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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO XLIII.
Storia gradevole del vetturino, con altri strani avvenimenti successi nella storia.
“Vo seguitando una stella che da lontano mi splende più bella e più rilucente di quante ne vide mai Palinuro.
“Ignoro dov’ella mi guidi; e così navigo confuso coll’anima tutta in lei sola, nè d’altro pensiero occupata.
“Importuni riguardi e non usata onestà sono le nubi nelle quali s’avvolge allorchè mi sforzo di affissarmi in lei.
“O Chiara, brillante stella, il cui raggio mi consuma, il punto in cui tu sarai velata al mio sguardo, sarà il punto della mia morte!„
Quando il cantore arrivò a questo passo, parve a Dorotea che fosse mal fatto che Chiara ancora non godesse di sì bella voce, e perciò scuotendola la chiamò, dicendo: — Perdonami, o giovinetta, se ti risveglio, ma desidero che tu pure gusti di una voce tanto soave, quale non avrai forse più udita„. Chiara svegliossi, ma sonnacchiosa ancora non intese ciò che Dorotea le dicesse, e tornando a domandarglielo ella ripetè il già detto. Chiara cominciò allora a starsene attenta; ma non ebbe appena uditi due versi, che la colse un tremito sì grande come se la quartana l’avesse assalita, anzi abbracciando strettamente Dorotea, le disse: — Deh! mia buona ed amorosa signora, perchè mai mi avete svegliata? Il maggior bene che la fortuna potesse farmi per ora si era di tenermi chiusi gli occhi e l’udito per non veder nè sentire questo sventurato cantore! — Che dici tu, mia buona fanciulla? replicò Dorotea; bada bene che colui che canta è un condottiero di mule. — Egli è un siguore che ha vassalli, rispose Chiara, e sì padrone di quest’anima mia, che nessuno potrà discacciarnelo mai, a meno che non si stanchi egli medesimo di restarne al possesso„. Rimase maravigliata Dorotea di ciò che intese dalla giovane, sembrandole che la qualità delle sue espressioni, e il suo giudizio fossero superiori all’età che dimostrava, e perciò le soggiunse: — Voi parlate in modo, o buona ragazza, che non vi so intendere; dichiaratevi più apertamente e rispondetemi: Che significa ciò che dite di anima e di vassalli, e di questo musico, la cui voce v’inquieta tanto? Ma no, tacete per ora; chè la brama di conoscere la causa delle vostre inquietudini non mi tolga il piacere che provo nell’ascoltare il cantore, il quale già ricomincia con nuovi versi e con altro tuono. — Fate ciò che vi aggrada, rispose Chiara, ma per nulla sentire ella si turò gli orecchi con ambe le mani, del che non poco si maravigliò Dorotea, la quale stando attenta al cantore udì che proseguiva nel modo seguente:
“O mia dolce speranza, che vincendo insuperabili ostacoli, seguiti la via che tu medesima ti hai trovata ed aperta, non ismarrirti comunque ti trovi presso all’ultimo passo.
“Non sono de’ peritosi gli onorati trionfi e la vittoria; nè coloro conseguono la felicità, i quali non contrastano alla fortuna, e tutti i lor sentimenti commettono all’ozio.
“Ben è ragionevole e giusto che Amore venda a caro prezzo le sue glorie, poichè non ha il mondo miglior tesoro: ed è manifesto che tiensi a vile ciò che a vil pregio s’acquista.
