< Don Chisciotte della Mancia
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CAPITOLO XXIII.



Di quello che accadde al famoso don Chisciotte in Sierra Morena, e che fu una delle più rare avventure che si raccontano in questa vera istoria.



D
on Chisciotte vedendosi a sì tristo partito disse al suo scudiere: — Ho inteso sempre a dire, o Sancio, che il far bene ai vigliacchi è un lavare la testa all’asino. Se avessi badato alle tue insinuazioni non mi troverei ora in tanta sventura; ma al fatto non v’è rimedio: bisogna avere pazienza e starsene meglio avvertiti per l’avvenire. — Vossignoria sarà tanto avvertita quanto io sono turco, rispose Sancio; ma poichè ella dice che se avesse badato a’ miei consigli non ci troveremmo in tanto malanno, mi creda a quello che le dico presentemente, e scapperemo da un’altra peggiore disgrazia; perchè le so dire che contro la Santa Ermandada non si dà cavalleria; e che essa conta meno di due maravedis tutti i cavalieri erranti del mondo. E già mi pare di sentirmi fischiare negli orecchi le sue saette.1

— Tu sei codardo per tua natura, disse don Chisciotte: ma perchè tu non possa accusarmi di ostinazione, nè dire che io non bado mai alle tue insinuazioni, voglio ascoltarti per questa volta, e così mi sottrarrò da quella tempesta che tu paventi; lo fo però a condizione che vivo o morto tu non debba mai dire a nessuno ch’io mi sia ritirato e sottratto da un tal pericolo per timore, ma unicamente per condiscendere a’ prieghi tuoi; altrimenti facendo, tu mentirai; e adesso per allora, ed allora per adesso rispondo alla mentita, e dichiaro che menti e mentirai tutte le volte che ti scappi detto ciò che a mio svantaggio tu pensi. Nè replicarmi parola, sai; chè al solo pensar che ora mi sottraggo a nuovo pericolo, e spezialmente a questo dove pare ch’io mostri non so qual ombra di paura, per poco è che non mi deliberi di aspettar qui io solo, non pure la giustizia di cui tu parli e che ti atterrisce tanto, ma i fratelli tutti di tutte le dodici tribù d’Israello e i sette fratelli Maccabei, e i gemelli Castore e Polluce, e quante sbirraglie, e quanti bargelli sono al mondo. — Signore, rispose Sancio, il ritirarsi non è fuggire, e quando il pericolo è maggiore della speranza non è da accorto l’attenderlo, ma è da savio il prevenire oggi il dimani, nè avventurare il tutto in un giorno solo: e sappia vossignoria che quantunque zotico e villano io m’intendo un poco di quel che si chiama saper vivere, nè ella si penta di avere accolto il mio consiglio, ma monti sopra il suo Ronzinante; e se mai non può, io sono qua ad ajutarla, e mi segua, poichè il mio poco cervello pare che mi suggerisca che adesso abbiamo più bisogno dei piedi che delle mani„. Salì don Chisciotte senz’aggiungere parola, e, montato Sancio sopra il suo asino, entrarono per quella parte di Sierra Morena ch’era la più vicina, avendo Sancio intenzione di attraversarla tutta intiera e portarsi al Viso, o ad Almodovar del Campo, e stare nascosto per alquanti giorni fra quelle rupi per non essere colti dalla Santa Ermandada se mai li venisse cercando. Prese anche più animo vedendo che in mezzo al parapiglia coi galeotti aveva potuto salvare la vettovaglia che stava sull’asino, ciò che egli ascrisse a miracolo dopo le ruberie sofferte.

