una cittá che sí governi dal popolo, una pratica che lui voglia che sia occulta. E questo caso del segreto offende doppiamente, perché non sapendo e’ disegni degli altri non vi puoi provedere, e sapendosi e’ tua, ti sono interrotti innanzi al tempo. Chi sará in uno esercito inimico, in una terra che tu vuoi acquistare, che ardisca di tenere teco uno trattato? E se pure si troverá de’ pazzi, rare volte si terranno coperti, poi che bisogna che ogni deliberazione passi per mano di molti; e nondimanco voi sapete che con questi mezzi si conducono grandissime cose.

Aggiugnesi che in molti casi la prestezza è necessaria, e questa in simili stati non si può sperare: presenterassi una occasione, ma ara si poca vita, che innanzi che la pratica sia ragunata, che sia risoluta, che sia indirizzata, sará spenta. Di poi el piú delle volte non si può fare acquisto, non si possono fuggire e’ pericoli, senza la coniunzione di qualche altro potentato, e questa non si ha se non quanto muovono gli interessi communi, e’ quali e’ principi savi misurano con quello che corre giornalmente, e col discorso della condizione di tutte le cose e di molti anni insieme. Però le coniunzione e gli appoggi che sono durati qualche tempo, sono di molto piú frutto che quegli che si fanno in sul bisogno proprio; perché, oltre che tra l’uno e l’altro è maggiore fede, vi sono ancora le cose meglio discusse, meglio indirizzate, e disposte in modo da potersi in un tratto mettere in atto; dove chi ha a fare di nuovo in uno subito, non ha mai a tempo in ordine quello che bisogna. Queste coniunzione continuate si fanno difficilmente con uno popolo, perché non essendo sempre e’ medesimi uomini che governono, e però potendosi variare e’ pareri ed e’ fini secondo la diversitá delle persone, uno principe che non vede potere fare fondamento fermo con questi modi di governo, né sa con chi si avere a intendere o stabilire, non vi pone speranza né si ristrigne teco, disegnando che ne’ bisogni o nelle occasioni tue tu ti vaglia si poco di lui come lui spera potersi valere di te.

Dalla grandezza de’ viniziani e da molti accidenti che arebbono potuto travagliare Italia, la difese molti anni la intelligenzia stretta che si fece tra el re di Napoli, lo stato di Milano e fiorentini, la quale era fondata in poche teste; cosi volessi Dio che la mala fortuna di Italia e la ambizione del signor Lodovico e la alterezza del re Alfonso e forse la poca prudenzia di Piero de’ Medici non la avessi rotta, che non saremo in preda di barbari. Ma dico che se tra questi tre potentati fussi stato uno governo populare, non si sarebbe fatta mai questa unione, o si sarebbe disunita molti anni sono. Né crediate che io mi affatichi in dimostrare che e’ populi non sentino e’ principi ed origine delle cose, dalle quali nascono spesso inclinazioni importantissime, perché io presuponga che scoperte che le sono, si governino poi bene. Anzi so che voi mi confesserete che tutte le cose che passano per deliberazione di molti, oltre che non hanno el segreto e prestezza debita che in ogni tempo è necessaria, hanno anche spesso seco la irresoluzione, perché molte volte non sono d’acordo a deliberare e quello che pare a l’uno non pare a l’altro, in modo che o le resoluzione vanno piú lunghe che el bisogno, o riescono confuse; non solo dove hanno a convenire molti, ma se mettete insieme pure otto o dieci savi, nasce qualche volta tra loro tale varietá che saranno giudicati pazzi. Se ne vede ogni di lo esemplo de’ medici, che messine a qualche cura piú che uno, ancor che siano eccellenti, vengono facilmente in controversia e molte volte con le discordie loro amazzano lo infermo.

Dove hanno a deliberare molti è el pericolo della corruttela, perché essendo uomini privati e che non hanno el caso commune per suo proprio, possono essere corrotti dalle promesse e doni de’ principi; ed io ho udito dire piú volte che el padre di Alessandro Magno fondò lo stato suo non manco col corrompere e’ capi delle cittá libere di Grecia, che con le arme; e questo non si ha a temere da uno, perché essendo padrone di quello stato, non si lascerá mai comperare per dare via o per disordinare quello che reputa suo. Però vi dico che non solo ne’ principi delle cose, ma ancora in tutti e’ progressi insino alla fine, non sono salde le deliberazioni de’ governi populari; e questo apparisce piú ne’ maneggi delle guerre che hanno bisogno di piú prudenzia, e nelle quali doppo gli errori fatti, si truova piú facilmente la penitenzia che la correzione. Sanza che, molto manco si possano confidare de’ capitani e de’ soldati, che possa fare uno solo, perché tra’ soldati mercennari ed e’ populi è una inimicizia quasi naturale: questi se ne servono nella guerra, perché non possono fare altro; fatta la pace non gli remunerano, anzi gli scacciano e gli perseguitano, pure che possino farlo; quegli altri, cognoscendo non servire a nessuno, o pensano tenere la guerra lunga per cavare piú lungamente profitto dalla sua necessitá, o voltono lo animo a gratificarsi col principe suo inimico; o almanco gli servono freddamente, perché non avendo amore e non sperando da loro, non è possibile gli possino servire con caldezza. Però a tempo de’ padri nostri, sempre e’ cittadini savi consigliavano che e’ non si pigliassino le guerre se non per necessitá; el quale consiglio io lodo ma non basta, perché molte volte è necessario pigliare le guerre, e molte volte a chi avessi modo di maneggiarle bene si appresenta occasione tale che sarebbe molto utile l’averle prese. Dunche vedete che difetto sia, e quanto per infiniti rispetti che da per voi potete considerare, resti debole uno governo che bisogni consigliarlo a guardarsi dalle guerre, le quali molte volte sarebbono utile, molte volte sono necessarie.

