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ATTO SECONDO
SCENA I
Appartamenti reali con tavolino e sedie.
Selene ed Araspe.
Selene. Chi fu che all’inumano
disciolse le catene?
Araspe. A me, bella Selene, il chiedi invano.
Io prigioniero e reo,
libero ed innocente in un momento,
sciolto mi vedo, e sento
fra’ lacci il mio signor: il passo muovo
a suo pro nella reggia, e vel ritrovo.
Selene. Ah! contro Enea v’è qualche frode ordita.
Difendi la sua vita.
Araspe. È mio nemico.
Pur, se brami che Araspe
dall’insidie il difenda,
tel prometto: sin qui
l’onor mio nol contrasta;
ma ti basti cosí.
Selene. Cosí mi basta.
(in atto di partire)
Araspe. Ah! non toglier sí tosto
Il piacer di mirarti agli occhi miei.
Selene. Perché?
Araspe. Tacer dovrei ch’io sono amante;
ma reo del mio delitto è il tuo sembiante.
Selene. Araspe, il tuo valore,
il volto tuo, la tua virtú mi piace;
ma giá pena il mio cor per altra face.
Araspe. Quanto son sventurato!
Selene. È piú Selene.
Se t’accende il mio volto,
narri almen le tue pene, ed io le ascolto.
Io l’incendio nascoso
tacer non posso e palesar non oso.
Araspe. Soffri almen la mia fede.
Selene. Sí, ma da me non aspettar mercede.
Se può la tua virtude
amarmi a questa legge, io tel concedo;
ma non chieder di piú.
Araspe. Di piú non chiedo.
Selene. Ardi per me fedele,
serba nel cor lo strale;
ma non mi dir crudele.
se non avrai mercé.
Hanno sventura eguale
la tua, la mia costanza:
per te non v’è speranza,
non v’è pietá per me. (parte)
SCENA II
Araspe solo.
Tu dici ch’io non speri,
ma nol dici abbastanza:
l’ultima che si perde è la speranza. (parte)
SCENA III
Didone con foglio in mano, Osmida, e poi Selene.
Didone. Giá so che si nasconde
de’ mori il re sotto il mentito Arbace.
Ma, sia qual piú gli piace, egli m’offese;
e senz’altra dimora,
o suddito o sovrano, io vuo’ che mora.
Osmida. Sempre in me de’ tuoi cenni
il piú fedele esecutor vedrai.
Didone. Premio avrá la tua fede.
Osmida. E qual premio, o regina? Adopro invano
per te fede e valore:
occupa solo Enea tutto il tuo core.
Didone. Taci, non rammentar quel nome odiato.
È un perfido, è un ingrato,
è un’alma senza legge e senza fede.
Contro me stessa ho sdegno,
perché finor l’amai.
Osmida. Se lo torni a mirar, ti placherai.
Didone. Ritornarlo a mirar? Perfin ch’io viva
mai piú non mi vedrá quell’alma rea.
Selene. Teco vorrebbe Enea
parlar, se gliel concedi.
Didone. Enea! Dov’è?
Selene. Qui presso,
che sospira il piacer di rimirarti.
Didone. Temerario! Che venga. (Selene parte)
Osmida, parti.
Osmida. Io non tel dissi? Enea
tutta del cor la libertá t’invola.
Didone. Non tormentarmi piú: lasciami sola.
(Osmida parte)
SCENA IV
Didone ed Enea.
Didone. Come! ancor non partisti? Adorna ancora
questi barbari lidi il grande Enea?
E pure io mi credea
che, giá varcato il mar, d’Italia in seno
in trionfo traessi
popoli debellati e regi oppressi.
Enea. Quest’amara favella
mal conviene al tuo cor, bella regina:
del tuo, dell’onor mio
sollecito ne vengo. Io so che vuoi
del moro il fiero orgoglio
con la morte punir.
Didone. E questo è il foglio.
Enea. La gloria non consente
ch’io vendichi in tal guisa i torti miei:
se per me lo condanni...
Didone. Condannarlo per te! Troppo t’inganni.
Passò quel tempo, Enea,
che Dido a te pensò. Spenta è la face,
è sciolta la catena,
e del tuo nome or mi rammento appena.
