< Don Chisciotte della Mancia
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Capitolo IV Capitolo VI





CAPITOLO V.


Ancora della disgrazia avvenuta al nostro cavaliere.



Conoscendo poi don Chisciotte che non poteva muoversi da sè solo, pensò di ricorrere al suo consueto rimedio, ch’era di meditare intorno a qualche passo de’ libri suoi; e la bile gli ridusse nella memoria quello di Baldovino e del marchese di Mantova, quando Carlotto lo abbandonò ferito sopra una montagna; storia nota ai bambini, non isconosciuta ai giovani, celebrata e creduta dai vecchi, ma con tutto questo non più vera dei miracoli di Maometto. Gli parve che questa calzasse appuntino allo stato in cui si trovava, e perciò mostrando di provare un dolore gravissimo, cominciò a voltolarsi per terra, ripetendo con fioca voce quello appunto ch’è fama dicesse il ferito cavaliere del bosco:

Dove stai, vaga signora,
Che non duolti del mio mal?
O il mio mal da te s’ignora,
O sei falsa e disleal.

E di questo passo andava proseguendo la canzone sino a que’ versi che dicono:

O di Mantova marchese,
O mio zio e signor carnal.

Ma volle la sorte, che in quel momento passasse di là un contadino del suo paese e vicino suo, che tornava dal mulino dove avea condotta una soma di grano. Vedendo egli un uomo steso in terra a quel modo, se gli fece dappresso, gli domandò chi fosse, e che male avesse, chè tanto si lamentava. Don Chisciotte credette senza alcun dubbio che colui fosse il marchese di Mantova suo zio; però in vece di ogni risposta proseguì la romanza colla quale lo informava della sua sventura e degli amori del figlio dell’imperatore con la sua sposa, nel modo appunto che si canta nella canzone1. Il contadino maravigliato di quelle stranezze, gli levò la visiera, già pesta dalle percosse, e si diede a nettargli la faccia ch’era tutta coperta di polvere; nè gliel ebbe appena nettata che subito lo conobbe, e gli disse: “Signor Chisciada (così soleva chiamarsi quand’avea buon giudizio, e prima di cambiarsi da tranquillo idalgo in cavaliere errante), chi trattò per tal modo vossignoria?„ Egli non rispondeva, ma ad ogni domanda ripigliava la sua canzone. Laonde il buon uomo con tutta la possibile diligenza gli trasse la corazza e gli spallacci per conoscere s’era stato ferito; ma non trovò nè sangue nè segno alcuno. Procurò pertanto di rizzarlo da terra, e con molta fatica giunse a metterlo attraverso del suo giumento, sembrandogli più agiata cavalcatura. Raccolse l’arme tutte, fino alle schegge della lancia, e le buttò in un fascio sopra Ronzinante, poi preso questo per la briglia, e l’asino per la cavezza, s’incamminò verso la sua Terra,

non senza grande apprensione nel sentire gli spropositi che dicea don Chisciotte; il quale tutto confuso e mal reggendosi sull’asino, talmente era pesto! di tanto in tanto mandava sospiri che giugnevano al cielo. Il villano gli domandò di nuovo che mal si sentisse; ma pareva che il diavolo a bella posta gli riducesse nella memoria le avventure tutte che avevano somiglianza con quella sua. Perocchè dimenticandosi di Baldovino a quel punto si risovvenne del moro Aben-Darraez, quando il castellano d’Antechera, Roderigo

di Narvaez, lo prese e lo menò prigioniero al proprio castello. Di maniera che domandandolo ancora il villano dello stato suo, e come si sentisse della persona, gli rispose colle stesse parole con cui il prigioniero Aben-Darraez avea risposto a Rodrigo di Narvaez, applicando a sè stesso quanto avea letto nella Diana di Giorgio di Montemaggiore. Il contadino strabiliava sentendo tante bestialità, e finalmente avvedutosi che il suo vicino avea dato volta al cervello, si diede a punzecchiare il suo asino per tornar presto al paese, e togliersi con ciò dal malincuore che gli procurava don Chisciotte co’ suoi vaneggiamenti. Questi intanto così proruppe: “Sappia la signoria vostra, signor don Diego di Narvaez, che la vezzosa Seriffa, di cui ho parlato, è di presente la vaga Dulcinea del Toboso, per amor della quale io feci e faccio e farò le più famose gesta di cavalleria che siensi finora vedute, o si veggano, e si debbano mai vedere nel mondo„. A tutto questo soggiunse il contadino: “Oh la Signoria vostra s’inganna! meschino di me! io non sono altrimenti Rodrigo di Narvaez, nè il marchese di Mantova, ma sibbene Piero Alonso vicino suo; nè vossignoria è Baldovino o Aben-Darraez, ma l’onorato idalgo signor Chisciada. — Io sono chi sono, rispose don Chisciotte, e so molto bene che non solo posso essere quelli che ho detto, ma sì anche tutti i dodici paladini di Francia, ed eziandio tutti i Nove della Fama2, perchè le prodezze che fecero o tutti insieme o ciascuno da sè non supererebbero mai quelle che posso fare io solo„. Con queste e somiglianti smargiasserie giunsero alla Terra sul far della notte, e il contadino giudicò savio partito l’attendere che il bujo crescesse un poco affinchè non fosse veduto il bastonato idalgo così infelice cavaliere. Entrò finalmente nel paese, e fu all’abitazione di don Chisciotte, la quale era tutta sossopra. Vi si trovavano il curato ed il barbiere, ch’erano grandi amici di don Chisciotte, ai quali la serva con alta voce stava dicendo: “Che ne sembra a vostra signoria, signor dottore Pietro Perez (così chiamavasi il curato) della disgrazia del mio padrone? Sono già passati sei giorni da che nè egli si vede, nè il ronzino, nè la targa, nè la lancia, nè l’armatura; poveraccia di me! credo fermamente, e com’è certo ch’io sono nata per morire, che questi maledetti libri di cavalleria ch’egli ha e legge continuamente, l’abbiano fatto uscir di cervello; chè ora ben mi sovviene d’averlo inteso dire più volte, parlando fra sè medesimo, che bramava di farsi cavaliere errante e di andare pel mondo in cerca di avventure. Così ne li portasse o Satanna, o Barabba cotesti libri, che hanno guasto e sconvolto il più fino cervello che vantar potesse la Mancia„. La nipote poi proseguiva dicendo le stesse cose, e aggiungeva di più: “Sappia, signor maestro Nicolò (questo era il nome del barbiere) che mille volte è avvenuto al mio signor zio di spendere nella lettura di questi maledetti libri due notti e due giorni continui; a capo dei quali gettavali poi da banda, e impugnata la spada andava a pigliarsela colle pareti; finchè stanco e spossato, dicea d’avere ammazzato quattro giganti grandi come quattro torri, e volea che fosse sangue delle ferite da lui ricevute in battaglia il sudore che lo copriva per la soverchia fatica. Dava allora di piglio ad un gran boccale d’acqua fresca, e se la beveva sin all’ultima goccia, con che risanava e rimettevasi in tranquillità; affermando che quell’acqua era una bevanda preziosissima, dono del savio Eschifo3, celebre incantatore e suo amico. Ah! debbo accusare me stessa di tanto male; chè se avessi informate le signorie vostre delle follie del mio signor zio, ci avrebbero posto rimedio prima che fosse giunto a questo termine; e que’ suoi scomunicati libri li avrebbero dati alle fiamme: chè molti ne ha certamente degni di essere abbruciati come i libri degli eresiarchi„. — Sono anch’io dello stesso avviso, soggiunse il curato, e vi giuro in fede mia, che non passerà dimani senza che averne fatto un auto-da-fè, dannandoli tutti al fuoco, affinchè non siano occasione a qualche altro di fare ciò che il mio povero amico debbe aver fatto„.

