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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO XI.
Di quello che avvenne a don Chisciotte con alcuni caprai.
Non giugneano i caprai ad intendere quel gergo di scudieri e cavalieri erranti; però mangiavano e tacevano tenendo gli occhi sui loro convitati, i quali con molta disinvoltura ingozzavano bocconi grossi come un pugno. Dopo mangiata la capra si pose in tavola una grande quantità di ghiande abbrustolite, e con esse una mezza forma di cacio più duro di un pezzo di smalto. Non istava frattanto oziosa la scodella di corno, ma andava attorno or vuota or piena, come la secchia che girando sulla rotella trae l’acqua dal pozzo, di modo che ben presto fu vuotato uno dei fiaschi che erano in mostra. Dopo che don Chisciotte ebbe il ventre bene pasciuto, prese una manata di ghiande, e guardandole attentamente, così si fece a dire: “Età fortunata, secoli avventurosi quelli che furon chiamati dagli antichi secoli d’oro! e non già perchè quell’oro, tanto stimato da questa nostra età di ferro, si conquistasse allora con minor fatica, ma perchè da quelli che viveano allora ignoravansi le due parole Tuo e Mio. Comuni a tutti erano le cose in quella età innocentissima; nessuno avea d’uopo per alimentarsi se non se di alzare la mano e di cogliere dalle robuste querce quel frutto saporoso e maturo che loro offerivano liberalmente. Le limpide fonti e gli scorrevoli ruscelli, dolci ed abbondanti acque somministravano. Nelle fessure delle rupi e nel vòto degli alberi stabilivano la repubblica loro le diligenti ingegnose api, offrendo senza premio veruno a qualunque rustica o gentil mano il frutto del dolcissimo loro lavoro. I grandi sugheri fornivano larghe e leggiere scorze per coprire le abitazioni fabbricate sopra rustiche travi, unicamente per difenderle dalla inclemenza del cielo. Tutto in quel tempo era pace, tutto amicizia, tutto concordia; nè ancora il pesante vomero del curvo aratro aveva ardito di aprire e investigare le viscere della prima nostra madre, perchè senza essere forzata da chicchessia porgeva da ogni banda del fertile e spazioso suo seno quanto poteva nutrire, sostenere e dilettare i figli che allora la possedevano. Le vaghe e semplici pastorelle andavano scorrendo di valle in valle e di collina in collina co’ capelli negletti, senza industriose trecce, senza più vesti di quelle necessarie a coprire ciò che in ogni tempo l’onestà comandò di celare. Non erano superfluamente adorni gli abiti come quelli dei nostri giorni che tinti vanno della porpora di Tiro, nè usavasi della seta in tante guise martirizzata. Erano allora le vesti tessute semplicemente con alcune foglie di verdi rombici e di ellera; e di questo apparivano così pompose e composte, come oggidì le dame di corte con tutte le rare e peregrine invenzioni insegnate dall’oziosa curiosità. Allora gli amorosi concetti dell’anima appalesavansi con quella semplicità colla quale nascevano, nè conoscevasi quel giro artifizioso di parole che li rende ora pericolosi, nè si sapeva che cosa fosse la frode; e nella verità e nel candore non frammischiavasi la malizia o l’inganno. La giustizia esercitava i suoi diritti senza che osassero recarle offesa l’interesse o il favore, dai quali a’ nostri giorni è contaminata e avvilita: e non conosceva la legge che cosa fosse arbitrio di giudici, perchè non eravi allora materia da giudicare o di cui domandare sentenza. Le oneste donzelle se ne andavano, come dissi, dovunque loro piaceva sole e signore di sè stesse, senza timore che l’altrui seduzione e sfacciataggine potessero macchiarle; se alcune perdevansi, n’era colpa la proprio loro volontà. Ma ora in questi nostri detestabili tempi nessuna giovane è sicura, quand’anche fosse custodita in un labirinto simile a quello di Creta; chè anche là per i buchi e per l’aria, per opera di una maledetta istigazione penetra l’amoroso contagio, e ne sovverte ogni buon principio. Ad oggetto pertanto di accorrere alla loro sicurezza, procedendo i tempi e crescendo ogni dì più la malizia, si è istituito l’ordine de’ cavalieri erranti, che difende le donzelle, tutela le vedove, e soccorre gli orfani, e tutti indistintamente coloro che han bisogno d’aiuto. Io sono di quest’ordine, caprai fratelli, ed aggradisco la cordiale accoglienza che faceste a me ed al mio scudiere; e quantunque per legge naturale siano obbligati tutti i viventi a dar favore agli erranti cavalieri, tuttavia conoscendo io che voi, senza sapere tale obbligo vostro, mi avete sì cortesemente accolto e favorito, è ben giusto che vi manifesti nella miglior guisa ch’io sappia, il mio gradimento„.