Enea. Pensa che il re de’ mori
è l’orator fallace.
Didone. Io non so qual ei sia: lo credo Arbace.
Enea. Oh Dio! con la sua morte
tutta contro di te l’Africa irríti.
Didone. Consigli or non desio:
tu provvedi a’ tuoi regni, io penso al mio.
Senza di te finor leggi dettai;
sorger senza di te Cartago io vidi.
Felice me, se mai
tu non giungevi, ingrato, a questi lidi!
Enea. Se sprezzi il tuo periglio,
donalo a me: grazia per lui ti chieggio.
Didone. Sí, veramente io deggio
il mio regno e me stessa al tuo gran merto.
A sí fedele amante,
ad eroe sí pietoso, a’ giusti prieghi
di tanto intercessor nulla si nieghi.
(va al tavolino)
Inumano! tiranno! È forse questo
l’ultimo dí che rimirar mi déi:
vieni sugli occhi miei;
sol d’Arbace mi parli, e me non curi!
T’avessi pur veduto
d’una lagrima sola umido il ciglio!
Uno sguardo, un sospiro,
un segno di pietade in te non trovo.
E poi grazie mi chiedi?
Per tanti oltraggi ho da premiarti ancora?
Perché tu lo vuoi salvo, io vuo’ che mora.
(soscrive)
Enea. Idol mio, ché pur sei
ad onta del destin l’idolo mio,
che posso dir? Che giova
rinnovar co’ sospiri il tuo dolore?
Ah! se per me nel core
qualche tenero affetto avesti mai,
placa il tuo sdegno e rasserena i rai.
Quell’Enea tel domanda,
che tuo cor, che tuo bene un dí chiamasti;
quel che sinora amasti
piú della vita tua, piú del tuo soglio;
quello...
Didone. Basta; vincesti: eccoti il foglio.
Vedi quanto t’adoro ancora, ingrato!
Con un tuo sguardo solo
mi togli ogni difesa e mi disarmi.
Ed hai cor di tradirmi? E puoi lasciarmi?
Ah! non lasciarmi, no,
bell’idol mio:
di chi mi fiderò,
se tu m’inganni?
Di vita mancherei
nel dirti addio;
ché viver non potrei
fra tanti affanni. (parte)
SCENA V
Enea, poi Iarba.
Enea. Io sento vacillar la mia costanza
a tanto amore appresso;
e, mentre salvo altrui, perdo me stesso.
Iarba. Che fa l’invitto Enea? Gli veggo ancora
del passato timore i segni in volto.
Enea. Iarba da’ lacci è sciolto!
Chi ti die’ libertá?
Iarba. Permette Osmida
che per entro la reggia io mi raggiri;
ma vuol ch’io vada errando,
per sicurezza tua, senza il mio brando.
Enea. Cosí tradisce Osmida
il comando real?
Iarba. Dimmi, che temi?
Ch’io fuggendo m’involi a queste mura?
Troppo vi resterò per tua sventura.
Enea. La tua sorte presente
fa pietá, non timore.
Iarba. Risparmia al tuo gran core
questa pietá. D’una regina amante
tenta pure a mio danno,
cerca pur d’irritar gli sdegni insani.
Con altr’armi non sanno
le offese vendicar gli eroi troiani.
Enea. Leggi. La regal donna in questo foglio
la tua morte segnò di propria mano.
Se Enea fosse africano,
Iarba estinto saria. Prendi ed impara,
barbaro discortese,
come vendica Enea le proprie offese. (lacera il foglio e parte)
SCENA VI
Iarba solo.
Così strane venture io non intendo.
Pietá nel mio nemico,
infedeltá nel mio seguace io trovo.
Ah! forse a danno mio
l’uno e l’altro congiura.
Ma di lor non ho cura.
Pietá finga il rivale,
sia l’amico fallace:
non sará di timor Iarba capace.
Fosca nube il sol ricopra,
o si scopra il ciel sereno,
non si cangia il cor nel seno,
non si turba il mio pensier.
Le vicende della sorte
imparai con alma forte
dalle fasce a non temer. (parte)
SCENA VII
Atrio.
Enea, poi Araspe.