“L’amorosa perseveranza compie talvolta cose impossibili: però sebbene io mi sia proposto un fine malagevolissimo, non dispero per ciò di levarmi dalla terra al cielo!„
Qui ebbe fine il canto, e qui cominciarono nuovi singhiozzi di Chiara; d’onde si accrebbe in Dorotea il desiderio di saper quello che prima le aveva già domandato. Chiara, temendo allora di essere udita da Lucinda, abbraccio Dorotea strettamente, poi le accostò la bocca all’orecchio per modo che parlare poteva con tutta sicurezza di non essere da altri sentita, e disse: — Questi che canta, signora mia, è figliuolo di un cavaliere del regno di Aragona e signore di due terre, il quale abitava rimpetto alla casa di mio padre quand’era alla corte; e benchè mio padre tenesse le finestre di casa impannate di tela nell’inverno1, e con gelosie nella state, nondimeno questo cavaliere che andava allo studio, mi vide, non saprei bene dirvi se in chiesa od altrove. Egli si è di me invaghito, e me lo fece conoscere dalle finestre di casa sua con tanti indizii e con tante lagrime ch’io gli ebbi a dar fede e ad amarlo, senza sapere io stessa quello che mi volessi. Fra i segnali che mi faceva, uno era quello di avvicinare le sue mani e di unirle, significandomi in tal maniera che desiderava di accasarsi meco: e quantunque mi compiacessi sommamente di quel suo desiderio, io non sapea però a cui confidarmi, perchè sono sola e priva di madre. Senza dir parola ad alcuno io mi limitava a corrispondergli alzando un tal poco l’impannata o le gelosie, e quando mio padre trovavasi fuori di casa, mi lasciavo appieno vedere, e di questo egli faceva tal festa, che ne pareva fuor di sè stesso. Giunse intanto il tempo della partenza di mio padre, ed egli lo seppe, ma non da me, perchè non glielo potei mai dichiarare. Cadde infermo, a quanto intesi, per afflizione di animo, ne potei vederlo il giorno della nostra partenza per torre da lui commiato, almeno cogli occhi. Ma dopo due giorni di viaggio, nell’entrare in una osteria lontana di qui una giornata, io lo vidi alla porta vestito da vetturino sì naturalmente, che sarebbe stato impossibile il ravvisarlo se non lo avessi avuto troppo bene scolpito al vivo nel cuore. Lo riconobbi, e ne provai ammirazione e contento; ed egli mi osservò di nascosto dal genitore, a’ cui sguardi sempre a gran cura s’invola quando passa dinanzi a me nelle strade o nelle osterie dove arriviamo. Io conosco molto bene la sua nobile condizione, e considerando che l’amore che mi porta, lo induce a viaggiare a piedi e con tanto suo disagio, ciò è cagione ch’io mi muoia di ambascia, e porti sempre gli occhi dove restano le orme de’ piedi suoi. Non so veramente con quale intenzione mi tenga dietro, nè come abbia potuto sottrarsi dalla casa del suo genitore che lo ama eccessivamente per non avere alcun altro erede, e perch’egli è degnissimo di essere amato, come vossignoria si persuaderà bene, vedendolo. Mi è noto che tutto quello ch’egli canta, e parto del suo proprio ingegno, avendo inteso dire ch’è un bravissimo studente e poeta, e so dirvi di più che ogni volta che io lo veggo o l’odo cantare, tremo tutta, ed un gran batticuore mi conturba, pensando che mio padre potrebbe riconoscerlo ed avvedersi dei nostri amori. Non gli ho detto mai una sola parola; e non per tanto lo amo sì vivamente che sembrami di non poter vivere senza di lui. Eccovi, o signora, quanto io posso dire di questo cantore, la cui voce vi recò sì gran diletto; e basti essa sola per provarvi che non è egli già un vetturino, ma dominatore di cuori, e signore di vassalli siccome vi ho detto.
— Non proseguite, signora Chiara, disse Dorotea dandole allora infiniti baci, non proseguite, vi ripeto, e attendete il nuovo giorno, chè spero nel cielo d’incamminare le cose vostre per modo da condurle a quel termine fortunato che loro si addice. — Ah signora, qual fine si può sperare mai essendo il padre suo tanto ricco e tanto grande, che gli sembrerà ch’io non possa divenire non pure la sposa, ma nemmeno la serva di suo figlio? Io poi non lo vorrei per mio marito senza l’assenso di suo padre, per quanto v’ha di più prezioso al mondo. Altro non bramerei adesso se non che questo giovane ritornasse a casa sua, nè mi seguitasse; chè forse più non vedendolo nel nostro lungo viaggio, mi si allevierebbe la pena che mi affligge tanto; ma pur troppo anche questo immaginato rimedio mi sarà di poco sollievo! Non so che voglia significare questo mio stato, nè come io abbia concepito sì grande amore, essendo ambedue noi così giovani e probabilmente pari di età; poichè, per quanto dice mio padre, io compirò i sedici anni al giorno del san Michele venturo„. Dorotea non seppe contenersi dal ridere sentendo Chiara parlare così all’infantile, e le disse: — Riposiamoci, signorina, il poco tempo che credo ci avanzi di questa notte, e al nuovo giorno o troveremo qualche rimedio, o io non sono quella che sono„. Con questo tornarono a dormire, e nell’osteria regnava un gran silenzio. Erano svegliate la sola figlia dell’oste e Maritorna, le quali conoscendo l’umore di don Chisciotte, e sapendo che stava fuori dell’osteria armato e a cavallo facendo la sentinella, si misero in capo di fargli una burla, od almeno di passare un poco di tempo piacevolmente a spese della sua pazzia.