Tutta questa lunga diceria (che poteasi molto bene intralasciare) fu proferita dal nostro cavaliere perchè le ghiande che gli furono poste innanzi, gli fecero tornar in mente l’età dell’oro, e gli suggerirono di fare quell’inutile ragionamento ai caprai, i quali, senza mai aprir bocca, attoniti e maravigliati lo stettero ascoltando. Taceva anche Sancio, ma attendeva a ingollar ghiande visitando il secondo otro ch’era sospeso ad un ramo di sughiero, affinchè il vino si conservasse più fresco. Terminò la cena prima che don Chisciotte avesse finito di ragionare, ed uno de’ caprai si mise a dire: “Affinchè la signoria vostra, signor cavaliere errante, possa raccontare con maggior fondamento che qui è stata accolta con tutto buon cuore, vogliamo darle trattenimento e piacere con farle udire il canto di un nostro compagno, che non tarderà molto a venire. Egli è un giovane di buon giudizio e molto innamorato, e sopra tutto sa leggere e scrivere, e suona il ribecchino sì bene, che più non si potrebbe desiderare„. Appena il capraio ebbe ciò detto, che s’udì suonare quello stromento, e di lì a poco giunse il suonatore, ed era un giovane di ventidue anni e di assai buona grazia. I compagni suoi gli domandarono se aveva cenato, e rispose che sì; laonde colui che già prima aveva parlato di lui, gli disse: “Dunque, Antonio, potrai compiacerti di cantare un poco, affinchè questo nostro signor ospite vegga che si trova chi sa di musica anche tra i monti e le selve. Lo abbiamo informato della tua molta bravura, e desideriamo che tu gliene dia prove per non farci apparir menzogneri: ti prego per quanto sei buono a sederti ed a cantare la canzonetta degli Amori che compose il Benefiziato tuo zio, e che piacque tanto in tutto il nostro paese. — Oh volentieri, rispose il giovine; e senza farsi pregare altrimenti, si mise a sedere sul tronco di una recisa quercia, ed accordato il suo ribecchino, cominciò di là a poco il suo canto con assai gentil grazia in questa guisa:
“Tu m’adori, Olalla, ed io mel so, benchè tu non me l’abbi detto, nemmanco cogli occhi, mute lingue degli amori.
“Dachè scorsi che tu m’hai letto nel cuore, io confido che mi ami; però che amor conosciuto non fu mai infelice.
“Vero è bene che tu spesse volte mi desti indizio d’avere alma di bronzo e cuor di macigno nel bianco seno;
“Ma in mezzo alle ripulse ed agli onesti rimprocci, tal fiata anche la speranza mi ha pur mostrato il lembo della sua veste.
“E quindi a te costante si volge la mia fede, la quale nè per austero contegno vien meno, nè per gentilezza piglia baldanza.
“Ma se amore è cortesia, da quella che tu mi mostri io argomento quale debba essere il fine delle mie speranze:
“E se mai servitù può render benevolo un cuore, quella ch’io ti presto avvalora la mia fiducia.
“Tu per certo vedendomi ti sarai accorta ch’io nei dì del lavoro spesse volte m’indosso l’abito della festa;
“Perocchè sapendo che Amore e Gala vanno per uno stesso cammino, io ho voluto sempre apparirti pomposamente vestito.
“Taccio le danze fatte per te, e le canzoni che tu mi sentisti cantar la mattina quando cantano i galli.
“Taccio con quante lodi io celebrai la tua bellezza; le quali comunque veraci pur m’attiraron lo sdegno di alcune altre fanciulle.
“E la Teresa del Berocal un giorno mentr’io ti lodava mi disse: Tal pensa adorare un angelo e adora invece una scimmia,
“Illuso dai molti giojelli, dalle chiome posticce e da mentite bellezze che ingannano lo stesso Amore.
“Io la chiamai mentitrice; ed ella se ne adontò. Suo cugino levossi a difenderla, e già sai quello che l’uno e l’altro facemmo.
“Nè l’amor ch’io ti porto è spensierato, nè io t’amo con perversa intenzione.
“La Chiesa ha serici nodi da legar l’anime: piega il tuo collo a quel giogo, e vedrai s’io son presto a sottomettervi il mio.
“Ma se tu ricusi, io giuro pel mio santo benedetto di non uscir più di queste montagne se non per rendermi cappuccino„.
Così terminò il capraio il suo canto, e quantunque don Chisciotte lo pregasse di continuare, nol consentì Sancio Panza come colui che aveva molto maggior voglia di dormire che di ascoltare canzoni. Disse perciò al suo padrone: “Oramai converrà che la signoria vostra stabilisca dove intende di passar questa notte, perchè il lavoro a cui queste buone genti attendono tutto il giorno, non permette loro di passar la sera fra i canti. — Ah, ah, t’intendo, rispose don Chisciotte, e mi accorgo che le tue visite agli otri vogliono ricompensa di sonno più che di musica. — Non è cosa che dispiaccia ad alcuno, rispose Sancio; sia lodato il cielo. — Nol nego, replicò don Chisciotte, e prendi pure il tuo comodo; ma agli uomini della mia professione, meglio s’addice il vegliare che l’abbandonarsi al sonno; innanzi tutto però sarà bene medicarmi un’altra volta quest’orecchio; chè mi duol più che mai. Obbedì Sancio, e uno de’ caprai vedendo la ferita, gli disse di non darsene pensiero, giacchè gli applicherebbe un rimedio che facilmente lo guarirebbe. Prese in fatti alcune foglie di ramerino, di cui vi era grand’abbondanza in que’ monti, le masticò, e meschiatovi un po’ di sale, gliele applicò all’orecchio, e lo fasciò con gran diligenza, accertandolo che non abbisognerebbero di altre medicine, e disse la verità.