< Don Chisciotte della Mancia
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CAPITOLO XXI.



Raccontasi la somma ventura e il ricco conquisto dell’elmo di Mambrino con altri successi del nostro invincibile cavaliere.



E
rasi intanto messa una pioggia minuta, e Sancio avrebbe desiderato di ricoverarsi nelle gualchiere; ma don Chisciotte avea presa loro sì grande avversione che non volle entrarvi a verun patto; e però, piegando alla diritta, si misero a battere la strada stessa del giorno innanzi. Dopo un poco di tempo don Chisciotte scôrse un uomo a cavallo che portava in testa una cosa rilucente come l’oro; ed appena l’ebbe veduto che rivoltosi a Sancio, così gli disse:

— Io credo, o Sancio, che non diasi proverbio che non sia vero, perchè tutti contengono sentenze tratte dalla sperienza, madre di tutto il sapere. Verissimo è poi quello che dice: dove una porta si serra, un’altra se ne apre. Ti dico questo perchè la fortuna nella scorsa notte ci serrò la porta da noi ricercata, ingannandoci coi magli delle gualchiere, un’altra ce ne spalanca presentemente offrendoci una migliore e più certa ventura; e mia sarà la colpa se non saprò approfittarne, chè qui non avrebbe luogo lo scusarmi allegando o la mia ignoranza di quello che fossero le gualchiere o l’oscurità della notte. Ti dico questo, perchè se non m’inganno, si avanza ver noi un uomo che porta in testa l’elmo di Mambrino per cui io feci il giuramento a te noto. — Pensi bene la signoria vostra a quello che dice, e più ancora a quello che fa, rispose Sancio; chè non vorrei che fossero nuovi magli di gualchiere che finissero di gualchierare e manomettere i nostri sentimenti. — E che diavolo vai tu dicendo? replicò don Chisciotte; non v’ha forse gran differenza da un elmo alle gualchiere? — Io non ne so nulla, replicò Sancio, ma davvero che s’io potessi parlare come facevo ne’ giorni scorsi, io le direi tali e tante ragioni da far toccare con mano alla signoria vostra ch’ella s’inganna nella sua supposizione. — Come può esser ciò, sciocco e vigliacco che sei? lo interruppe don Chisciotte; dimmi: non vedi tu quel cavaliere che ci viene incontro sopra un cavallo leardo rotato, e che porta in testa un elmo d’oro? — Quello che veggo e discerno, rispose Sancio, altro non è se non un uomo che cavalca un asino bigio simile al mio, e che porta sul capo qualche cosa che riluce. — Quello appunto è l’elmo di Mambrino, disse don Chisciotte: mettiti da una banda, e lasciami solo con lui, e vedrai che senza far una parola e senza perdere un momento di tempo io do fine a quest’avventura, e divengo possessore dell’elmo da me tanto ardentemente desiderato. — Io sono dispostissimo a ritirarmi, replicò Sancio; ma piaccia a Dio, ripetè, che quello sia elmo e non gualchiera. — Ti ho già detto, fratello Sancio, che nemmeno per celia tu devi menzionar mai le gualchiere, disse don Chisciotte, ch’io fo voto... e non vado innanzi per non passarti l’anima„. Sancio tacque per la paura che il suo padrone non adempisse con tutte le forme il voto che stava per pronunziare.