La cosa andò in questo modo. In tutta l’osteria non v’era finestra che riuscisse sopra la strada, ma un buco solo per cui solevano gettar fuori la paglia. Si posero a questo buco le due semidonzelle, e videro don Chisciotte a cavallo appoggiato al suo lancione, gettando di tanto in tanto sì dogliosi e profondi sospiri, che per ognuno di essi pareva dovesse uscirgli l’anima del petto. Udirono inoltre che con tenera, gentile e amorosa voce così stava fra sè dicendo: “O mia signora Dulcinea del Toboso, estremo di tutte le bellezze, apice del più fino discernimento, archivio delle più brillanti grazie, deposito dell’onestà, idea insomma di tutto ciò che vi ha di utile, di onesto e di dilettevole al mondo, in che si occuperà di presente la tua signoria? Ti passerebbe forse dinanzi alla mente questo cavaliere tuo schiavo, che tanti perigli per solo desiderio di servirti, e di spontanea sua volontà va ad affrontare? Dammi tu nuove di lei, o pianeta dalle tre facce, che forse con invidia ora la stai mirando nell’atto che passeggia per qualche galleria dei suoi sontuosi palagi, o mentre appoggiata il seno a qualche indorata finestra, se ne sta considerando come possa, salva la sua onestà e grandezza, alleggerire le procelle che per sua colpa questo incatenato mio cuore va sopportando, e qual compenso dee dare in premio alle mie pene, e quale tranquillità ai miei travagli, e finalmente quale vita alla mia morte e quale ricompensa alla mia servitù! E tu, o sole, che stai già insellando con gran fretta i destrieri tuoi per affrettarti di vedere la mia signora, ti supplico che al primo mirarla tu la saluti da parte mia; ma guardati bene di non darle la pace nel viso quando la rimiri e la inchini, ch’io ne avrei molto maggior gelosia che tu non avesti per quella leggiera, ingrata, che tanto ti fece sudare e correre per le pianure di Tessaglia o per le sponde del Peneo; chè ora non mi sovviene chiaramente quale sia stato il corso che tu pure facesti come geloso ed innamorato„.
Era don Chisciotte giunto a questo passo del suo doglioso ragionamento, quando la figlia dell’ostessa cominciò a far zi zi, ed a dirgli: “Mio signore, se le piace, qua, qua, si accosti„. A questa voce don Chisciotte si volta, e al chiarore della luna, la quale splendeva in tutta la sua pienezza, vede ch’era chiamato da quel buco che a lui parve una finestra colle inferriate d’oro, come sogliono essere quelle dei sontuosi castelli, qual egli s’immaginava che fosse quella osteria. Gli fece sognare all’istante la pazza sua fantasia che la vezzosa figliuola della signora del forte castello, vinta una seconda volta dall’amore suo, tornasse ad importunarlo; e con questo pensiere, per non mostrarsi ingrato e scortese, voltò le redini a Ronzinante ed appressatosi al buco, e vedute le due giovani, disse: “Sommamente mi duole, belle signore raie, che posto abbiate le vostre mire amorose sopra un oggetto che non può corrispondervi come sarebbero degne le vostre qualità e la molta gentilezza che vi adorna; ma di ciò incolpar non dovete un infelice cavaliere errante che trovasi nella circostanza di non poter obbligare la sua volontà ad altri fuorchè a quella che veduta appena dagli occhi suoi, acquistò sul cuore di lui un assoluto predominio. Perdonatemi, buone signore, ritiratevi nel vostro appartamento, nè mi costringete, mostrandovi a me affezionate, a divenire maggiormente scortese. Se da me voi volete cosa che possa appagare i desiderii vostri, ma che però non sia amore, vi giuro per l’assente mia dolce nemica di concedervela sull’istante, sebbene mi domandaste una ciocca dei capelli di Medusa ch’erano tanti serpenti, ovvero gli stessi raggi del sole rinchiusi in una caraffa. — Nulla occorre di tutto questo, disse a tal punto Maritorna. — Ebbene, rispose don Chisciotte, e di che abbisogna dunque, o saggia matrona, la signoria vostra? — Che mi porgiate una sola delle vostre belle mani, disse Maritorna, per poter isfogare sopra di essa le ardenti brame che a questo buco mi hanno tratta con sì grave pericolo del mio onore, mentre se fossi scoperta dal padre, l’orecchio sarebbe il pezzo più grande che rimanesse intero nel duro mio sacrifizio. — Vorrei vedere anche questa, rispose don Chisciotte; ma dovrà questo genitore prima pensarci bene se non vorrà condursi al più disgraziato fine che immaginar mai si possa per aver osato di porre le mani sulle delicate membra della sua istessa innamorata figliuola„.