Don Chisciotte ed il contadino udirono siffatti discorsi; laonde quest’ultimo convinto intieramente della malattia del suo vicino, si diede a gridare: Facciano largo le signorie vostre al signor Baldovino, e al signor marchese di Mantova che arriva ferito pericolosamente; facciano largo al signor moro Aben-Darraez che trae seco prigione il prode Rodrigo di Narvaez castellano di Antechera„. A queste parole uscirono tutti e conobbero gli uni l’amico, le altre il padrone e lo zio, che non aveva per anche potuto smontare dall’asino, tanto era malconcio. Corsero ad abbracciarlo, ma incontanente egli disse: “Fermatevi tutti, ch’io vengo malamente ferito per colpa del mio cavallo; mettetemi nel mio letto, e chiamate, se è possibile, la savia medichessa Urganda, affinchè vegga che sorta di ferite son queste mie. — Oh guardate mo, disse allora la serva, se il cuore mi diceva di che piede zoppica il mio padrone! Eh venga in buon’ora la signoria vostra, che da noi sole sapremo guarirla senza che la signora Urganda se ne ingerisca nè punto nè poco. Siano pur maladetti, lo ripeto una e mille altre volte, questi libri di cavalleria che han condotto vossignoria a sì tristo partito.„ Quindi lo adagiarono subito sul letto, e cercatolo in ogni parte del corpo non trovarono che fosse punto ferito. Don Chisciotte poi disse loro ch’egli era a quella guisa malconcio per essere stramazzato col suo cavallo Ronzinante combattendo a fronte di dieci giganti de’ più forti e ardimentosi che trovar si potessero sulla terra. “Ve’ ve’, disse il curato, anche giganti in ballo! per fede mia, non son chi sono se dimani prima che giunga la notte io non li do tutti alle fiamme„. Fecero mille domande a don Chisciotte, ma egli nient’altro rispondeva se non che gli portassero da mangiare, e lo lasciassero dormire, poichè di questo più che d’ogni altra cosa aveva bisogno. Così seguì; e il curato frattanto più a lungo domandò il contadino come gli fosse avvenuto di trovar don Chisciotte. L’altro lo informò d’ogni cosa, ed anche delle stranezze che gli aveva sentito dire quando lo trovò, e poi lungo il cammino: d’onde si accrebbe nel curato la voglia di fare quello che fece nel giorno seguente, cioè di chiamare a sè il suo amico barbiere maestro Nicolò, e di venirne con lui alla casa di don Chisciotte.


  1. Questa romanza d’ignoto autore si trova nel Cancionero stampato in Anversa nel 1555. Ivi è raccontato che Carlotto figliuolo di Carlomagno attirò Baldovino nel Bosco della sventura con intenzione di ucciderlo per divenir poi marito della vedova di lui. Lo lasciò in fatti morto nel bosco con ventidue ferite nella persona. Il marchese di Mantova zio di Baldovino trovandosi per caso a caccia in que’ luoghi sentì i lamenti del ferito, e lo riconobbe. Quindi mandò un’ambasciata a Parigi per domandare giustizia dall’Imperatore, il quale ordinò che suo figlio fosse punito colla morte.
  2. I Nove della Fama, sono tre ebrei, Giosuè, Davide e Giuda Macabeo; tre gentili, Ettore, Alessandro e Cesare; e tre cristiani, Arturo, Carlomagno e Goffredo di Buglione.
  3. Propriamente Alchife, che scrisse la Cronaca di Amadigi di Grecia. Ma la nipote di don Chisciotte ne storpia il nome.


Note

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