Del resto poi l’elmo, il cavallo e il cavaliere veduti da don Chisciotte consistevano in questo. In quelle vicinanze erano due villaggi, l’uno dei quali era sì piccolo, che non vi avea nè barbiere nè speziale. Quindi il barbiere del villaggio più grande serviva anche gli abitanti dell’altro; nel quale trovandosi allora un infermo bisognoso di essere salassato, ed un uomo che avea d’uopo di radersi, il barbiere cavalcava per questo effetto a quella volta portando seco un bacino di ottone. Ora poichè durante il viaggio avea cominciato a piovere, non volendo egli guastarsi il cappello, che forse era nuovo, si pose il bacino sopra la testa, il quale per essere pulito riluceva molto lontano. Cavalcava egli un asino bigio, come Sancio avea detto, e fu per ciò che comparve agli occhi di don Chisciotte un cavallo leardo rotato, montato da un cavaliere con elmo d’oro; perchè tutte le cose che vedeva le adattava alle sue strane cavallerie e a’ suoi erranti pensieri. Quando adunque egli vide che il disgraziato cavalier barbiere stavagli poco lontano, senza venire a discorso alcuno gli si fece incontro di carriera aperta col lancione in resta e con intenzione di passarlo da banda a banda: poi venutogli ancor più da presso, senza ritenere il furioso suo corso, gli disse: — Difenditi, o prigioniera creatura, ovvero dammi volontariamente quello che a giusto diritto mi si compete„. Il barbiere sopraffatto improvvisamente da quella fantasima, per sottrarsi al colpo della lancia non trovò partito migliore che lasciarsi cader giù dall’asino; e non ebbe appena toccata terra che si alzò più veloce di un daino, e si mise a fuggire per quella campagna sì rapidamente che il vento non lo avrebbe raggiunto... Lasciò in terra il bacino, di cui si contentò don Chisciotte, dicendo che il pagano era un uomo accorto, ed imitato aveva il castoro, il quale suol lasciarsi addietro ciò che l’istinto naturale gli insegna essere desiderato dal cacciatore che lo insegue.

Comandò a Sancio che raccogliesse l’elmo; il quale presolo in mano, disse: — Oh corpo di Bacco! il bacino è buono e vale un reale da otto come un maravedis; poi lo consegnò al padrone che se lo pose sul fatto in testa, girandolo attorno e cercando la visiera; ma come non la trovava, disse: — Certo che il pagano per cui si fabbricò la prima volta questa famosa celata, dovette avere una testa ben grossa, e il peggio si è che manca la metà„. Quando Sancio sentì che il bacino era creduto celata non potè contenersi dal ridere, ma si ristette ben presto ricordandosi la collera del suo padrone. — Di che ridi tu, Sancio? domandò don Chisciotte. — Rido, rispos’egli, considerando la gran testa che aveva il pagano, padrone di questo elmetto; il quale poi somiglia ad un bacino di barbiere per modo che non vi corre la più piccola differenza. — Sai tu ciò ch’io ne penso, o Sancio? questa gran rarità di quest’elmo incantato sarà, per qualche straordinario accidente, pervenuta alle mani di chi non seppe nè conoscere nè apprezzare il suo merito; e senza por mente a ciò che si facesse, vedendola d’oro purissimo, ne avrà fuso una metà per approfittarsi del ricavato, e dell’altra metà avrà fatto questo che sembra appunto bacino di barbiere come tu dici; ma sia pure quale si voglia, chè io che pienamente lo conosco, non fo il menomo caso di questa sua trasmutazione, e nel primo villaggio dove io mi avvenga in un fabbro saprò rassettarlo di tal maniera che diverrà quasi migliore, e non avrà ad invidiare quello che il dio delle fucine fabbricò al dio delle battaglie; frattanto ne userò come posso, che sempre vale più che niente, od almeno varrà a difendermi da qualche colpo di pietra. — Purchè, disse Sancio, non sia la pietra slanciata con una fionda, come ci fu tirata nella battaglia dei due eserciti quando ruppero a vossignoria i mascellari e l’orciuolo che contenea quel benedettissimo beverone che mi ha fatto recere le budella. — Non mi dà gran fastidio, replicò don Chisciotte, che l’orciuolo sia