Si persuase dopo di ciò Maritorna che don Chisciotte avrebbe porta senza dubbio la chiesta mano, e proponendo tra sè medesima quello che dovesse fare, discese dal buco, nella stalla, prese il capestro del giumento di Sancio Panza, e con molta lestezza tornò al buco, quando appunto don Chisciotte si era rizzato in piedi sopra la sella di Ronzinante per arrivare alla inferriata, dov’egli pensava che stesse la ferita donzella. Nel porgere la mano, disse: — Prendete, o signora mia, questa mano, o a meglio dire, questa destra punitrice di tutt’i malfattori; prendete, replico, questa mano che non fa tocca da verun’altra donna, e nemmeno da quella che tutto signoreggia il mio corpo. Nè già ve la porgo perchè la baciate, ma per darvi campo di ammirare la tessitura dei nervi, l’aggregato dei muscoli, la larghezza e capacità delle vene, ed affinchè da questi esami riconosciate quale debb’essere la gagliardía del braccio cui sta attaccata. — Ora lo vedremo, disse Maritorna; e facendo un cappio scorsoio al capestro, glielo mise al polso della mano, poi allontanandosi dal buco legò fortemente la corda al chiavistello dell’uscio del pagliaio.
Don Chisciotte che sentì nella mano la ruvidezza della fune, disse: — Sembrami che la signoria vostra, bella matrona, più mi grattugi che non mi accarezzi la mano: non la maltrattate a questo modo, ch’essa non è punto colpevole del male che vi fa la mia volontà, nè è giusto che sì piccola parte sostenga tutto il peso del vostro sdegno; avvertite che chi ama non si vendica mai tanto aspramente„. Ma tutte queste ciarle di don Chisciotte non erano intese da alcuno; poichè quando Maritorna l’ebbe legato, presto si tolse di là colla compagna scoppiando dalle risa, e lasciandolo impastoiato in modo da riescirgli impossibile il potersi sciorre. Stava egli dunque, come si è detto, ritto su Ronzinante, col braccio dentro il buco, e legato il polso della mano al chiavistello dell’uscio, coll’affannoso pensiero che se Ronzinante fosse sguizzato di sotto ai suoi piedi dall’una parte o dall’altra, sarebbe rimasto egli penzolone appiccato pel braccio: e perciò non osava di fare il più piccolo movimento; benchè avrebbe dovuto essere persuaso che la naturale flemma, quiete e tranquillità di Ronzinante lo avrebbero lasciato là senza moversi anche per un secolo intero. Ma finalmente trovandosi così legato, ed essendo già partite le dame, cominciò a pensare che tutto accadesse per via d’incantesimo, come la volta passata quando quel malefico moro del vetturale lo bastonò acerbamente in quel castello medesimo. Malediceva pertanto il suo poco discernimento, perchè essendogli quel castello riuscito sì mal soggiorno la prima volta, non avrebbe dovuto avventurarsi di entrarvi una seconda. È legge invariabile dell’errante cavalleria, che quando un’avventura qualunque non risponde alla prova, il cavaliere che l’ha tentata considerandola come cosa a lui interdetta, dee lasciarne ad altri l’incarico, e non è tenuto a mettervisi da capo. Con tutto ciò andava stirando il braccio per vedere se potesse distaccarsi, ma era si strettamente accappiato che inutile se gli rendeva qualunque sperimento. Vero è bensì che tirava pian piano affinchè Ronzinante non si movesse, e quantunque tentasse di sedere o di adagiarsi sulla sella, non potea far di meno di non restarsene in piedi per non istrapparsi la mano. Oh allora sì che avrebbe dato qualunque prezzo per aver quella spada di Amadigi che spezzava ogni incanto! Malediceva la sorte che teneva preso a tale incantagione un cavaliere, da cui il mondo poteva aspettarsi tante nobili imprese: e chiamava a gran voce il suo buon Sancio Panza, il quale sepolto nel sonno e prosteso sopra la bardella del suo asino non ricordavasi nemmeno della madre che l’avea partorito. Chiamò in aiuto i savii Lirgandeo e Alchiffo, e invocò la sua buona amica Urganda perchè lo soccorressero. Finalmente giunse l’istante in cui si trovò sì disperato e rabbioso che mugghiava come un toro, e non isperava neppur col nascere del nuovo giorno di vedere la fine di tanta miseria, che supponeva eterna atteso il suo incantamento. Tanto più ciò teneva per certo in quanto che vedeva Ronzinante non muoversi nè punto nè poco; e credeva che senza mangiare, bere e dormire, egli ed il suo cavallo avrebbero dovuto restare colà finchè cessato non fosse il maligno influsso dell’avversa stella, o finchè qualche altro più savio incantatore non giugnesse a disfare la stregoneria.
