< Divina Commedia (Guerri) < Inferno
Questo testo è stato riletto e controllato.
Canto IX
Inferno - Canto VIII Inferno - Canto X

CANTO IX

     Quel color che viltá di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
3piú tosto dentro il suo novo ristrinse.
     Attento si fermò com’uom ch’ascolta;
ché l’occhio nol potea menare a lunga
6per l’aere nero e per la nebbia folta.
     «Pur a noi converrá vincer la punga,»
cominciò el «se non... Tal ne s’offerse...
9Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!»
     I’ vidi ben sí com’ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne,
12che fur parole a le prime diverse;
     ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’io traeva la parola tronca
15forse a peggior sentenzia ch’e’ non tenne.
     «In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
18che sol per pena ha la speranza cionca?»
     Questa question fec’io; e quei «Di rado
incontra» mi rispose «che di nui
21faccia ’l cammino alcun per qual io vado.
     Vero è ch’altra fiata qua giú fui,
congiurato da quella Eritòn cruda
24che richiamava l’ombre a’ corpi sui.
     Di poco era di me la carne nuda,
ch’ella mi fece intrar dentr’a quel muro,
27per trarne un spirto del cerchio di Giuda.

     Quell’è ’l piú basso loco e ’l piú oscuro
e ’l piú lontan dal ciel che tutto gira;
30ben so il cammin, però ti fa sicuro.
     Questa palude che ’l gran puzzo spira
cinge dintorno la cittá dolente,
33u’ non potemo intrare omai senz’ira».
     E altro disse, ma non l’ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
36ver l’alta torre a la cima rovente,
     dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
39che membra femminine avieno e atto,
     e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avean per crine,
42onde le fiere tempie erano avvinte.
     E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’eterno pianto,
45«Guarda» mi disse «le feroci Erine:
     quest’è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
48Tesifone è nel mezzo»; e tacque a tanto.
     Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme; e gridavan sí alto,
51ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.
     «Vegna Medusa, sí ’l farein di smalto!»
dicevan tutte riguardando in giuso:
54«mal non vengiammo in Teseo l’assalto».
     «Volgiti in dietro e tien lo viso chiuso;
ché se il Gorgon si mostra, e tu ’l vedessi,
57nulla sarebbe del tornar mai suso».
     Cosí disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
60che con le sue ancor non mi chiudessi.
     O voi ch’avete li ’intelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
63sotto ’l velame de li versi strani.

     E giá venia su per le torbid’onde
un fracasso d’un suon pien di spavento,
66per che tremavano amendue le sponde,
     non altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso per li avversi ardori,
69che fier la selva e senz’alcun rattento
     li rami schianta, abbatte e porta fuori;
dinanzi polveroso va superbo,
72e fa fuggir le fiere e li pastori.
     Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
75per indi ove quel fummo è piú acerbo».
     Come le rane innanzi a la nemica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
78fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,
     vid’io piú di mille anime distrutte
fuggir cosí dinanzi ad un ch’al passo
81passava Stige con le piante asciutte.
     Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
84e sol di quell’angoscia parea lasso.
     Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro: e quei fe’ segno
87ch’i’ stessi queto e inchinassi ad esso.
     Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta, e con una verghetta
90l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.
     «O cacciati del ciel, gente dispetta,»
cominciò elli in su l’orribil soglia
93«ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?
     Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non può il fin mai esser mozzo,
96e che piú volte v’ha cresciuta doglia?
     Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
99ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».

     Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fe’ motto a noi, ma fe’ sembiante
102d’uomo cui altra cura stringa e morda
     che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver la terra,
105sicuri appresso le parole sante.
     Dentro li entrammo senz’alcuna guerra;
e io, ch’avea di riguardar disio
108la condizion che tal fortezza serra,
     com’io fui dentro, l’occhio intorno invio;
e veggio ad ogne man grande campagna
111piena di duolo e di tormento rio.
     Sí come ad Arli, ove Rodano stagna,
sí com’a Pola, presso del Carnaro
114ch’Italia chiude e suoi termini bagna,
     fanno i sepolcri tutt’il loco varo,
cosí facevan quivi d’ogni parte,
117salvo che ’l modo v’era piú amaro;
     ché tra li avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sí del tutto accesi,
120che ferro piú non chiede verun’arte.
     Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n’uscivan sí duri lamenti,
123che ben parean di miseri e d’offesi.
     E io: «Maestro, quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell’arche,
126si fan sentir con li sospir dolenti?»
     Ed elli a me: «Qui son li eresiarche
co’ lor seguaci, d’ogni setta, e molto
129piú che non credi son le tombe carche.
     Simile qui con simile è sepolto,
e i monimenti son piú e men caldi».
132E poi ch’a la man destra si fu vòlto,
     passammo tra i martíri e li alti spaldi.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.