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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO XLIX.
Trattasi degli assennati ragionamenti tenuti da Sancio Panza col suo signor don Chisciotte.
S’intertennero il cavaliere errante e il mal errante scudiere in siffatti ragionamenti, finchè arrivarono ove già smontati li attendevano il canonico, il curato e il barbiere. Staccò il carradore i buoi e lasciolli andare al pascolo a loro piacimento per quel verde ed ombroso luogo, la cui frescura invitava a goderne non tanto le persone incantate come don Chisciotte, quanto le accorte e bene avvertite come il suo scudiere. Pregò questi il curato che lasciasse uscire alcun poco di gabbia il suo padrone, perchè se non glielo permettesse non sarebbe rimasta sì asciutta quella prigione quanto esigeva la decenza d’un tanto cavaliere qual era il suo padrone. Comprese il curato l’oggetto della dimanda, e gli disse che ben volentieri lo avrebbe compiaciuto s’egli si fosse costituito garante che il suo padrone vedendosi in libertà non farebbe delle sue, e non anderebbe in parte dove poi fosse impossibile raggiungerlo. — Guarentisco io che non fuggirà, rispose Sancio. — Io pure fo lo stesso per tutto quel che potesse succedere, disse il canonico, quand’egli mi dia parola da cavaliere di non iscostarsi da noi, finchè non glielo permettiamo. — Sì, do la mia parola, rispose don Chisciotte, che stava con gli orecchi tesi ascoltando ogni cosa, e tanto più quanto che colui ch’è incantato come sono io, non ha libertà di disporre a piacere della sua persona, perchè l’incantatore può fare che non si muova da un luogo all’altro in tre secoli; e poi se fuggisse lo farebbe tornar indietro volando„. Allora il canonico si fece dare la mano, benchè don Chisciotte le tenesse ambedue legate, e sulla sua fede e parola fu cavato fuori dalla gabbia colla più viva soddisfazione. La prima cosa ch’ei fece fu lo stirarsi tutto il corpo; poi andò a visitare il suo Ronzinante, e dandogli due palmate sulle groppe, gli disse: — Ripongo ancora le mie speranze nel cielo, o vero specchio dei palafreni, che presto giugneremo ambedue alla meta dei nostri desiderii, tu portando il tuo signore, ed io montando sopra di te ed esercitando l’officio per cui Dio mi ha mandato al mondo„. Ciò detto, si appartò alcun poco con Sancio; poi ritornò dove gli altri lo attendevano, molto più lieto di prima, e con vivissima brama di eseguire quanto gli fosse ordinato dal suo scudiere. Lo guardava il canonico, e maravigliavasi della stranezza delle sue pazzie. Nelle proposte e risposte egli dimostrava un retto discernimento, ma usciva affatto dal seminato (come altre volte si disse), soltanto quando trattavasi di cose di cavalleria. Mosso pertanto il canonico da compassione, e dopo essersi tutti posti a sedere sul prato, aspettando il cibo, così prese a dire: — È egli possibile, signor cavaliere, che sì gran potere abbia avuto sopra vossignoria la trista e oziosa lettura dei libri di cavalleria da averle tolto il giudizio per modo da farle credere di essere incantato, con altre cose di tal natura tanto lontane dal probabile come lo è la menzogna dalla verità? E come può darsi mai umano intelletto, il quale si persuada che sia vissuta al mondo una infinità di Amadigi e una moltitudine di cavalieri e tanti imperadori di Trabisonda e tanti Felismarti d’Ircania, e tanti palafrenieri, e tante erranti donzelle, serpi, fantasime, giganti, e inaudite avventure, e tanta specie d’incantesimi e battaglie e furiosi incontri, e tanta bizzarria di vestiti, e tante principesse innamorate, e tanti scudieri, conti e nani, e tante lettere e tanti concetti amorosi, e tante gagliarde donne, e finalmente tante e sì spropositate cose come sono quelle che nei libri di cavalleria si contengono? Io so dire di me, che leggendoli, quando considero che sono tutte bugie e frivolezze, mi danno qualche piacere; ma se richiamo alla mente quello che sono in realtà, butto contro alla muraglia il migliore libro ch’io mi abbia, e lo gitterei anche sul fuoco come ben meritevole di tanto castigo. Giunge questa razza di opere sino all’ardire di turbare gl’ingegni dei giudiziosi e bennati cittadini; di che n’è prova lo stato presente di vossignoria, che hanno ridotto a tale da essere necessario di rinchiuderla in una gabbia, conducendola sopra un carro tirato da buoi, come si strascina un qualche leone o una qualche tigre da paese a paese per farvi sopra guadagno col