S’ingannò di molto nelle sue fantasie; perchè comincio appena ad apparire il sole che arrivarono all’osteria quattro uomini a cavallo molto ben vestiti portando i loro archibusi sopra gli arcioni. Picchiarono forte alla porta, che stava tuttavia chiusa, e don Chisciotte, il quale immaginavasi di far tuttavia la sentinella, sentendoli, con alta ed arrogante voce disse loro: — Cavalieri, o scudieri, o chiunque voi state, picchiar non dovete alla porta di questo castello, e dovete pur sapere che a quest’ora quelli che vi si rinchiudono, stanno dormendo o non usano di aprire la fortezza se prima il sole non è tutto alzato; allontanatevi dunque ed attendete che il giorno s’innoltri, chè conosceremo allora se sia giusto o no che vi sia aperto. — Che diamine di fortezza, disse uno di loro, o di castello è mai codesto da obbligarci a queste cerimonie? Se siete l’oste ordinate che ci aprano, che noi siamo passeggieri e non vogliamo se non dare la biada alle nostre cavalcature, e passare avanti perchè abbiamo gran fretta. — Sembra a voi, o cavalieri, disse don Chisciotte, chè io abbia ciera da oste? — Non so di che v’abbiate ciera, rispose un altro; dico bene che vi scappano di bocca spropositi bestiali chiamando castello quest’osteria. — È un castello, soggiunse don Chisciotte, e dei migliori di questa provincia, e rinserra persone che hanno tenuto scettro in mano e corona in testa. — Direbbesi meglio al rovescio, disse un passeggiero; lo scettro in testa e in mano la corona; e sarà probabile che qua dentro si trovi qualche compagnia di commedianti, i quali sogliono avere scettri e corone senza fine. In questa piccola e romita osteria io non crederò mai che possano aver albergo persone degne di scettro o di corona. — Poco v’intendete, disse don Chisciotte, delle cose del mondo, e vedesi bene che ignorate gli avvenimenti proprii della errante cavalleria„. Cominciavano gli altri ad inquietarsi di quel colloquio con don Chisciotte, e quindi tornarono a picchiare con tanta furia che si svegliò l’oste, e con esso tutti gli altri che stavano dormendo, curiosi di sapere chi battesse con sì poca creanza. Avvenne in questo che saltò il grillo ad una delle cavalcature dei quattro passeggieri di andare a fiutar Ronzinante, il quale malinconioso e tristo colle orecchie basse sosteneva senza muoversi il suo stirato signore; e come quello che in sostanza era di carne, tuttochè sembrasse fatto di legno, non potè a meno di non iscuotersi, nè lasciar di fiutare egli pure chi gli faceva carezze. Mossosi alquanto il cavallo, si mossero in conseguenza gli appaiati piedi di don Chisciotte, sotto ai quali mancata essendo la sella avrebbe dovuto precipitar se non fosse stato col braccio legato. Ciò gli causò sì acuto spasimo, che già ne faceva spacciata la mano, e rimase tanto vicino a terra, che già la toccava colle punte dei piedi; ma anche questo era peggio per lui, mentre sentendo che poco gli mancava per poggiarvi fermamente, stiravasi e facea ad ogni sua possa per giungervi. Parea uno di coloro i quali posti al tormento della corda, si trovano talvolta calati sì abbasso che accrescono eglino stessi il loro strazio nello stirarsi che fanno, colla fiducia di porre piede sicuro in terra per poco che vadan ancora distendendo la vita.