In somma, per ritornare al parlare di prima, el governo di molti manca assai nelle cose importanti, di segreto, di prestezza, e quello che è peggio di resoluzione. Però vediano che spesso una republica nelle guerre degli altri sta neutrale, cosa che molte volte è pestifera, e sará massime a’ tempi che si apparecchiano, dove per questa passata de’ franzesi in Italia, le cose verranno in mano di piú potenti, e con arme piú vive che non erano per el passato. Quando la guerra è tra dua principi che non sono si grandi che tu, o per le forze tua proprie o per avere buoni appoggi, abbi da temere che uno di loro che vinca ti possa opprimere, allora la neutralitá è buona, perché non solo durante la guerra loro tu manchi de’ travagli e spese che ti porterebbe lo entrarvi, ma ancora el consumarsi gli altri fra loro, fa in uno certo modo te piú potente e ti dá qualche volta occasione di ampliare el tuo dominio mediante la debolezza degli altri. Con questa via e’ viniziani, stando a vedere le discordie de’ vicini, hanno accresciuto spesso la potenzia loro; ed in loro la neutralitá è stata prudente, perché erano si potenti che la vittoria di uno di quelli che guerreggiava non era per mettergli in pericolo. Ma quando tra dua che faccino guerra, qualunche sia vincitore abbi a restare piú potente di te, allora è mala la neutralitá, perché, vinca chi vuole, tu resti a discrezione e non ha obligo di riguardarti; dove se ti accostassi a uno, hai pure da sperare che vincendo lui tu non resterai distrutto.

Ed a questo errore di stare neutrale inclinerá molto piú uno governo populare che di uno solo, o per dire meglio, che non arebbe fatto quello de’ Medici; le ragióni sono manifeste: la dolcezza de l’ocio e della pace presente che accieca chi poco pensa a’ periculi futuri; el non volere e’ cittadini che si spenda, per paura che non si abbia a mettere mano alle sua borse; el lasciarsi ingannare da quelli che sono in guerra, perché almanco sempre uno di loro, cioè quello che si vede piú potente o che dubita che tu non sia inclinato piú a l’altro che a lui, parendogli fare guadagno assai della tua neutralitá, ti proporrá bastargli che tu sia neutrale, e che stando neutrale non si terrá offeso né arai a temere della vittoria sua. Ma piú spesso questo errore nasce da irresoluzione, perché le pratiche ed e’ consigli non si accordano: l’uno inclina a questa parte, l’altro a quella, o per corruttele, o per passioni o pure per diversitá de’ pareri, in modo che non si ristrignendo mai in una opinione tanti che prevaglino, non si fa deliberazione alcuna. E quello che è peggio nella neutralitá, ti stai neutrale non risolvendo però mai el volere stare neutrale; perché se tu pure da principio deliberassi la neutralitá e ne assicurassi o la capitolassi con quella parte che ti propone contentarsene, sarebbe minore errore, perché sarebbe uno modo di aderirsi, anzi in qualche caso sarebbe migliore partito. Ma non ti risolvendo dispiaci a ognuno, a quello ancora che dimanda la neutralitá, perché lo tieni sospeso e male satisfatto, e perdi la occasione di assicurarti di lui e di capituiare seco; tanto che se poi resta vincitore, ti ha per inimico, e gli hai donato anzi gettato via la neutralitá che lui voleva comperare da te.

Guicciardini. Sono pure degli altri casi che la neutralitá torna a proposito, e ne riferirei qualcuno, se questa discussione non fussi fuora del nostro ragionamento.

Bernardo. Non entriamo per ora in questo; la veritá è quanto io ho detto, ma ogni regola ha delle eccezioni, le quali nelle cose del mondo si insegnano piú con la discrezione che possino distinguersi abastanza, o che si truovino scritte in su’libri: bisogna siano distinte dal giudicio di chi considera le circunstanzie de’ casi Se bene qualche volta per varie cagioni particulari la neutralitá è buona ancora fuora de’ termini che io ho detto, nondimanco universalmente non è buona, e chi ha giudicio e considera in su che ragione è fondata questa conclusione, facilmente, quando e’ casi vengano, gli sa distinguere e risolvere bene. Per tutte queste ragioni e per molte altre che sarebbe troppo lungo a dire, sará el governo del popolo molto manco atto a conservare ed augumentare el dominio che non era quello de’ Medici. Né mi allegate in contrario lo esemplo de’ romani, che benché avessino el governo libero e largo, acquistorono tanto imperio; perché ancora che poco sia mia professione parlare di cose antiche, non avendo notizia se non per relazione di altri ed in pezzi, o per qualche libro fatto vulgare, che credo siano assai male translatatiTj a me non pare che el modo del governo di Roma fussi*cfi qualitá da fondare tanta grandezza; perché era composto in modo da partorire molte discordie e tumulti, tanto che se non avessi supplito la virtú delle arme, che fu tra loro vivissima ed ordinatissima, credo certo che non arebbono fatto progresso grande. E questa fece effetti non manco in comparazione a tempo de’ re, che facessi poi sotto la libertá; e dove si fa el fondamento in sulle arme proprie, massime eccellenti ed efficaci come erano le loro, si può intermettere quella vigilanzia e diligenzia sottile che è necessaria a chi si regge in su le pratiche ed aggiramenti. Né avevano allora e’ capi della cittá a durare fatica a persuadere al popolo che pigliassi una impresa nuova, o per ovviare a uno pericolo o per augumentare lo imperio, perché erano uomini militari, e che non sapevano vivere sanza guerra, che era la bottega donde cavavano ricchezze, onori e riputazione. Però non si può regolare secondo questi esempli chi non ha le cose con le condizione e qualitá che avevano loro. E se Pagolantonio replicherá che noi potremo armarci, a questo risponderò di sotto, e se io non mi inganno vi mostrerò che molte cose si dicono che non si possono fare, molte ancora si potrebbono fare usandovi e’ debiti mezzi, ma per vari rispetti ed impedimenti non si usano.