Enea. Fra il dovere e l’affetto
ancor dubbioso in petto ondeggia il core.
Pur troppo il mio valore
all’impero serví d’un bel sembiante.
Ah! una volta l’eroe vinca l’amante.
Araspe. Di te finora in traccia
scorsi la reggia.
Enea. Amico,
vieni fra queste braccia.
Araspe. Allontánati, Enea; son tuo nemico.
Snuda, snuda quel ferro: (snuda la spada)
guerra con te, non amicizia io voglio.
Enea. Tu di Iarba all’orgoglio
prima m’involi, e poi
guerra mi chiedi, ed amistá non vuoi?
Araspe. T’inganni. Allor difesi
la gloria del mio re, non la tua vita.
Con piú nobil ferita
rendergli a me s’aspetta
quella, che tolsi a lui, giusta vendetta.
Enea. Enea stringer l’acciaro
contro il suo difensore!
Araspe. Olá! che tardi?
Enea. La mia vita è tuo dono:
prendila pur, se vuoi; contento io sono.
Ma ch’io debba a tuo danno armar la mano,
generoso guerrier, lo speri invano.
Araspe. Se non impugni il brando,
a ragion ti dirò codardo e vile.
Enea. Questa ad un cor virile
vergognosa minaccia Enea non soffre.
Ecco, per soddisfarti, io snudo il ferro;
ma prima i sensi miei
odan gli uomini tutti, odan gli dèi.
Io son d’Araspe amico;
io debbo la mia vita al suo valore;
ad onta del mio core,
discendo al gran cimento,
di codardia tacciato;
e, per non esser vil, mi rendo ingrato. (in atto di battersi)
SCENA VIII
Selene e detti.
Selene. Tanto ardir nella reggia? Olá, fermate!
Cosí mi serbi fé? Cosí difendi,
Araspe traditor, d’Enea la vita?
Enea. No, principessa: Araspe
non ha di tradimenti il cor capace.
Selene. Chi di Iarba è seguace
esser fido non può.
Araspe. Bella Selene,
puoi tu sola avanzarti
a tacciarmi così.
Selene. T’accheta e parti.
Araspe. Tacerò, se tu lo brami;
ma fai torto alla mia fede,
se mi chiami traditor.
Porterò lontano il piede;
ma di questi sdegni tuoi
so che poi tu avrai rossor. (parte)
SCENA IX
Selene ed Enea.
Enea. Allorché Araspe a provocar mi venne,
del suo signor sostenne
le ragioni con me. La sua virtude
se condannar pretendi,
troppo quel core ingiustamente offendi.
Selene. Sia qual ei vuole Araspe, or non è tempo
di favellar di lui. Brama Didone
teco parlar.
Enea. Poc’anzi
dal suo real soggiorno io trassi il piede.
Se di nuovo mi chiede
ch’io resti in questa arena,
invan s’accrescera la nostra pena.
Selene. Come fra tanti affanni,
cor mio, chi t’ama abbandonar potrai?
Enea. Selene, a me «cor mio»?
Selene. È Didone che parla, e non son io.
Enea. Se per la tua germana
cosí pietosa sei,
non curar piú di me, ritorna a lei.
Dille che si consoli,
che ceda al fato e rassereni il ciglio.
Selene. Ah no! Cangia, mio ben, cangia consiglio.
Enea. Tu mi chiami tuo bene?
Selene. È Didone che parla, e non Selene.
Vieni e l’ascolta. È l’unico conforto
ch’ella implora da te.
Enea. D’un core amante
quest’è il solito inganno:
va cercando conforto, e trova affanno.
Tormento il piú crudele
d’ogni crudel tormento
è il barbaro momento,
che in due divide un cor.
È affanno sí tiranno,
che un’alma nol sostiene.
Ah! nol provar, Selene,
se nol provasti ancor. (parte)
SCENA X
Selene sola.
Stolta! per chi sospiro? Io senza speme
perdo la pace mia. Ma chi mi sforza
invano a sospirar? Scelgasi un core
piú grato a’ voti miei. Scelgasi un volto
degno d’amor. Scelgasi... Oh Dio! la scelta
nostro arbitrio non è. Non è bellezza,
non è senno o valore,
che in noi risvegli amore; anzi talora
il men vago, il piú stolto è che s’adora.