Pervennero in quella sera nel bel mezzo delle interne balze di Sierra Morena, dove giudicò don Chisciotte di restare la prima notte non solo, ma eziandio alcuni altri giorni, od almeno fin tanto che durassero le provvigioni. Pernottarono dunque in quelle balze e tra sugheri; ma la fatalità che secondo la fallace credenza di chi non professa la vera fede, regola le sorti tutte degli uomini, volle che Gines di Passamonte, il famoso mariuolo e ladro scappato dalle catene per l’opera e per la pazzia di don Chisciotte, per sottrarsi alla Santa Ermandada, di cui temeva a ragione, pensasse pure di appiattarsi tra quelle montagne. Volle dunque la fatalità che il timore e la ventura sua lo traessero a quel sito medesimo dove trovavansi don Chisciotte e Sancio in ora da poterli riconoscere, ma pensò di lasciarli dormire. Se non che i tristi sono sempre ingrati, e si abbandonano dove la necessità li conduce, e pensano al presente dimenticandosi dell’avvenire; e però Gines, briccone di pessime intenzioni, deliberò di rubar l’asino a Sancio Panza, non curandosi di Ronzinante avendolo per un mobile da non potersi nè impegnare nè vendere. Mentre Sancio stava immerso nel sonno egli ne menò dunque il giumento, e prima del giorno già era lontano per modo da non poter essere più raggiunto. Comparve l’aurora rallegrando la terra, ma recando a Sancio la più viva amarezza per la scoperta mancanza del suo asino; e trovandosene derubato, si mise a piangere sì dirottamente che svegliò don Chisciotte coi suoi singulti e con queste lamentevoli voci: — Ahi, figlio delle mie viscere, nato sotto il mio proprio tetto, delizia dei miei figliuoli, gioia di mia moglie, invidia dei miei vicini, sollievo delle mie afflizioni e sostegno della metà della mia persona, perchè con ventisei maravedis ch’io con te guadagnava ogni giorno facea metà delle spese per la mia famiglia!„.. Don Chisciotte che lo sentì a piangere, e poi ne conobbe la causa, consolò Sancio alla meglio che potè pregandolo di aver pazienza, e promettendogli di rilasciargli un viglietto con cui gli sarebbero dati tre asini dei cinque ch’egli aveva lasciati in casa sua. Si racconsolò allora Sancio, rasciugò le lagrime, finirono i singhiozzi, e gradì il bene che gli facea don Chisciotte; il quale non fu appena internato in quelle montagne, che già gli si era allargato il cuore, parendogli di essere giunto in un sito inesauribile di avventure quali appunto egli le andava cercando. Stava richiamandosi alla memoria i prodigiosi avvenimenti occorsi ai cavalieri erranti in tali solitudini e luoghi selvaggi, e andavasene immerso in questi pensieri, ed ebro e tratto fuori di sè di null’altro si rammentava; nè Sancio (poichè gli parve di essere sicuro dalle persecuzioni della giustizia), davasi altro pensiero che di pascere lo stomaco coi rimasugli di quanto avea tolto ai poveri chierici che accompagnavano il morto. A tal modo Sancio seguitando il padrone traeva di quando in quando da un sacco, che in vece dell’asino era caricato sopra Ronzinante, di che empiersi la pancia, contento della sua sorte, senza curarsi di nuove avventure. Ma in questo mezzo alzò gli occhi, e vide che il suo padrone tentava di levar qualche cosa da terra colla punta del suo lancione. Si affrettò Sancio ad ajutarlo, ed arrivò al punto in cui alzava un cuscinetto cui stava legato un valigiotto, ambedue mezzo fracidi e disfatti. Disse il padrone a Sancio che esaminasse quello che fosse nel fardello; e Sancio obbedì, e ad onta che fosse assicurato con una catena chiusa da un lucchetto, per le parti rotte e fracide vide quanto conteneva, cioè: quattro camicie di tela d’Olanda fina ed altra biancheria non meno candida e finissima, e aggomitolato in un moccichino un buon monticello di scudi d’oro. Quando Sancio li ebbe scoperti, esclamò: — Benedetto sia il cielo che ci offre finalmente una avventura da cui trarremo profitto; e frugando allora ancor più trovò un libricciuolo di memorie riccamente guernito. Questo lo volle don Chisciotte, dicendo però a Sancio che serbasse i denari per suo proprio uso. Sancio gli baciò la mano per tanto favore, e togliendo dal valigiotto la biancheria la unì alla vettovaglia che seco portava. Come don Chisciotte ebbe osservata ogni cosa: — Sembrami, disse, o Sancio (e non è possibile che sia altramente), che qualche passeggiero smarrita la via sarà entrato in queste gole, e qui lo avranno assaltato i malandrini, i quali poi lo avranno altresì sotterrato in questo recondito sito. — Ciò non può essere, rispose Sancio, perchè se fossero stati malandrini non avriano lasciato qui il danaro. — È vero, soggiunse don Chisciotte; dunque non saprei dire o indovinare donde tal cosa procedesse; ma attendi, e vedremo se in questo libretto di memorie v’è scritto cosa alcuna d’onde possiamo conoscere ciò che muove la nostra curiosità. Lo aperse, e trovatovi per la prima cosa un sonetto scritto in bel carattere, lo lesse ad alta voce perchè lo sentisse anche Sancio, e questo n’era il concetto:

“O Amore ha penuria di senno, od è eccessivamente crudele; ovvero non è la mia pena commisurata al motivo che mi condanna al più duro genere di tormento.

“Ma Amore è Dio, nessuno l’ignora, ed è ben ragionevole che un Dio non sia crudele: or chi è dunque colui che impone cotesto dolore ch’io soffro ed adoro?

“Se dico che sei tu, o Filli, m’inganno; perocchè tanto male non può capire in tanto bene: nè viene dal cielo questa rovina.

“Tra breve mi toccherà di morire; questo è il più certo: perchè ad un male di cui ignota è la cagione, miracolo sarebbe il ritrovar medicina„.

— Nemmen per questo, disse Sancio, si può chiarire l’imbroglio, se non fosse, che tenendo dietro ad un filo si può arrivar a conoscere il gomitolo di questa faccenda. — Di che filo parli tu? disse don Chisciotte. — Sembrami, rispose Sancio, che vossignoria abbia nominato filo. — Fille ho detto, rispose don Chisciotte, e questo, senza dubbio, si è il nome della dama di cui si duole l’autore di questo sonetto; e per Bacco, o che debb’essere uno sperimentato poeta, o ch’io poco me ne intendo. — E che? disse Sancio, ella s’intende di queste composizioni? — Più di quanto non credi, rispose don Chisciotte, e lo conoscerai per prova allorchè recherai una lettera scritta da un capo all’altro in versi alla mia signora Dulcinea del Toboso; perchè voglio che tu sappia, o Sancio, che tutti gli erranti cavalieri della passata età erano gran poeti e cantori; mentre queste due abilità (o grazie, per parlare più acconciamente), sono annesse agl’innamorati erranti, quantunque non possa negarsi che le canzoni de’ passati cavalieri erano quasi sempre più spiritose che belle. — Legga vossignoria quel che resta, disse Sancio, e troveremo di che soddisfarci. Voltò carta don Chisciotte, e disse: — Quest’è prosa, e sembrami che sia una lettera. — Lettera missiva? domandò Sancio. — Il suo principio indica amori, rispose don Chisciotte. — Legga dunque la signoria vostra, replicò Sancio, e legga forte, chè a me vanno a sangue le cose che trattano di amori. — Quanto mi piaci! disse don Chisciotte; e leggendola forte trovò che in essa così stava scritto:

La tua fallace promessa e la mia certa sventura mi strascinano in luogo d’onde ti arriveranno le nuove della mia morte prima che le ragioni delle mie querele. Tu, ingrata, mi posponesti a chi possiede più di me, non però più di me ti merita: ma se la virtù fosse stimata ricchezza, non invidierei le fortune degli altri, nè piangerei le sventure mie proprie. Quello che la tua bellezza avea fatto lo distrussero i tuoi portamenti. La prima mi fece credere che tu fossi un angelo; questi mi hanno fatto conoscere che sei donna. Restati in pace, sola cagione della tempesta in cui si trova il mio cuore; e piaccia al cielo che rimangano nascoste ad ognuno le frodi del tuo sposo, perchè tu non abbia a pentirti di quanto facesti, ed io non prenda vendetta di quello che non vorrei.