rotto, perchè già sai che n’ho la ricetta a memoria. — Me ne ricordo ancor io, rispose Sancio, ma mi colgano mille malanni se ne assaggio una goccia, fossi pure agli estremi della mia vita. Ora sappia vossignoria che voglio con tutti i miei cinque sentimenti guardarmi bene e dal ferire e dal rimanere ferito; e quanto all’essere un’altra volta sobbalzato in aria colla coperta non dico niente; perchè somiglianti disgrazie non si possono sempre prevedere, e se vengono, non c’è che da stringere le spalle, ritenere il fiato, chiudere gli occhi e lasciarsi guidare dove vuol condurci la fortuna, e dove la coperta sbalza. — Tu sei mal cristiano, mio Sancio, disse don Chisciotte udendolo in tal guisa parlare, perchè non dimentichi mai ingiuria che ti sia stata fatta; ma sappi ch’è proprio di un petto nobile e generoso il non fermarsi sopra cose di sì poco momento. Qual piede ti restò zoppo? qual costola fracassata? qual testa rotta, che tu non debba mai cancellare dalla memoria una burla? chè, a considerarla bene, fu burla e passatempo; e se io non l’avessi riconosciuta tale sarei pur ritornato sul luogo per fare le tue vendette con maggior danno di quello che fecero i Greci vendicando la rapita Elena, la quale se vivesse a questi tempi, o se la mia Dulcinea fosse vissuta ai suoi, non avrebbe per certo quella tanta riputazione di bellezza ch’essa ha!„ Qui trasse un sospiro che andò sino alle nuvole, e Sancio disse: — Facciamo pur conto che sia stata una burla, giacchè non può esserne mai vera vendetta; del resto so ben io che cosa è il far da burla e il far da vero, nè quanto è seguito mi uscirà mai di mente, come non si leverà più dalle spalle... Ma lasciamo andar questo, e dicami la signoria vostra: che faremo noi di questo cavallo leardo rotato così somigliante ad un asino bigio, lasciato qui in abbandono da quel Martino, che buttato in terra dalla signoria vostra, e fuggitosene già fino al villaggio non ha certo più voglia di tornar addietro a riprenderselo? Per la mia barba, signore, ch’egli ha l’aria di un buon cavallo! — Io non piglierò mai il costume, disse don Chisciotte, di spogliare quelli che restano da me vinti, nè è stile della cavalleria torre loro i cavalli e lasciarli andare a piedi, quando però non fosse che il vincitore avesse perduto il suo nel cimento, mentre lice in tal caso prendersi quello del vinto come guadagnato in battaglia onorata e in guerra giusta; tu dunque, o Sancio, devi lasciare questo cavallo, od asino che sia, come più ti piace, in piena libertà, perchè quando il suo padrone ci vegga di qua allontanati, venga a ripigliarselo a suo talento. — Dio sa, replicò Sancio, quanto grande è la voglia ch’io ho di menarlo via, od almeno di cambiarlo col mio che non mi par tanto buono! Sono veramente troppo rigorose le leggi della cavalleria se vietano pur anche di cambiare un asino per un altro; e dicami almeno se potessi cambiarne i fornimenti? — Non sono di ciò ben sicuro, rispose don Chisciotte, e in caso di dubbio e finchè me ne informi con esattezza tu puoi barattarli se hai estrema necessità. — Tanto estrema, rispose Sancio, che se dovessero servire per mio proprio uso non potrei averne maggior bisogno„. Dopo di ciò, autorizzato dalla detta licenza, fece mutatio capparum, e mise il suo giumento in punto di piena lindura, migliorando in terzo e in quinto. Fatto questo, mangiarono gli avanzi della provvisione tolta ai preti; bevettero dell’acqua delle gualchiere, nè si voltarono mai per guardarle, in tanto odio le avevano per la passata paura. Incantata poi, come suol dirsi, la nebbia, e mandata via la malinconia, salirono a cavallo, e fedeli all’usanza degli erranti cavalieri, senza prefiggersi un determinato cammino, si misero in viaggio all’arbitrio di Ronzinante, che colla volontà del padrone signoreggiava eziandio quella dell’asino da cui era seguitato con fratellevole amore. Trovaronsi quindi senza volerlo sulla strada maestra, per la quale avviaronsi alla ventura senz’altro divisamento.