E perché el discorso mio è andato per uno cammino che vi potrebbe forse fare pensare che, se in uno governo populare si portano de’ pericoli per non fare o per fare tardi le imprese necessarie, che ci è el contrapeso, perché con la medesima ragione si astengano da pigliare le imprese non necessarie e pericolose, che è una di quelle cagione che fa spesso rovinare e’ principi, che molte volte per ambizione pigliano imprese male misurate, sotto le quali alla fine periscono; vi dico che anche in questo errano piú e’ populi, perché considerano manco, intendono manco, cognoscono manco, e però riputando spesso facilissimo quello che poi si scuopre difficillimo, sotto una leggiere speranza, sotto uno debole fondamento si imbarcano in imprese pericolosissime. A tempo de’ padri nostri, fatta che fu la pace della prima guerra col duca Filippo, Niccolò di Stella entrato con certe genti in quello di Lucca, doppo avere preso alcune castella, propose alla nostra cittá che volendolo aiutare gli darebbe in breve tempo Lucca. Ed ancora che questa offerta fussi gagliardemente contradetta da Niccolò da Uzzano e da altri savi, che consideravano la cittá nostra essere stracchissima per la guerra passata, la impresa diffícile per l’odio che ci portano e’ lucchesi, e perché e’ non era verisimile che el duca, che vi poteva facilmente ovviare ed era grandissimo inimico nostro ed aspirava al dominio di Toscana, ce la lasciassi vincere, nondimeno la voglia traportò tanto la moltitudine, che sanza considerazione deliberorono ne’ consigli del popolo e del commune la impresa; donde quanti mali seguissino credo lo sappia ognuno di voi. Potrei allegarvi molti altri esempli, e della medesima Lucca e di altro, ma gli lascio indrieto per non essere si lungo, e molto piú perché, se io non mi inganno, questa Pisa ve ne fará vedere molti.

La recuperazione di Pisa è giustissima e molto necessaria; la impresa pare facile perché è una cittá sola, povera e male abitata, noi a rispetto loro, ricchi, potenti ed abbondanti di ogni provisione; e pure chi considererá piú drento, la vedrá molto diffícile, perché è forte di sito per e’ fiumi tra’ quali è posta e per avere el paese paludoso in modo che per molti mesi dell’anno non si può calpestare; ed è anche forte di muraglia; gli uomini sono valorosi, e vediamo che el contado si è congiunto con loro in modo che non saranno pochi; sono ostinatissimi di non tornare sotto al dominio fiorentino. Le cose di Italia sono in termini che è impossibile che manchi loro spalle: chi disegna cavare da noi, terrá aperta questa piaga per farlo piú facilmente; el medesimo, chi vorrá stringerci a seguitare piú una parte che un’altra: el boccone è si bello, che non mancherá qualche potentato grande che vi disegni; e’ vicini che temono la nostra grandezza non mancheranno di aiutargli, e gli aiuti loro benché piccoli saranno tanto pronti che importeranno assai, e le arme vostre, dove abbino riscontro gagliardo, varranno sempre poco. Se vi metterete ora gagliardamente alla impresa, non la vincerete, spenderete danari infiniti e vi tirerete umori adosso, che vi metteranno in travagli grandi e forse in pericolo del resto; e nondimanco ognuno ci è tanto acceso, che chi ora proponessi questo parere, grandissimo carico ne riporterebbe.

Guicciardini. Dunche consiglieresti voi che per ora Pisa si lasciassi stare?

Bernardo. Lasciarla stare non sarebbe bene, perché si stabilirebbe tanto piú ed anche si verrebbe in uno certo modo a perdere della nostra giustizia. Però consiglierei la via del mezzo, cioè che si facessi la impresa con provisioni che bastassino solo a racquistare el contado, e fornito dua o tre luoghi, disfarvi gli altri e ricordarci sempre a tempo delle ricolte di guastare loro le biade. Cosí gli verresti del continuo a indebolire e consumare, né gitteresti c’ danari vostri inutilmente, massime che gli altri potentati, non vedendo pericolo presente che voi la pigliassi, non darebbono loro aiuti gagliardi da molestarvi, né penserebbono di fare diversione alle vostre imprese; troverrestivi freschi di danari, co’ quali chi gli saprá bene spendere ará da questi oltramontani ogni cosa, e facilmente vi verrebbe qualche buona occasione, sanza che uno corpo, quando è consumato, cade quasi sempre in uno tratto. Ora questo modo non si terrá se non forse doppo qualche anno, quando sarete stracchi e disperati poterla avere per altra via; e se io non sarò vivo allora come è verisimile, voi che siate piú giovani ve ne ricorderete e mi crederrete tanto piú che le imprese importanti sono male intese e male governate ne’ reggimenti populari. Il che in ogni tempo importa assai, ma importerá molto piú al temporale che corre ora, perché essendo entrata in Italia questa peste oltramontana, dubito che non sia uno principio di grandissime calamitá, ed e’ buoni governi sono molto piú necessari ne’ tempi fortunosi che negli altri.

Soderini. Ancora che nessuno rimedio sia piú a tempo alle cose del reame, pure se si conchiude questa lega grande tra’l papa, imperadore, re di Spagna, viniziani e duca di Milano, potrebbe essere principio a cacciargli di Italia; e se ne escono una volta, forse che mai piú non ci torneranno.

Bernardo. E1 reame, come tu di’, è spacciato, e la entrata loro in Italia e poi lo acquisto di questa prima impresa è stato si felice, che io non so se el cacciargli riuscirá cosi facilmente; e quando pure riuscissi, dubito che el gioco non sará finito, perché la potenzia di Francia è grande, ed aranno giá comminciato a imparare la via di venirci, gustato la dolcezza di questa provincia ed accesi gli animi; né mancheranno le cagioni e le occasioni di farcegli venire, perché la unione di Italia è conquassata, e sono rotti quelli vinculi che la tenevano ferma. Questa lega che ora si pratica, quando bene si conchiugga, durerá tanto unita quanto questo bisogno che corre ora; di poi resterá ogni cosa piú confusa che mai.