mostrarli alla gente. Eh via, signor don Chisciotte, combatta le sue opinioni, rimettasi alla ragione, e si valga in suo pro di quella discrezione di cui lo ha favorito il cielo, impiegando il felicissimo suo talento in altre letture che tornino a giovamento della sua coscienza e ad ingrandimento del suo onore. Che se per secondare una inclinazione spontanea si sente portata ad occuparsi nella lettura di prodezze e di opere di cavalleria, legga nella Sacra Scrittura il Libro dei Giudici e vi riscontrerà verità maravigliose e fatti stupendi tanto quanto, magnanimi. Vantano poi un Viriato la Lusitania, Roma un Cesare, Cartagine un Annibale, un Alessandro la Grecia, un conte Ferdinando Gonzalez la Castiglia, un Cid la Valenza, un Gonzalo Fernandez l’Andaluzia, un Diego Garzia di Paredes la Estremadura, Xeres un Garzia di Perez de Vargas, e un Garcilasso Toledo, e un don Manuel di Leone Siviglia, le cui mirabili geste leggendo, potrà procacciarsi trattenimento, istruzione, diletto e ammirazione nel considerare il merito d’ingegni grandemente elevati. Questa sì che sarà lettura degna del suo retto discernimento, signor don Chisciotte mio, e ne diverrà erudito nella storia, innamorato della virtù, ammaestrato nella bontà, migliorato nei costumi, valoroso senza temerità, ardito senza audacia; e tutto ciò ad onore di Dio e ad utilità sua particolare, non meno che ad onore e gloria della Mancia, di dove, per quanto ho inteso, la signoria vostra trasse la sua origine.
Stette don Chisciotte attentissimo ad ascoltare il ragionamento del canonico, e quando vide che avea terminato, dopo averlo lungamente guardato in volto, gli disse: — Sembrami, signor cavaliere, che il suo discorso tenda a farmi credere che non abbiano avuto mai esistenza al mondo i cavalieri erranti, e che i libri tutti di cavalleria sieno falsi, bugiardi, nocivi ed inutili alla repubblica. Ella aggiunge ch’io ho fatto male nel leggerli e peggio nel prestarvi fede, e più male ancora nell’imitarli, intrapreso avendo di farmi seguace della durissima professione della errante cavalleria da essi insegnata; e nega che siano mai vissuti gli Amadigi o di Gaula, o di Grecia, o verun altro di quei cavalieri dei quali vanno piene le istorie. — Così per lo appunto, come va ripetendo la signoria vostra, rispose il canonico. Don Chisciotte allora soggiunse: — Vossignoria disse altresì che mi avranno recato molto danno siffatti libri coll’avermi fatto uscire di senno e ridotto ad essere rinserrato in una gabbia, e che sarebbe per me più saggio partito il farne l’ammenda, cambiando lettura ed applicandomi a quella di libri più utili, e da poterne trarre più istruzione e diletto. — Così è, disse il canonico. — Sappia, replicò don Chisciotte, che io tengo per fermo che ella e non io sia il pazzo e l’incantato, avendo proferite tante bestemmie contro una verità sì ricevuta nel mondo, e tenuta per tanto sincera, che chi la negasse, come fa vossignoria, si meriterebbe la pena medesima che dic’ella di statuire a quei libri quando li legge e le vengono a noia. La ragione di questo si è che lo accingersi a dimostrare a chicchessia che non furono al mondo Amadigi, nè tutti gli altri cavalieri di ventura, dei quali vanno piene zeppe le storie, sarebbe lo stesso come voler provare che il sole non illumini, il gelo non agghiacci, nè la terra ci sostenga: e di fatto, quale sottile ingegno può mai darsi quaggiù che giunga a persuadere altrui che non sia vero ciò che accadde nel tempo di Carlomagno alla infanta Floripa con Guy di Borgogna, e ciò che raccontasi di Fierabrasse sul ponte di Mantible? Giuro a Dio che tutto questo è tanto vero, com’è chiaro giorno in quest’ora. Che s’ella spaccia ogni cosa come menzogna, sarà falso per la stessa ragione che sieno stati mai Ettore, Achille, la guerra di Troia, i dodici Paladini di Francia e il re Artù d’Inghilterra, il quale vive tuttora ma trasformato in corvo, ed è atteso di momento in momento il suo ritorno al suo regno. Bisognerà osare egualmente di asserire che bugiarda sia la storia di Guerino il Meschino e quella della conquista di Santo Griale; che sieno apocrifi gli amori di don Tristano e della regina Isotta, e quelli di Ginevra con Lancilotto, benchè viva tuttora chi quasi ricordasi di avere conosciuta la matrona Chintagnona, che fu la miglior mescitrice di vino che mai avesse la gran Brettagna: ed è ciò tanto vero che mi diceva una mia nonna da parte di padre, ogni volta ch’essa vedeva