Terminata questa lettura, don Chisciotte disse: — Tanto dalla lettera quanto dai versi può argomentarsi soltanto che lo scrittore fu un amante disperato: e voltando e rivoltando quasi tutto il libretto trovò degli altri versi, alcuni che si potevano leggere ed altri no. Il contenuto loro non era se non querele, lamenti, differenze, gioie e disgusti, favori e sdegni, ricevuti gli uni con allegrezza, gli altri con pianto. Frattanto che don Chisciotte squadernava il libro, Sancio visitava il valigiotto con somma diligenza frugandone ogni angolo affinchè nulla scappasse dalle sue perquisizioni: tanto lo avean reso avido gli scudi trovati, che passavano i cento. Non trovò nulla più; ma tuttavia gli parve che non fossero stati senza un buon perchè lo sbalzamento della coperta, il vomito del beveraggio, le benedizioni delle stanghe, le spuntate del vetturale, il latrocinio delle bisacce, la perdita del gabbano, il furto dell’asino, e tutta la fame, sete ed affanni che avea sofferti in servigio del suo buon padrone; sembrandogli che di tutto lo compensassero le cose allora trovate.

Gran desiderio rimase nel Cavaliere della Trista figura di sapere chi fosse il padrone del fardello, conghietturando dal sonetto e dalla lettera, dalle monete d’oro e dalle fine camice, che dovesse essere un ricco innamorato, condotto a qualche disperata risoluzione dagli sdegni e dai mali trattamenti della sua signora. Ma non vedendosi alcuno in quelle deserte e dirupate balze a cui averne contezza, non curò di altro che di seguitar la sua via lasciandosi condurre a voglia di Ronzinante, dove cioè la povera bestia potesse andare, sempre colla immaginaria fiducia che non gli potesse mancare fra que’ dirupi qualche nuova e strana ventura. Proseguendo adunque il cammino immerso in questi pensieri vide sulla cima di una montagnuola che se gli offriva allo sguardo, un uomo che andava saltando di masso in masso e di macchia in macchia con gran leggerezza. Gli parve nella sua fantasia che fosse seminudo, colla barba nera e folta, coi capegli rabbuffati, i piè scalzi, nude le gambe, e con un pajo di calzoni di velluto lionato, ma stracciati per modo da mostrare da molte parti le carni. Avea scoperta la testa, e benchè apparisse solo di tratto in tratto, il cavaliere della Trista Figura osservò e notò minutamente ogni cosa; ma quantunque tentato avesse di seguitarlo, nol pote fare perchè la debolezza di Ronzinante gli vietava di valicare per quei precipizj; e tanto più che il suo passo era di natura sua assai limitato e flemmatico. Ora si figurò don Chisciotte che costui fosse il padrone del cuscinetto e del valigiotto, e propose fra sè di volerlo raggiungere quand’anche avesse dovuto aggirarsi per un anno intero tra quelle balze. Ordinò a Sancio pertanto che battesse da una parte la montagna, mentre egli se n’andrebbe per la opposta via; chè forse in tal guisa raggiungerebbero quell’uomo che gli era sparito dinanzi agli occhi. — Non posso, rispose Sancio, perchè scostandomi da vossignoria mi entra addosso una paura che mi dà mille batticuori, e mi rappresenta mille visioni; e ciò le serva di avviso, perchè da qui in avanti io non mi allontanerò un dito solo da lei. — Sia quello che vuoi, disse don Chisciotte, ed io sono contentissimo che tu ti possa valere del mio coraggio, che non ti mancherà se bene ti mancasse l’anima nel corpo; seguimi dunque a poco a poco, o come potrai, e spia da per tutto cogli occhi. Noi ci aggireremo per questa montagnuola, e forse c’imbatteremo nell’uomo da noi veduto, il quale certamente sarà il padrone di tutto quello che abbiamo trovato. Al che Sancio rispose: — In questo caso saria molto meglio che non lo andassimo cercando, perchè se lo troviamo, ed è veramente il padrone del danaro, è cosa evidente ch’io gliene dovrei fare la restituzione; però il meglio sarebbe lasciare in disparte queste inutili diligenze, e che possedessi il danaro in buona fede sin tanto che per qualche altro modo men curioso e meno sottile si scopra il vero padrone: perchè questo accadrà probabilmente quando i danari saranno spesi tutti, ed allora il re ce ne farebbe franchigia. — In ciò t’inganni, o Sancio, rispose don