El regno di Napoli, ancora che e’ Ragonesi vi tornassino, sará debole e forse smembrato; voi senza Pisa e con la piaga di fuorausciti potenti; uno papa ambizioso e cupido di cose nuove; viniziani, si sa naturalmente a che pretendono; el signore Lodovico, per parlare modestamente, non è si savio come è tenuto, ma se doppo lo essersi fatto duca di Milano, doppo lo avere disfatto e’ Ragonesi e Piero de’ Medici, gli riesce fare tornare el re Carlo in Francia, rimarrá pieno di vanitá e di insolenzia. Sono certo che pensa alle cose di Pisa, e dubito che e’ viniziani non vi voltino lo animo, perché la natura loro è di abbracciare sempre con simili4 occasione: in modo che Pisa potrebbe essere causa di riaccendere el fuoco in Italia, e quando non lo faccia Pisa, non mancherá degli altri semi. Ognuno che ara ambizione, sdegno o paura, non potendo satisfarsi o assicurarsi per altra via, cercherá di fare venire oltramontani, e quanto piú prosperamente sará riuscito al duca, tanto piú vi piglieranno animo gli altri. Vedete che ora per cacciare franzesi si comincia a parlare di tedeschi e di spagnuoli; però non solo io non ci veggo sicurtá che e’ franzesi non abbino a stare o tornare in Italia, ma dubito ancora che non si apra la via a qualche altra nazione. E questa sarebbe la ruina ultima, perché mentre che ci staranno d’accordo, si mangeranno Italia; se verranno a rottura, la lacereranno; e se per sorte l’uno oltramontano caccerá l’altro, Italia resterá in estrema servitú. Saranno queste cose piú o manco secondo che Dio vorrá, ma non si può negare che e’ tempi che vengono saranno strani, e che quando bisognerebbe migliore medico, l’areno peggiore. E quanto importi questo capo della conservazione del dominio, non lo dico perché ognuno di voi lo sa.

Soderini. Non negherò che sia di grandissima impor tanzia, ma secondo l’ordine della natura viene prima in considerazione e prima si ha a cercare di essere libero o bene governato, e poi di dominare a altri. Però de’ tre capi considerati da Piero Capponi importano piú e’ primi dua che concernono proprio lo essere nostro, che quello del dominio; e se el governo populare avessi ne’ primi dua o almanco in quello della giustizia, vantaggio dal governo de’ Medici, non sarebbe peggiore quando bene nel terzo non fussi si bene ordinato.

Bernardo. Pagolantonio tu ti inganni, perché tu vuoi dividere quelle cose che non si possono dividere. Se una cittá che si contentassi della libertá sua e del suo piccolo territorio fussi lasciata stare dagli altri, tu diresti bene; ma questo non è a casa nostra e non può essere, perché bisogna o che la sia in modo potente che opprima gli altri, o che la sia oppressa da altri. Se voi perdessi el dominio vostro, perderesti ancora la libertá e la cittá propria, la quale sarebbe assaltata, e non aresti forze da difenderla; ed el fare buona giustizia, el distribuirsi bene e’ magistrati, l’avere buone leggi e bene osservate, non vi difenderebbe. Però io sono di opinione contraria a te, che importi piú questo ultimo, perché ne dependono gli altri, che restano in terra, perduto el dominio, e la cittá ne rimane soggiogata ed usurpata, sanza speranza alcuna di potere mai risurgere. E questo non interviene se gli altri membri si disordinano, perché la cittá patisce ma non muore; e restandogli la vita, gli resta la speranza di potere a qualche tempo riordinarsi, che è quello a che, ne’ casi gravi, hanno sempre a pensare e’ governatori delle republiche, cioè sopportare ogni male, perché la cittá non si spenga; e se tu la penserai bene, e tu ed ogni altro savio come sei tu, non diranno mai altrimenti che mi dica io.

Soderini. Non vi vo’ piú interrompere, ma poi alla fine del ragionamento dirò quello che mi occorre.

Bernardo. Seguiterò adunche, procedendo secondo l’ordine di Piero Capponi, e dico che è vero quello che fu detto da lui, cioè che nella deliberazione delle imprese e governo delle cose di fuora, lo obietto de’ Medici era piú el bene suo particulare che la grandezza della cittá; ma affermo quello che egli confessò tacitamente, che non poteva quasi essere, anzi non poteva essere l’uno senza l’altro, perché e’ Medici non avevano una signoria né uno stato appartato dal quale avessino la grandezza, ma ogni cosa sua dependeva dalla potenzia e riputazione dello stato di questa cittá, e nel bene ed augumento di questo era el bene ed augumento loro, perché quanto era piú grande e piú potente la cittá, tanto venivano a essere piú potenti loro. E se Lorenzo errò in impresa alcuna, ghe da quella di Volterra in fuora non errò forse in nessuna (ma non accade ora disputare questo), fu per cattivo consiglio, come interviene qualche volta a tutti e’ savi, ma non perché el male o la bassezza della cittá fussi utile al particulare suo; e però se bene si movevano piú per interesse proprio che per el publico, pure poi che male potevano procurare el suo, che non procurassino anche el publico, veniva a essere quasi el medesimo. Né el grado che loro cercavano di appropriarsi e di essere tenuti padroni, faceva in quanto a questo, diverso effetto; perché con tutto questo ognuno sentiva e’ medesimi commodi che porta a’ suoi cittadini la pace e la riputazione e la sicurtá della sua patria e lo augumento dei dominio.