Cammin facendo disse Sancio al padrone: — Mi permette, vossignoria, ch’io parli alcun poco con lei? Chè dappoi ch’ella m’ha fatto quell’aspro comando del silenzio, mi si sono putrefatte nello stomaco più di quattro cose; ma una sola che tengo adesso sulla cima della lingua non vorrei che la andasse a male. — Dilla, rispose don Chisciotte, ma sii breve, chè un discorso lungo non può mai dar piacere. — Io dico dunque, o signore, ripigliò Sancio, che da alcuni giorni in qua ho considerato quanto poco si guadagna e si avanza andando in traccia di queste avventure che vossignoria va cercando per questi deserti e crocicchi di strade, dove anche, superando e vincendo le più pericolose, non vi ha nè chi le vegga, nè chi le sappia; e così restano in perpetuo silenzio con pregiudizio della intenzione di vossignoria e del loro intrinseco merito. Sembrami pertanto che sarebbe savio partito (salvo il miglior parere della signoria vostra), che andassimo a servire qualche imperadore od altro gran principe, il quale sia in guerra; nel cui servigio voi, signore, possiate mostrare il valore della persona, le grandi forze e l’eminente giudizio di cui siete fornito. E la ragione di questo si è che, viste tante prodezze da quel signore al cui servigio ci fossimo applicati, ci darebbe egli una remunerazione conforme ai meriti di ognuno di noi; allora non mancherebbe chi scrivesse le imprese della signoria vostra a perpetua memoria, nulla dicendo delle mie, perchè ecceder non debbono i confini scudereschi; benchè so dire che se si usasse di scrivere nella cavalleria imprese di scudieri, tengo per fermo che non resterebbero senza onore anche le mie. — Non dici male, rispose don Chisciotte, ma prima di venire a questo termine, è necessario di andare pel mondo e meritarsi celebrità, cercando avventure, conducendone talune a glorioso fine, cogliendo quella fama e riputazione che si otterrebbe nel servigio di qualche gran monarca, e diventando cavaliere sì noto che appena i ragazzi lo abbiano veduto entrare per la porta della città, tutti lo seguitino e se gli aggirino d’intorno, gridando: Questi è il cavaliere del Sole o della Serpe, o di qualche altra insegna, sotto la quale egli abbia compiute grandi imprese: Questi è, dicano, quel cavaliere che vinse in singolar tenzone il gigantaccio Brocabruno di estrema forza; questi è colui che ha disfatto al gran Mammalucco di Persia il lungo incantamento in cui giacque per quasi novecent’anni1; e così di mano in mano vadano celebrando le imprese mie. Il frastuono dei ragazzi e del popolo chiamerà alla finestra del real suo palagio il re di quel suo regno, ed egli, come vegga il cavaliere, conoscendolo alle arme od alla insegna posta sullo scudo, sarà sforzato a dire: Su via, i cavalieri tutti che stanno nella mia corte vadano ad incontrare il fiore di ogni cavalleria che si appressa. A tal comando usciranno tutti, ed egli medesimo discenderà fino alla metà della scala, e lo abbraccerà strettissimamente dandogli la pace e baciandolo in bocca; dopo di che presolo per la mano lo condurrà all’appartamento della signora regina dove il cavaliere vedrà per la prima volta l’infanta, che ha da essere una delle più belle e compite donzelle che mai si possano trovar sopra la terra. Poi succederà incontanente ch’essa ponga gli occhi sul cavaliere ed egli sopra di lei; e sembrino l’uno all’altra cosa più divina che umana, e senza saper come nè perchè, hanno da trovarsi entrambi presi ed avviluppati nell’inestricabile rete d’amore, con gran tormento dei loro cuori per non sapere trovar il modo di scoprirsi i loro affanni ed i loro sentimenti. Di là lo guideranno senza dubbio a qualche appartamento del palazzo riccamente addobbato, dove, spogliatolo delle arme, il rivestiranno di un superbo abito di scarlatto; e se fece di sè bella mostra vestito delle arme, in farsetto poi apparirà molto più vago. Venuta la sera si assiderà a tavola col re, colla regina e colla