Chisciotte, perchè in questo dubbio siamo obbligati a cercare il padrone ed a restituire: e quando non lo trovassimo, il dubbio in cui siamo ch’egli sia desso già basta; per altro, amico Sancio, non ti dar pena di cercare di lui, che ne andrò io sulle tracce„. Ciò detto, spronò Ronzinante, e Sancio lo seguì a piedi e carico per colpa di Ginesucccio di Passamonte2; ed avendo trascorsa una parte della montagna trovarono in un ruscello caduta morta e mezzo mangiata dai cani e bezzicata dai corvi una mula colla sella e colla briglia, ciò che li confermò maggiormente nel sospetto che colui che fuggiva fosse il padrone della mula e del valigiotto. Standola osservando udirono un fischio, come quello che si usa da pastore che guardi la mandra, e comparve nel tempo stesso alla mano sinistra una buona quantità di capre, e dietro di esse veder si fece il capraio che le custodiva, e che era un uomo attempato. Don Chisciotte lo chiamò tosto pregandolo che calasse dov’eglino si trovavano; ed egsso gridando domandò a lui chi lo aveva condotto in quel luogo poche volte o non mai calpestato da piede umano, ma sol da capre o da lupi, ovvero da altre fiere di quegli antri. Sancio rispose che scendesse che di tutto gli avrebbero dato conto. Scese il caprajo, e arrivato dove stavasi don Chisciotte: — Io scommetto che voi, signori, andate guardando cotesta mula da nolo che vedete morta laggiù in quel burone: ebbene sappiate che sono già sei mesi da che ella è costà. Ora ditemi, signori: avete forse incontrato il suo padrone? Non ci siamo incontrati in alcuno, rispose don Chisciotte, ma trovato abbiamo un cuscinetto ed un valigiotto poco di qua lontano. — Io pure li ho veduti, rispose il capraio, ma non volli toccarli, e neppur ad essi accostarmi temendo di qualche disavventura o di essere tenuto per ladro; perchè il diavolo è fino, e salgono dal sotto in su delle cose che ci fanno intoppare e cadere senza che se ne sappia il come od il quando. — Così dico ancor io, rispose Sancio, che veduto ho il valigiotto, e me ne stetti lontano, fate conto come un tiro di pietra, e l’ho lasciato dov’era, e se ne giace ove stava, perchè io non voglio immischiarmi nelle cose che non m’importano. — Sapete voi, buon uomo, disse don Chisciotte, chi ne sia il padrone? — Questo solo vi so dire, rispose il caprajo, che corrono sei mesi all’incirca da che un giovane ben fatto e di giusta statura giunse ad una capanna di pastori lontana forse tre miglia da questo sito. Cavalcava egli la stessa mula che vedete là morta, ed avea seco il cuscinetto e la valigia che dite di avere trovati senza toccarli. Domandò a noi caprai quale fosse la parte più recondita e silvestre di questa Sierra, e noi gli abbiamo risponsto essere questa dove ora ci troviamo: e ciò è vero, perchè se vi penetrerete per mezza lega, non ne saprete più uscire: ed anzi mi maraviglio che fin qui vi siate potuti condurre, non essendovi nè strada nè guida che ajutare vi possa. Ora sappiate che udendo il giovane la nostra risposta, voltò le redini, e si avviò alla parte da noi accennatagli, lasciandoci tutti contenti della sua bella presenza e del suo buon garbo, ma attoniti nel tempo medesimo della sua domanda e della fretta con cui s’incamminò verso la Sierra. Da quel punto in poi non lo abbiamo veduto; se non che dopo alcuni giorni, incontratosi egli per istrada in uno de’ nostri pastori, se gli accostò, gli diede di molte pugna e calci, e poi se n’andò alla volta dell’asina del pastore che portava la vettovaglia, tolse quanto pane e cacio aveva, e fatto questo, sparì via, si può dire, in un lampo rinselvandosi nella Sierra. Quando noi caprai avemmo questa notizia siamo andati a cercarlo per quasi due giorni nei luoghi più romiti, e finalmente lo trovammo nascosto nel vano di un vecchio sughero. Egli si fece incontro a noi con grande cortesia, col vestito tutto lacero, sfigurato nella faccia ed abbronzato dal sole per modo che lo abbiamo appena riconosciuto: se non che ci siamo assicurati ch’egli era quel desso considerando le vesti così lacere che avevamo prima vedute, e le notizie che di lui ci erano state date. Ci salutò con gentilezza, e in poche ma succose parole