Restano le ultime cose dette da Piero Capponi, cioè delle spese superflue per conto de’ soldati, amici loro, e de’ danari che Lorenzo cavò dal publico per sé e per fare servire qualche amico suo, che è la veritá né lo voglio escusare, se bene io potrei forse dire che era ridotto in ultima necessitá e che le cose che allora correvano erano di sorte, che la ruina sua non poteva essere sanza danno del publico, e però ne fu consigliato da tutti e’ principali dello stato. Ma consentiamo che fussi mal fatto: la esperienzia vi mostrerrá che tutto quello che in tanto tempo Lorenzo spese superfluamente, o di che si servi nelle necessitá sue e degli amici suoi, fu una piccola quantitá rispetto a quello che per e’ mali governi e per la poca diligenzia di chi ha cura delle entrate ed anche per qualche malignitá, si spenderá in pochissimi anni. Una deliberazione male consigliata; una elezione di dieci poco pratichi; una delle vostre lunghezze o irresoluzione; una gravezza che non si vinca a tempo, che interverrá molte volte avendosi a vincere in consiglio grande, vi fará piú gettare via in uno anno, che non si fece mai in tutto quello tempo; e cosí fará male al publico uno ducato che si spenda per cattivo governo, come quello che si spenda per altra cagione. Vedrete con quanto poco ordine saranno maneggiate le entrate, e quante negligenzie e rapine si faranno; perché da uno governo simile che non ha ordine e padrone fermo, non si può sperare altrimenti.

In ultimo Piero Capponi, se io mi ricordo bene, si lamentò del sospetto e degli effetti che procedano da quello, cioè non lasciare crescere gli uomini eccellenti, interrompere e’ parentadi tra le persone qualificate, vigilare sempre gli andamenti degli altri, massime degli uomini di ingegno, diffidandosi non che altro degli amici ed intrinsichi suoi. Cose tutte verissime e necessarie in ogni tirannide; ma in quelle che sono inumane le provisioni sono crudeli, perché si fanno col ferro. Vedete quello che si fa a’ tempi nostri in Bologna ed in Perugia, ne’ quali casi io lodo coloro che eleggono ogni altro partito che lo stare nella patria; ma dove sono piú temperate, sono le provisioni piú destre, e con quelle vie che biasimò Piero. E cosí faceva Lorenzo, che sanza sangue o esilio di persona, si andava difendendo da’ sospetti. Non lodo lo interrompere e’ parentadi, non el ritirare chi si faceva innanzi, e massime le persone di piú qualitá, ma dico bene che a comparazione de’ mali detti di sopra era infine piccolo male, perché toccava a pochissimi, ed a quegli dolcemente.

Non voglio ora parlare delle cose de’ Pazzi, perché el volere troppo scopertamente combattere co’ Medici in Roma ed in Firenze la grandigia, constrinse Lorenzo a pensare di abbassargli, ed elesse piú tosto quegli modi che avere a mettere mano al sangue; in che meritò forse piú laude di mansuetudine che di prudenzia, perché gli esasperò e non se ne assicurò. Vi dico bene che questo vostro consiglio ara ancor egli de’ mal contenti e di quegli che cercheranno alterazione e cose nuove, e sarebbe molto meglio difendersene con quella dili genzia e destrezza che faceva Lorenzo, che fare com’è la natura de’ popoli, e’ quali non avertiscono agli andamenti minori e piú occulti, e se vi avertiscono non vi provedono; di sorte che chi ha volontá di machinare, piglia animo, e la licenzia cresce tuttodí tanto, che alla fine o gli riesce e’ disegni, o quando le cose sono ridotte nel fondo del pericolo, vi si provede, ma con sangue e con furore; ed a quello che sarebbe bastato una piccola diligenzia, si hanno poi a adoperare e’ ceppi e le mannaie, con infinito danno di chi patisce e con travaglio della cittá e di ognuno sanza comparazione molto maggiore che non sarebbe stato el provedervi come faceva Lorenzo.

Potrei dire molte altre cose, e rispondere piú minutamente a molti particulari considerati per voi dua, Piero e Pagolantonio; ma gli lascerò indrieto, perché non è molto necessario, avendo toccato le cose sustanziali e non volendo procedere in infinito. Basta, che io non so se el vivere populare sará tale che la cittá abbia a avere molta obligazione a chi ha cacciati e’ Medici, sotto e’ quali confesso che erano molte cose che non stavano bene e che erano da dispiacere, e che gli uomini potevano difficilmente sopportare; ma ne saranno ancora in questo altro molte e forse piú e piú gravi. E gli uomini non debbono levarsi da uno stato per fuggire quelle cose che non gli satisfanno, se non per capitare in uno altro, dove, considerato quale sia piú o quanto, abbino a essere migliori condizioni. Perché le mutazioni non si hanno a cercare per fuggire e’ nomi ed e’ visi degli uomini, o per mutare el duolo dello stomaco in duolo di testa, ma per fuggire gli effetti e liberarsi da’ mali che ti affligano senza intrare in altri mali pari e forse maggiori.

Soderini. E’ discorsi vostri sono stati a giudicio mio bellissimi, ma dubito non abbino seco uno inganno, perché volendo esaminare tutt’a dua questi governi, avete dall’uno canto preso per fondamento el modo con che si reggeva Lorenzo, che era el migliore, el piú savio ed el piú piacevole che si potessi aspettare da uno governo simile, da altro, avete preso questo principio del vivere populare, che è ancora confuso, disordinato e rozzo, e nel peggiore grado quasi che possa essere. Lo stato de’ Medici era per peggiorare ogni di, e ne abbiáno veduto lo esemplo in Piero, in modo che restrignendosi a ogni ora, e crescendo la insolenzia e la licenzia di chi ne era padrone, in progresso di pochi anni sarebbe stato diversissimo da quello che era a tempo di Lorenzo. Quest’altro che nasce ora si andrá ordinando alla giornata, perché gli uomini sono desiderosi della libertá, e che la cittá si governi con quiete e con pace; però gli errori che si sono fatti ora infuria, parte per necessitá, parte per sospetti e per ignoranzia, si cognosceranno con la esperienzia di pochi anni e si andranno limando e ricorreggendo, in modo che non ci aranno luogo quegli difetti che sarebbono se el governo si continuassi come ora è; neanche sarebbono durati quegli beni che aveva lo stato de’ Medici, perché andava tuttavia declinando verso el male.