infanta. Sparecchiate le tavole, entrerà a quel punto un brutto e piccolo nano seguito da una dama fra due giganti, la quale proporrà una certa avventura ordita da un antichissimo savio; e colui che la condurrà a fine glorioso sarà tenuto pel miglior cavaliere del mondo. Ordinerà il re che si cimentino gli astanti tutti, ma nessuno vi riuscirà ad eccezione dell’ospite cavaliere con grande accrescimento della sua fama, di che sarà giojosissima la infanta, e si terrà per contenta e compensata anche soverchiamente di aver posti e collocati i suoi pensieri in sì alta parte. Il meglio si è poi che questo re, o principe, o quello che e’ si sarà, troverassi impegnato in un’accanita guerra con un altro potente suo pari, e l’ospite cavaliere, dopo alcuni giorni di dimora in quella corte, gli domanderà licenza di poterlo in quella servire. Il re con molta affabilità gliene darà il consenso, ed il cavaliere gli bacerà la mano in pegno di gratitudine pel ricevuto favore. Poi la notte medesima egli prenderà commiato dall’infanta sua donna attraverso all’inferriata di una finestra della stanza di lei che riesce nel giardino: per la quale già più volte le avrà parlato, essendo di tutto mezzana e consapevole la cameriera di cui l’infanta intieramente si fida. Sospirerà il cavaliero; essa ne verrà meno; la cameriera le apporterà dell’acqua, molto affliggendosi, perchè sorge oramai il mattino, e non vorrebbe per l’onore della sua signora che la cosa si discoprisse. Finalmente la giovine principessa ritornata in sè, stenderà per l’inferriata le sue candide mani al cavaliero, il quale le bacierà mille e mille volte e le bagnerà di lagrime. Quindi comporranno fra loro due come possano farsi sapere i buoni o cattivi successi, e l’infanta lo pregherà di affrettare possibilmente il ritorno, ed egli lo prometterà con molti giuramenti: poi le bacierà di nuovo le mani; e finalmente si accommiaterà da lei con tanto sentimento, che sarà presso a lasciarvi la vita. Ecco ch’egli si ritira allora nelle sue stanze, dove si abbandona sul suo letto, ma non può chiudere occhio pel dolore della partenza; si alza assai di buon’ora e va per prendere commiato dal re, dalla regina e dalla infanta. Compiuti co’ due primi i suoi doveri, viene il cavaliere a sapere che la infanta è indisposta e non può ricevere la sua visita; non dubita che ciò non proceda dall’amarezza della loro divisione, e n’ha trafitto il cuore per modo da renderne quasi a tutti manifesta la causa. La damigella mezzana a tutto è presente, nota ogni cosa, e ne dà contezza alla sua signora, che l’ascolta piangendo, e le dichiara che una delle sue maggiori afflizioni è di non sapere chi sia il suo cavaliere, se di stirpe reale o no. Viene assicurata dalla donzella che tanta cortesia, gentilezza e valore come quella del suo cavaliere non può capire se non in anima reale e di alta portata. Si consola la bella afflitta, e sforzasi di celare al padre i movimenti del cuore; però due soli giorni dopo si fa vedere in pubblico. Partito è già il cavaliere; guerreggia; vince il nemico del re; conquista molte città; trionfa in più e più battaglie; ritorna alla corte; rivede la sua signora; s’accorda con lei di chiederla in moglie al suo padre per guiderdone dei prestati servigi. Il re per non sapere chi egli sia gliela nega, ma ad onta di ciò, o rubata o in qualsiasi altro modo la infanta diventa sposa del cavaliere, e il genitore lo ascrive a sua gran fortuna, venendo a sapere ch’egli è figliuolo di un valoroso re di non so qual regno, perchè credo che non esista nella mappa della terra. Muore il padre, l’infanta n’è erede, e in due parole il cavaliere diventa re. Ecco il momento in cui sono largamente compensati e lo scudiere e tutti quelli che lo ajutarono a salire a sì alto stato; marita lo scudiere colla damigella della infanta, che dovrà essere indubitatamente quella che fu la mezzana de’ suoi amori, e che sarà figlia di nobilissimo duca.