ci disse che non facessimo le maraviglie del suo stato, perchè così era obbligato di fare per compiere una certa penitenza impostagli pe’ suoi peccati. Lo pregammo a volerci dire chi egli fosse, ma si rifiutò costantemente; gli abbiamo detto che quando avesse bisogno di sostentamento, senza il quale non potea certamente campare, ci facesse sapere dove dovessimo andarlo a trovare, perchè con tutta la premura e l’affetto gliel’avremmo portato, e che, se nè anche questo gli piaceva, lo avremmo condotto nei nostri casolari; e se tuttavia non gli piacevano le nostre offerte, ci chiedesse almeno quello di cui avea bisogno, ma si astenesse dall’usar violenza ai pastori come avea fatto. Egli gradì molto le nostre esibizioni, ci chiese perdono dell’accaduto, e promise di domandarci sempre quanto avesse bisogno per amor di Dio senza far molestia ad alcuno. Quanto al soggiorno non volle pure cangiarlo, e sul finire del suo discorso proruppe in sì tenero pianto che solo chi fosse stato di sasso avrebbe potuto ritenersi dal piangere insieme con lui. Noi consideravamo qual egli era la prima volta, e quale ci si parava allora dinanzi, perchè, come dissi, era un giovine di maniere belle e garbate, e i suoi cortesi e ragionati discorsi lo dimostravano persona ben nata e di squisita educazione: e quantunque noi siamo zotici, la sua gentilezza era tanta che ne restavamo confusi. Sappiate dunque che nel più bello del suo discorso egli ammutolì, fissò gli occhi in terra per buono spazio di tempo, e noi ce ne stavamo cheti e sospesi attendendo ove andasse a finire quella sua stupidità. Molto ci doleva di vederlo a quel tristo partito, perchè ben ci accorgemmo che quel suo aprire gli occhi a grande stento, quel tenerli sempre fissi in terra senza rimuoverli un punto, poi chiuderli un’altra volta stringendo le labbra e inarcando le ciglia, era manifesto indizio di qualche movimento di pazzia che lo cogliesse proprio in quel momento. E pur troppo ci fece conoscere che non ci eravamo in questo ingannati; ma poi levatosi con gran furia da terra ove si era gittato, venne alle prese col primo che gli era da vicino con tal furore, che lo avrebbe ammazzato a pugna e a morsi se non glielo avessimo tolto di mano. In mezzo a questi eccessi sclamava: “Ah disleale Fernando! Qua, qua mi pagherai il torto che mi hai fatto; queste mani ti strapperanno quel cuore dove albergano tutte le scelleraggini, e principalmente la frode e l’inganno„. A queste aggiungeva altre dichiarazioni che miravano tutte ad aggravare quel Fernando, tacciandolo di traditore e di sleale. Noi tutti rammaricati gli togliemmo dalle mani il nostro fratello, ed egli scostandosi senza proferir più parole, andò ad imboscarsi fra questi carpini e questi vinchi sì rapidamente che ci rese impossibile il seguitarlo. Si può conghietturare che la pazzia lo assalisca ad intervalli, e che da qualcuno chiamato Fernando abbia ricevuto qualche gran torto che lo condusse a tanta disperazione; e questo pare tanto più verisimile quanto che alcuna volta egli si è lasciato trovare sulla strada per chiedere ai pastori di essere condotto a mangiare, ed altre volte, quando viene assalito dalla frenesia, se lo toglie per forza senza curare le nostre spontanee offerte, assalendoci a furia di percosse. Quando torna in sè riceve ogni cosa per amore di Dio, e cortesemente e piacevolmente ringrazia non senza spargere molte lagrime. E per dirvi, o signori, ogni cosa, proseguì il caprajo, ieri io con quattro altri pastori, due famigli e due amici miei ci siamo proposti di cercarne finchè ci riesca di trovarlo e di condurlo o per amor o per forza alla terra di Almodovar, ch’è otto leghe di qua lontano; perchè vogliamo ch’ivi si assoggetti ad una cura, s’è male da potersi guarire; e così sapremo chi sia quando avrà qualche lucido intervallo; e se avrà parenti li renderemo consapevoli della sua disgrazia. Ecco il conto che ho potuto darvi di ciò che mi domandaste, ed accertatevi che il padrone delle cose da voi trovate è appunto colui che vedeste passare con tanta velocità, stracciato e quasi nudo„: perchè già don Chisciotte gli aveva detto di averlo veduto saltare per quelle balze.