Bernardo. Se la cosa stessi come dice Pagolantonio, gli arebbe con poche parole posto in terra tutto quello che io mi sono affaticato di provare si lungamente; ma io non credo che la stia cosi, e che le cose non sarebbono sotto Piero peggiorate quanto lui crede, e che questo governo populare non sará di qui a qualche anno tanto migliorato.

Lo stato de’ Medici, ancora che, come io ho detto, fussi una tirannide e che loro fussino interamente padroni, perché ogni cosa si faceva secondo la loro voluntá, nondimanco non era venuto su come uno stato di uno principe assoluto, ma accompagnato co’ modi della libertá e della civilitá, perché ogni cosa si governava sotto nome di republica e col mezzo de’ magistrati, e’ quali se bene disponevano quanto gli era ordinato, pure le dimostrazioni e la imagine era che el governo fussi libero; e come si cercava di satisfare alla moltitudine de’ cittadini con la distribuzione degli uffici, cosí bisognava satisfacessino a’ principali dello stato non solo con le dignitá principali, ma ancora col fare maneggiare a loro le cose importanti, e però di tutto si facevano consulte publiche e private. E se bene e’ Medici avevano preso tanto piede e di arme e di seguito, che se avessino voluto pigliare assolutamente el dominio della cittá, arebbono potuto farlo sanza alcuna diffiCultá; nondimanco faccendolo, arebbono disperato interamente ognuno e non manco gli amici loro che gli altri; a’sudditi ancora che sono usi a ricognoscere el Palagio ed e’ modi della libertá sarebbe dispiaciuto. E però nessuno de’ Medici, se non fussi stato publico pazzo, arebbe mai fatto questo, perché potevano conservare la autoritá sua, sanza fare uno passo che gli avessi a inimicare ognuno, e bisognava che facendolo, pensassino o uscire di Firenze a ogni piccola occasione che venissi, o aversi a ridurre tutti in su le arme ed in su la forza; cosa che e’ tiranni non debbono mai fare, se non per necessitá, di volere fondarsi tutti in su la violenzia, quando hanno modo di mantenersi col mescolare lo amore e la forza. Aggiugnesi che chi togliessi alla nostra cittá la sua civilitá ed immagine di libertá, e riducessila a forma di principato, gli torebbe la anima sua, la vita sua e la indebolirebbe e conquasserebbe al possibile; e quanto è piú debole e manco vale la cittá, tanto viene a essere piú debole e manco valere chi ne è padrone; e cosí se e’ Medici avessino preso el principato assoluto, arebbono diminuito e non cresciuto la sua potenzia e riputazione. Però non si aveva a dubitare che alcuno de’ Medici, se non fussi stato publico pazzo, pensassi a tanta transgressione; e voi mi confesserete che se bene Piero era caldo e della natura che ognuno sa, non era però si inconsiderato, che si avessi a credere che si mettessi a fare una pazzia si notabile.

Che vuoi tu inferire per questo? Voglio inferire che questo modo di consultare le cose co’ principali dello stato ed esequirle col mezzo de’ magistrati, era non piccolo freno alle esorbitanzie che avessino voluto fare e’ Medici. Non che questo bastassi a proibirgli quello che pure avessino resoluto assolutamente di volere fare, ma serviva a ritirargli e mostrargli el cammino migliore; ed andando con questi modi, non pareva loro quasi lecito uscire del consiglio di quelli che riputavano savi ed amici, e si andavano mantenendo nella opinione che fussi bene fare le cose con satisfazione della cittá, o almanco dello stato. Però insino che noi non fussimo riscontri in uno che fussi stato totalmente pazzo, non si aveva a giudicio mio da dubitare che noi ci discostassimo troppo da quello traino che era stato a tempo di Lorenzo; e meno ancora nel governo delle cose di drento che in quelle che appartenevano alle imprese ed amicizie co’ principi, perché gli pareva lecito che queste dependessino piú dallo arbitrio suo. E però se voi considerate bene, el ristrignere che aveva fatto Lorenzo era stato piú presto circa el volere che e’ cittadini ricognoscessino piú stiettamente da lui la loro riputazione, che circa el disordinare la giustizia o le leggi, e gravare le borse piú che el solito, e circa le altre cose che concernono el buono e pacifico vivere. Anzi a questo giovava piú la autoritá che lui aveva ristretto in sé, perché era manco necessitato a comportare a’ cittadini principali le cose mal fatte; il che non avevano potuto bene fare né Cosimo, né Piero suo padre, perché non avendo preso tanto piede quanto prese poi lui, la autoritá di parecchi cittadini era si grande che erano comportate loro infinite estorsioni.

Non sapete voi come fu governato Firenze dal 34, e massime poi che Cosimo invecchiò ed infermò, insino a tanto che Lorenzo cominciò a fondare le cose sue, e quanto doppo questo tempo fu ognuno piú sicuro e manco oppressato che prima? Né con tutti e’ modi e natura di Piero, si disordinò la giustizia e la sicurtá e quiete de’ cittadini; né lo cognobbi però io mai di natura si bestiale che si avessi a temere da lui che disordinassi e rovinassi el vivere della cittá. Le cose che vivente suo padre gli dettono cattivo nome, non furono altro che certe caldezze da giovane, delle quali se ne vede tuttodí in chi ha e’ medesimi anni che aveva lui e molto minore licenzia; cose che non toglievano la speranza che negli anni piú maturi non avessi a avere la debita maturitá e prudenzia. E chi considerrá bene el procedere suo doppo la morte del padre, dico nel governo dello stato, non ci troverrá drento indizi di crudeltá o di sangue alieni da’ nostri costumi. Che piú manifesto segno delle cose di Lorenzo e di Giovanni di Pierfrancesco, e di Cosimo Rucellai e forse di Bernardo, che furono machinazioni contra lo stato e contra Piero, e pure furono governate piacevolmente? In che io vi confesso che valse assai el consiglio de’ principali dello stato, perché Piero era stato indiritto da qualcuno a cattiva via; ma se fussi stato di natura sanguinoso o implacabile, non si sarebbe lasciato persuadere da noi, e se voi negate questo, bisogna mi consentiate che, come io ho detto di sopra, el modo del governo era tale che facilmente si ritirava dalle cose disoneste. Però di nuovo dico che a me non pare che Piero fussi per conducerci a quegli ultimi mali che diceva Pagolantonio.