Bella ciascuno poi finge al pensiero
la fiamma sua; ma poche volte è vero.
Ogni amator suppone
che della sua ferita
sia la beltá cagione;
ma la beltá non è.
È un bel desio che nasce
allor che men s’aspetta;
si sente che diletta,
ma non si sa perché. (parte)
SCENA XI
Gabinetto con sedie.
Didone, poi Enea.
Didone. Incerta del mio fato
io piú viver non voglio. È tempo ormai
che per l’ultima volta Enea si tenti.
Se dirgli i miei tormenti,
se la pietá non giova,
faccia la gelosia l’ultima prova.
Enea. Ad ascoltar di nuovo
i rimproveri tuoi vengo, o regina.
So che vuoi dirmi ingrato,
perfido, mancator, spergiuro, indegno:
chiamami come vuoi, sfoga il tuo sdegno.
Didone. No, sdegnata io non sono. Infido, ingrato,
perfido, mancator piú non ti chiamo;
rammentarti non bramo i nostri ardori:
da te chiedo consigli, e non amori.
Siedi. (siedono)
Enea. (Che mai dirá?)
Didone. Giá vedi, Enea,
che fra nemici è il mio nascente impero.
Sprezzai finora, è vero,
le minacce e ’l furor; ma Iarba offeso,
quando priva sarò del tuo sostegno,
mi torrá per vendetta e vita e regno.
In cosí dubbia sorte
ogni rimedio è vano:
deggio incontrar la morte,
o al superbo african porger la mano.
L’uno e l’altro mi spiace e son confusa.
Alfin femmina e sola,
lungi dal patrio ciel, perdo il coraggio,
e non è meraviglia
s’io risolver non so. Tu mi consiglia.
Enea. Dunque, fuor che la morte
o il funesto imeneo,
trovar non si potria scampo migliore?
Didone. V’era pur troppo.
Enea. E quale?
Didone. Se non sdegnava Enea d’esser mio sposo,
l’Africa avrei veduta
dall’arabico seno al mar d’Atlante
in Cartago adorar la sua regnante:
e di Troia e di Tiro
rinnovar si potea... Ma che ragiono?
L’impossibil mi fingo, e folle io sono.
Dimmi, che far degg’io? Con alma forte,
come vuoi, sceglierò Iarba o la morte.
Enea. Iarba o la morte! E consigliarti io deggio?
Colei che tanto adoro
all’odiato rival vedere in braccio!
Colei...
Didone. Se tanta pena
trovi nelle mie nozze, io le ricuso:
tua, per tôrmi agl’insulti,
necessario è il morir. Stringi quel brando;
svena fa tua fedele:
è pietá con Didone esser crudele.
Enea. Ch’io ti sveni? Ah! piú tosto
cada sopra di me del ciel lo sdegno.
Prima scemin gli dèi,
per accrescer tuoi giorni, i giorni miei.
Didone. Dunque a Iarba mi dono. Olá! (esce un paggio)
Enea. Deh! ferma.
Troppo, oh Dio! per mia pena
sollecita tu sei.
Didone. Dunque mi svena.
Enea. No, si ceda al destino: a Iarba stendi
la tua destra real: di pace priva
resti l’alma d’Enea, purché tu viva.
Didone. Giacché d’altri mi brami,
appagarti saprò. Iarba si chiami. (il paggio parte)
Vedi quanto son io
ubbidiente a te.
Enea. Regina, addio. (s’alzano)
Didone Dove? dove? T’arresta:
del felice imeneo
ti voglio spettatore.
(Resister non potrá.)
Enea. (Costanza, o core!)
SCENA XII
Iarba e detti.
Iarba. Didone, a che mi chiedi?
Sei folle, se mi credi
dall’ira tua, da tue minacce oppresso.
Non si cangia il mio cor; sempre è l’istesso.
Enea. (Che arroganza!)
Didone. Deh! placa
il tuo sdegno, o signor. Tu, col tacermi
il tuo grado e il tuo nome,
a gran rischio esponesti il tuo decoro;
ed io... Ma qui t’assidi,
e con placido volto
ascolta i sensi miei.
Iarba. Parla, t’ascolto.