Restò maravigliato assai don Chisciotte del racconto del caprajo, ed aumentandosi in lui la voglia di sapere chi fosse quel forsennato, propose fra sè medesimo di cercarne conto pur egli per tutta quella montagna, non lasciandosi addietro nè grotta nè angolo finchè ciò gli riuscisse. La sorte lo favorì in questo meglio di quello che pensava o sperava; perchè proprio in quel punto fra la spaccatura di una montagna, che metteva in quella dov’eglino si trovavano, comparve il giovane medesimo che andava parlando fra sè, ma in modo da non poter esser inteso nè da vicino nè da lontano. Il suo vestito era quale fu già descritto, e più avvicinandosi a lui don Chisciotte potè osservare che portava un collare di ambra3 tutto stracciato, d’onde tanto più si persuase che non potrebbe essere di bassa condizione chi portava sì nobili contrassegni. Raggiunti che furono dal giovine, li salutò egli con voce alterata e rauca, ma però assai cortesemente. Don Chisciotte gli rese il saluto con non minore creanza, e sceso da Ronzinante, con modo affabile e gaio andò a gittarsegli al collo, e se lo tenne sì a lungo e sì strettamente fra le braccia come se lo avesse conosciuto di lunga mano. L’altro, che chiamare si potrebbe lo stracciato d’infelice aspetto, come don Chisciotte era il Cavaliere dalla Trista Figura, dopo avere accolti gli abbracciamenti, scostò da sè alquanto don Chisciotte, e, postagli una mano sopra le spalle, gli fissò gli occhi addosso come se cercasse di persuadersi di conoscerlo, maravigliato non tanto di vedere la figura, la statura e le arme di don Chisciotte, quanto del modo con cui stava attentamente a guardarlo. In fine primo a parlare, seguiti gli abbracciamenti, fu il cavaliere stracciato, e disse ciò che sarà riferito qui avanti.

  1. La Santa Ermandada faceva uccidere a colpi di freccia i delinquenti da lei condannati, e ne lasciava i cadaveri appesi alla forca.
  2. Si vedrà nel capitolo seguente che il Cervantes parla poi ancora dell’asino di Sancio come se Ginesuccio non glielo avesse rapito.
  3. Collare odoroso o ripieno di cose odorose.


Note

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