E se lui mi replicherá che continuandosi quello governo, che, se non Piero, potrebbe pure essere accaduto che una volta fussi venuto di loro uno di si poca prudenzia che arebbe fatto quello di che lui temeva, io replicherò che oltre agli ostacoli che faceva a questo el modo del governo, che el parlare mio si mosse secondo e’ termini che noi ci trovavamo ed eravamo per trovarci qualche decina di anni, ina non ho tolto giá assunto di parlare dello infinito, perché in uno stato e grandezza di una famiglia non si può sperare la perpetuitá. E di piú vi dirò che el medesimo pericolo ha seco uno governo populare, perché quando le cose si disordinano e vengono a quella ultima licenzia, ha anche lui e’ suoi estremi mali, come voi sapete meglio di me, e gli esempli sono molti e manifesti. E se questo è difficile, il che non voglio ora disputare, non ammetto giá, come diceva Pagolantonio, che con facilitá el governo vostro migliorerá da quello che è di presente e si limerá alla giornata e riducerá in termini che saranno laudabili e ragionevoli. Io dubito che piú tosto sará el contrario, perché el fondamento de’ mali di questo nuovo governo nascerá dalla larghezza e dal volere ognuno non solo gli utili ed uffici ordinari, ma etiam tutti e’ primi gradi ed onori importanti della cittá. El principio suo ha seco questa impressione ed opinione degli uomini, perché non nasce doppo uno governo di mezzo, ma doppo uno stato stretto caduto giú furiosamente, e però ognuno va sanza misura al contrario, ed essendo lo arbitrio delle cose in mano della moltitudine che è quella che favorisce la larghezza, io non so che si possa sperare, né pensare a altro che a allargare, e chi proporrá cose che tendino a questo fine, sará molto piú udito ed inteso che chi proporrá el contrario. Non ci veggo per ora altro freno che questo delle piú fave, el quale se durassi, taglierebbe molte esorbitanzie; ma come si vedrá che le piú fave ristringhino, gli sará contro ognuno, e vedrete che saranno levate via e di necessitá si allargherá ogni cosa, perché ognuno pretenderá allo stato, ed in ognuno entrerrá la ambizione insino di essere chiamati alle pratiche ed a’ consigli delle cose importanti in modo che si faranno a centinaia.

Chi ha ordinato queste cose ha avuto buoni fini, ma non ha avertito particularmente a tutto quello che bisognava; né me ne maraviglio, perché non vive nessuno che abbi mai veduto la cittá libera, né che abbi maneggiato gli umori delle libertá, e chi gli ha imparati in su’ libri, non ha osservato tutti e’ particulari e gustatigli, come chi gli cognosce per esperienzia, la quale in fatto aggiugne a molte cose dove la scienzia ed el giudicio naturale solo non arriva.

Tornando a proposito, non veggo in effetto che ragione alcuna abbia a volgere gli uomini a ristrignere e riordinare bene el governo populare, se non una: se alla cittá venissi qualche travaglio che evidentemente si cognoscessi essere causato dal cattivo governo; e se questo sará piccolo non basterá a fare lo effetto; se lo desideriamo grande, potrebbe essere tanto che porterebbe troppo del vivo e ci metterebbe in troppo pericolo, perché e’ colpi non si danno a misura, e male vanno le cose, quando non si può sperare di avere bene se non si ha prima el male.

Ma considerate piú oltre: non avendo questo governo uno timone fermo, oltre alla larghezza che tuttodí andrá crescendo, se comminciano a nascere tra noi e’ dispareri e le divisione, le quali è impossibile che in uno governo simile non naschino, dove si troverrá la cittá? Chi la medicherá? Chi la riordinerá? Chi metterá freno agli appetiti non ragionevoli degli uomini, o con autoritá o con timore? Aspettiamo noi che lo abbia a fare el consiglio grande? Sono mali che hanno bisogno di piú savio e di piú esperto medico. Farannolo e’ magistrati, che non stando in offizio piú che dua, tre o quattro mesi, aranno piú facilitá di guastare che di acconciare? Farannolo e’ cittadini principali che saranno immersi piú che gli altri nelle divisioni? E se alcuno vi sará di animo purgato, si troverrá con poca reverenzia appresso agli altri e con nessuna potestá.

Considero piú oltre che la cittá nostra è oramai vecchia, e per quanto si può conietturare da’ progressi suoi e da la natura delle cose e dagli esempli passati, è piú presto in declinazione che in augumento. Non è come una cittá che nasce ora o che è giovane, che è facile a formare ed instituire, e sanza difficultá riceve gli abiti che gli sono dati. Quando le cittá sono vecchie, si riformano diffícilmente, e riformate, perdono presto la sua buona instituzione e sempre sanno de’ suoi primi abiti cattivi; di che, oltre alle ragioni che si potrebbono assegnare, potete pigliare lo esemplo di molte republiche antiche, le quali se nel suo nascere, o almanco nella sua giovanezza, non hanno avuto sorte di pigliare buona forma di governo, ha durato fatica invano chi ve la ha voluta mettere tardi; anzi quelle che sono use a essere bene governate, se una volta smarriscono la strada e vengono in qualche calamitá e confusione, non tornano mai perfettamente al suo antico buono essere. È cosí el naturale corso delle cose umane, e come solete dire voi altri, del fato, che ha bene spesso piú forza che la ragione o prudenzia degli uomini. Però Pagolantonio, io credo che el governo de’ Medici non sarebbe molto peggiorato da quello che era ridotto a ora, e che quello del popolo non migliorerá molto da quello che ora si mostra dovere essere.