— Oh! quest’è appunto quello che io bramo, ed a questo mi attengo, disse Sancio, perchè già tutte queste maraviglie le ha da operare vossignoria, chiamato il cavaliere della trista figura. — Non ne dubitare, o Sancio, replicò don Chisciotte; perchè nella stessa maniera e per lo medesimo giro di avvenimenti testè da me riferito, pervennero e pervengono tuttavia gli erranti cavalieri a farsi re e imperadori. Resta ora a cercare qual re dei cristiani o dei pagani sia in guerra ed abbia una figlia vezzosa; ma tempo verrà da applicarsi anche a questo, poichè, come dissi, è necessario che l’acquistarsi fama sia prima del comparire alla corte. Un’altra cosa pure mi manca, ed è che dato il caso che il re si trovi in guerra, ed abbia una bella figliuola, e ch’io m’abbia acquistata una incredibile fama per tutto l’universo, non so come potrei provare di essere di stirpe reale, o almeno cugino germano d’imperatore. Il re non mi concederà certamente in isposa la figlia se prima non è chiarito pienamente questo punto, benchè le mie celebri imprese mi dieno titolo sufficiente a questo e a meglio; e da ciò nasce in me il timore di non conseguire quel bene pel cui possesso ho tanto provato il valore del mio braccio. Vero è per altro ch’io discendo da conosciuto lignaggio, che ho siffatti possedimenti che posso esigere cinquecento soldi di riparazione2; e potrebbe essere che il savio da cui sarà scritta la istoria mia innalzasse la mia parentela e la mia discendenza per modo da costituirmi quinto o sesto nipote di re. Hai da sapere, o Sancio, che v’hanno al mondo due sorta di lignaggi: l’uno che riconosce e fa derivare la discendenza da principi e monarchi consunti a poco a poco dal tempo e finiti in punta come piramidi; l’altro che trae il suo principio da gente bassa e va innalzandosi a grado a grado fino alla gran signoria: di guisa che in questo solo consiste la diversità, che gli uni furono e più non sono; e gli altri sono quelli che non furono. Io potrei essere uno di questi; chè quando si avesse rivangato ben bene, si troverebbe la mia derivazione celebrata e famosa da poter soddisfare il re e determinarlo a divenire mio suocero; ad ogni modo poi la infanta mi amerà così fortemente, che in onta al suo genitore, benchè sapesse con sicurezza ch’io fossi figlio di un acquaiolo, mi riceverebbe per suo signore e suo sposo: e qui entra benissimo il caso di rapirla e condurla dove meglio mi sarà in grado; chè poi il tempo o la morte metterà fine allo sdegno de’ suoi parenti.