(siedono Iarba e Didone)
Enea. Permettimi che ormai... (in atto di partire)
Didone. Férmati e siedi.
Troppo lunghe non fian le tue dimore.
(Resister non potrá.)
Enea. (Costanza, o core!)
Iarba. Eh! vada. Allor che teco
Iarba soggiorna, ha da partir costui.
Enea. (Ed io lo soffro?)
Didone. In lui,
invece di un rival, trovi un amico.
Ei sempre a tuo favore
meco parlò: per suo consiglio io t’amo.
Se credi menzognero
il labbro mio, dillo tu stesso. (ad Enea)
Enea. È vero.
Iarba. Dunque nel re de’ mori
altro merto non v’è che un suo consiglio?
Didone. No, Iarba; in te mi piace
quel regio ardir, che ti conosco in volto;
amo quel cor sí forte,
sprezzator dei perigli e della morte.
E se il ciel mi destina
tua compagna e tua sposa...
Enea. Addio, regina.
Basta che fin ad ora
t’abbia ubbidito Enea.
Didone. Non basta ancora.
Siedi per un momento.
(Comincia a vacillar.)
Enea. (Questo è tormento!)
(torna a sedere)
Iarba. Troppo tardi, o Didone,
conosci il tuo dover. Ma pure io voglio
donar gli oltraggi miei
tutti alla tua beltá.
Enea. (Che pena, o dèi!)
Iarba. In pegno di tua fede
dammi dunque la destra.
Didone. Io son contenta.
(lentamente, ed interrompendo le parole per osservarne l’effetto in Enea)
A piú gradito laccio Amor pietoso
stringer non mi potea.
Enea. Piú soffrir non si può. (s’alza agitato)
Didone. Qual ira, Enea?
Enea. E che vuoi? Non ti basta
quanto finor soffrí la mia costanza?
Didone. Eh! taci.
Enea. Che tacer? Tacqui abbastanza.
Vuoi darti al mio rivale,
brami ch’io tel consigli,
tutto faccio per te; che piú vorresti?
Ch’io ti vedessi ancor fra le sue braccia?
Dimmi che mi vuoi morto, e non ch’io taccia.
Didone. Odi. A torto ti sdegni. (s’alza)
Sai che per ubbidirti...
Enea. Intendo, intendo:
io sono il traditor, son io l’ingrato:
tu sei quella fedele,
che per me perderebbe e vita e soglio:
ma tanta fedeltá veder non voglio. (parte)
SCENA XIII
Didone e Iarba.
Didone. Senti!
Iarba. Lascia che parta. (s’alza)
Didone. I suoi trasporti
a me giova calmar.
Iarba. Di che paventi?
Dammi la destra, e mia
di vendicarti poi la cura sia.
Didone. D’imenei non è tempo.
Iarba. Perché?
Didone. Piú non cercar.
Iarba. Saperlo io bramo.
Didone. Giacché vuoi, tel dirò: perché non t’amo,
perché mai non piacesti agli occhi miei,
perché odioso mi sei, perché mi piace,
piú che Iarba fedele, Enea fallace.
Iarba. Dunque, perfida, io sono
un oggetto di riso agli occhi tuoi!
Ma sai chi Iarba sia?
Sai con chi ti cimenti?
Didone. So che un barbaro sei, né mi spaventi.
Iarba. Chiamami pur cosí:
forse, pentita, un dí
pietá mi chiederai;
ma non l’avrai da me.
Quel barbaro, che sprezzi,
non placheranno i vezzi:
né soffrirá l’inganno
quel barbaro da te. (parte)
SCENA XIV
Didone sola.
E pure in mezzo all’ire
trova pace il mio cor. Iarba non temo;
mi piace Enea sdegnato, ed amo in lui,
come effetti d’amor, gli sdegni sui.
Chi sa? Pietosi numi,
rammentatevi almeno
che foste amanti un dí, come son io,
ed abbia il vostro cor pietá del mio.
Va lusingando Amore
il credulo mio core:
gli dice: — Sei felice; —
ma non sará cosí.
Per poco mi consolo;
ma piú crudele io sento
poi ritornar quel duolo,
che sol per un momento
dall’alma si partí. (parte)