Guicciardini. Dunche desiderate voi la tornata di Piero?

Bernardo. Io parlerò liberamente e sanza passione. Io desiderrei che Piero non fussi stato cacciato, perché non veggo guadagno in questa mutazione; ma ora che è cacciato, non vorrei che tornassi, perché oltre che io non veddi mai che mutazione alcuna facessi bene alla cittá, le cose andrebbono in luogo che si peggiorerebbe di grosso. Perché la tornata di Piero non può nascere sanza forze ed eserciti forestieri, se giá per le divisioni vostre non fussi richiamato da una parte, anzi quando avessi a essere, concorrerebbe piú verisimilmente l’uno e l’altro insieme. Se fussi con forze forestiere, non potrebbe essere sanza vergogna e danno grande della cittá, e con pericolo di non perdere una parte del dominio. Se ha a procedere dalle vostre divisioni, bisogna che abbino tormentato assai la cittá, innanzi che le siano condotte in luogo che le possino partorire questo effetto. Ma oltre al modo del ritornare, che non può essere sanza danno e vituperio, che altri effetti che cattivi potria fare el ritorno suo? E1 desiderio di vendicarsi contra tutti o parte di quegli che lo hanno offeso, la volontá di assicurarsi di non potere essere cacciato un’altra volta, la povertá, perché è stato saccheggiato e le facultá sue andate in ruina, e tanto più andranno quanto stará fuora, lo sforzerebbono a cacciare e distruggere molte case, e fare infiniti mali e mettere lo stato in diverso traino da quello di prima. Non pensi alcuno che Piero possi tornare, e ridursi el governo a quello modo medesimo che era innanzi; dependerebbe piú da lui, farebbe piú fondamento in su le arme ed in su la forza, caverebbe tutte le cose degli ordinari suoi, e’ quali sono quegli che conservano Firenze, e parendogli che la benivolenzia degli amici non fussi stata bastante a tenerlo drento, né lo odio degli inimici avessi potuto tenerlo fuora, non farebbe capitale alcuno dello amore de’ cittadini, né arebbe paura dello odio, perché si volterebbe a opprimergli. E se sotto una tirannide non si può fare cosa piú perniziosa a una cittá che dare causa al tiranno di avere sospetto, il che lo necessita tutto a male, pensate quello che è quando torna uno che è certo della malivolenzia del popolo, che, oltre alla esperienzia che ne ha veduta, ha ancora el desiderio di vendicarsi. Dio guardi ognuno dal riducersi in simili termini. Però non solo non arei piacere che Piero tornassi, ma dispiacere grandissimo, e conforto quanto posso voi e tutti gli altri, che facciate ogni diligenzia di non avere a provare una tale mutazione. Ed el modo è conservarsi uniti, e la unione non può essere se voi non disponete voi medesimi a contentarvi de’ tempi che corrono e stare contenti a quella riputazione e grandezza che si può avere. Perché come in una republica e’ cittadini principali, che poi a l’ultimo sono quegli che sono potissima causa del bene e del male delle cittá, si propongono certi fini, e quando non vi possono arrivare cercono di travagliare ogni cosa per condurvisi e pensano piú alla ambizione ed appetiti loro che alla quiete delle cittá, allora surgono le discordie e le divisioni, allora si fanno autori di cose nuove, dove loro spesso rovinano e la cittá patisce sempre; e’ travagli della quale, mossi dalle discordie civili, partoriscano o tirannide nuova o ritorno del tiranno vecchio, o una dissoluzione e licenzia di popolo e di plebe che tumultuosamente conquassa le cittá.

La signoria del duca di Atene, el ritorno e la grandezza di Cosimo, la tempesta de’ Ciompi, non ebbono altri fondamenti che questi; e però bisogna che voi e gli altri principali, se in questo stato populare non potrete avere quella parte che voi vorresti o che vi parrá convenirsi alle qualitá e meriti vostri, consideriate che minore male non solo per la cittá ma per voi ancora, sará temporeggiarsi ed accommodarsi el meglio che potrete al vivere che correrá, e vi sará molto piú onorevole ed utile quella diligenzia che voi potresti mettere per travagliare e mutare le cose, voltarla a giovare alla cittá ed andare cercando destramente e co’ modi civili di correggere e di limare, se qualche occasione lo consentirá, e’ disordini del governo. La quale vi verrá in mano piú facilmente, se’ portamenti vostri saranno tali che faccino impressione che voi amiate la libertá presente e vogliate vivere quietamente e vi contentiate della equalitá, e che nelle consulte non vi facciate capi di opinioni; non dico che non diciate liberamente e’ pareri vostri, ma che non cerchiate di sostenergli pertinacemente, né vi affatichiate perché gli altri seguitino e’ vostri consigli, perché questa è una delle cose che appresso a’ popoli fa sospetti ed esosi assai e’ cittadini grandi. Ma dove sono io entrato a dare consiglio a voi piú sufficienti assai di me? Lo amore non la prosunzione mi ha traportato; però mi arete per scusato, e perché oramai debbe essere ora di cenare, parendovi, finiamo per stasera questi ragionamenti; e se ci sará da dire altro, potreno farlo domattina, che a ogni modo non è da partire sanza fare collezione.

Capponi. A me pare che voi diciate benissimo e di stasera e di domattina. Andiano dunche a cena.

Soderini. Andiano.


Note

  1. Dei nomi degli interlocutori, ad eccezione di questo primo che è scritto per disteso, il ms. dá solo l’iniziale: del nome per il del Nero, del cognome per gli altri.
  2. Si supplisce con la lezione di A, perché B ha una correzione che rende il testo di incertissima lettura.
  3. In B. una parola corretta dallo stesso segretario e d’incertissima lettura.
  4. È da leggere con simili e non consimili, perché la lezione di A è: con queste.
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