— In verità che qui calza a proposito, disse Sancio, quel detto di alcune persone di poca coscienza: non domandare per grazia quello che puoi ottenere per forza; benchè più opportuno sarebbe il dire: è meglio essere uccello di campagna che di gabbia. Dico questo, perchè se il signor re, suocero di vossignoria, non vorrà degnarsi di concederle la figliuola in isposa, non c’è altra cerimonia che rubarla e portarsela via: v’è però il guaio che finchè non sarà conclusa la pace per godere il regno tranquillamente, il povero scudiere se ne starà a muso secco; se pure la damigella mezzana destinata a diventare sua moglie, non seguisse nella fuga la infanta, facendosi compagna della trista sorte, finchè il cielo altramente disponga; e così potrebbe benissimo darsi che venisse concessa per legittima sposa. — Non ci può essere a questo opposizione di sorta, disse don Chisciotte. — Quando sia così, rispose Sancio, non c’è che mettersi nelle mani di Domeneddio, e lasciar che la vada come la deve andare. — Faccia pur Dio, soggiunse don Chisciotte, come io bramo, ed a quel modo che ti abbisogna, e sia furfante chi per tale si tiene. — Lo sia pure, disse Sancio, chè quanto a me sono cristiano vecchio, e per essere conte questo mi basta. — Ed anche te n’avanza, rispose don Chisciotte; nè ti nuocerebbe punto di non esser tale; perchè, essendo io il re, posso darti nobiltà senza che ti sia d’uopo comperarla o guadagnarla co’ tuoi servigi; fatto ch’io ti abbia conte diventi subito cavaliere, e dicano quello che vogliono, dovranno pur darti titolo di signoria, per quanto loro ne pesi. — E son certo, ripigliò Sancio, che sosterrei bene il mio grado; perchè quando io fui donzello di una confraternita e ne indossavo il sacco, dicevasi che mi sarebbe stato bene quello di prevosto della confraternita stessa. Ora quale apparirò mai quando mi vedranno addosso un zimarrone ducale, oppure quando sarò rivestito d’oro e di perle come si usa dai conti stranieri? Scommetto che per vedermi verrà la gente da cento e più leghe lontano. — Farai bella comparsa, disse don Chisciotte; ma sarà necessario che tu ti faccia radere la barba più spesso; perchè avendola così folta, irsuta ed aggruppata, se non la radi ogni due giorni per lo meno, si conoscerà lungi un’archibugiata chi sei. — E che ci vuole, disse Sancio, a far questo, se non se chiamare un barbiere e tenerlo salariato al proprio servigio in casa? Se occorrerà ben lo farò io, e gli ordinerò di venirmi anche dietro come se fosse il cavallerizzo di un grande di Spagna. — E come sai tu, disse don Chisciotte, che i grandi si fanno seguitare dai loro cavallerizzi? — Glielo dirò, rispose Sancio: negli anni passati stetti per un mese alla corte, e vidi che andando a diporto un signore assai piccolo, il quale dicevan però che era assai grande, un uomo a cavallo lo seguitava dovunque andasse o voltasse, in modo che parea la sua coda3. Ho domandato perchè quell’uomo non andava a fianco dell’altro, ma gli stava dietro perpetuamente, e mi fu risposto ch’era il suo cavallerizzo, e che si usava dai grandi di farsi seguitare a quel modo; e questa cosa non potè uscirmi più della memoria. — Hai ragione, disse, don Chisciotte; e puoi benissimo farti seguire dal tuo barbiere, perchè le costumanze non vennero poste in uso tutte in una volta, nè d’un tratto, e puoi tu essere il primo conte che si faccia andar dietro il proprio barbiere; massimamente che è cosa di maggior confidenza il farsi rader la barba che l’insellare un cavallo. — Quanto alla faccenda del barbiere ci penserò io, disse Sancio, e vossignoria intanto procuri di diventar re e di sollevarmi al grado di conte. — Ciò sarà fatto, rispose don Chisciotte; e alzando gli occhi vide ciò che si racconterà nel seguente capitolo.



  1. Queste imprese si leggono nel Palmarino d’Oliva, pag. 45, e nell’Esplandiano, cap. 147 e 148.
  2. Secondo le antiche leggi del Fuero-Fuego e i Fueros di Castiglia il nobile offeso nella persona o nei beni poteva pretendere una riparazione di 500 soldi. Il plebeo non poteva domandarne più di 300.
  3. Si crede che l’autore alluda qui a don Pedro Giron duca d’Ossuna vicerè di Napoli o Sicilia, di cui il Parrino nel suo Teatro del governo dei vicerè di Napoli disse: di picciolo non avea altro che la statura.

Note

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