una qualche matrona vestita con manto: “Quella, nipotino mio, pare proprio la matrona Chintagnona;„ dal che arguisco che la dovette conoscere di persona o averne almeno veduto qualche ritratto. Chi negare potrà mai che vera sia la storia di Pietro e della bella Magalona, quando fino ai dì nostri si vide nell’armeria del re il bischero con cui si voltava il cavallo di legno che portava per aria il valoroso Pietro; bischero da considerarsi più grande di un timone da carretta? Non vedesi ancora accanto a questo bischero la sella di Babieca, ed in Roncisvalle il corno di Orlando, lungo quanto una gran trave? Da tali fatti dobbiamo concludere necessariamente che vissero i dodici Paladini, che v’ebbe un Pietro, un Cid ed altri cavalieri di tal genere, di quello cioè che dicono le genti che va cercando venture. Se non si vuole concedermi neppur questo, domando io: non è verità forse che fu cavaliere errante il valoroso Lusitano Giovanni di Merlo, il quale recossi in Borgogna e venne a singolare tenzone nella città di Ras col famoso signor di Ciarnì, chiamato Mossen Pierre, e dopo nella città di Basilea con Mosè Enrico di Remestan, riuscendo trionfante da ambedue queste imprese e carico di gloria e celebrità? Che dirò io delle avventure e delle disfide che incontrarono in Borgogna i valorosi Spagnuoli Pietro Barba e Gutierre Chisciada (dal cui lignaggio per linea retta maschile io discendo) i quali trionfarono dei figli del conte di San Polo? Mi si nieghi adesso che don Fernando di Guevara andasse in Germania a cercar avventure, e così pure che venisse a sanguinosa battaglia con messer Giorgio cavaliere della casa del duca d’Austria! Dicasi che sono state burle le giostre di Suero di Chignones del Passo, le geste di don Mossen Luigi di Falces contra don Gonzalo di Gusman, cavaliere castigliano, e tante e tante altre imprese compite da cavalieri cristiani di questi o dei regni stranieri, sì autentiche e vere che, torno a dire, chi si facesse a negarle mancherebbe affatto di senso comune e di ogni maniera di buon ragionare„.
Restò il canonico maravigliato in udire come don Chisciotte andasse affastellando verità e menzogne; e vedendo la piena cognizione che aveva delle cose spettanti alla sua errante cavalleria, gli rispose: — Negare non posso, signor Don Chisciotte, che contengano verità alcune delle cose dette da vossignoria, e quelle in ispecial modo che risguardano i cavalieri spagnuoli. Concederò che sieno vissuti i dodici Paladini di Francia, ma non crederò mai che abbiano fatte quelle cose che l’arcivescovo Turpino scrive di loro; mentre la verità può consistere nell’essere eglino stati bravi cavalieri e scelti dai re di Francia, e da loro chiamati Pari per essere tutti uguali nel valore, nella condizione e nel coraggio: che se pure non lo erano in fatto, ragione vuole che si creda che lo fossero sussistendo allora una tal qual religione alla foggia della nostra di san Iacopo o di quella di Calatrava, i cui seguaci si suppone che debbano essere cavalieri valorosi, intraprendenti e bennati: e come dicesi presentemente, cavaliere di san Giovanni o d’Alcantara, diceano a quel tempo, cavaliere dei dodici Paladini, perchè furono dodici Pari i trascelti per lo esercizio della religione militare: quanto poi al Cid, non v’ha dubbio che vi è stato siccome ancora Bernardo del Carpio, ma per ciò che riguarda le loro prodezze si narrano infinite esagerazioni. Finalmente per quanto spetta al bischero, che dice vossignoria essere stato usato dal conte Piero, e che attualmente sta accanto alla sella di Babieca nell’armeria dei re, io confesso il difetto mio di essere sì ignorante o tanto corto di vista che sebbene abbia veduto la sella, non mi venne mai fatto di scorgervi il bischero, quantunque tanto smisurato quanto vossignoria lo ha descritto. — Ed io vi dico che vi è sicuramente, replicò don Chisciotte, e per maggiore contrassegno affermano ch’è riposto in una tasca di vacchetta perchè la muffa non lo guasti. — Tutto può essere, rispose il canonico, io però giuro che non mi ricordo d’averlo veduto: ma concediamo pur che vi sia, non per questo mi obbligherò a credere che siano vissuti tanti Amadigi, nè tanta turba di cavalieri come si racconta; nè v’è ragione che un uomo delle qualità che voi possedete, sì pieno di onore e dotato di sì fino discernimento si dia a credere che sieno vere tante e sì strane pazzie, come sono quelle che stanno scritte negli spropositati libri di cavalleria.