< Don Chisciotte della Mancia
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CAPITOLO XXIX.



Seguita la narrazione, ed indi trattasi del grazioso artifizio e del modo usato per togliere il nostro innamorato cavaliere dalla sua asprissima penitenza.



T
ale, o signori, è la veridica istoria della mia tragedia: considerate, e giudicate ora se i sospiri che avete uditi, le parole che avete intese, e le lagrime che scaturirono dagli occhi miei, potevano avere una più legittima causa: e ponendo mente alla qualità della mia disgrazia, vedrete che riesce vana ogni consolazione, quando il male non abbia rimedio. Vi prego soltanto (ciò che potrete facilmente eseguire, e lo dovrete) di consigliarmi dove potrei passare la vita senza che mi opprima il timore e l’angoscia di essere colta da quelli che mi vanno cercando. Ciò da voi chieggo, perchè quantunque io sappia che il grande amor che mi portano i miei genitori potrebbe rendermi sicura di essere da loro ben ricevuta, tanta è però la vergogna che mi assale pensando di presentarmi loro in modo tanto diverso dalla loro aspettazione, che reputo miglior partito fuggirne eternamente la vista piuttosto che trovarmi dinanzi a loro, sapendo che non ravvisano più in me l’impronta di quella illibatezza su cui dovevano riposare„.

Tacque dopo avere ciò detto, col volto acceso da un rossore che palesava ben chiaramente il sentimento e la vergogna che celava nel cuore. Le sue parole produssero in chi l’aveva intesa non so se più rammarico o maraviglia: e sebbene volesse il curato cercare di consolarla e darle consiglio, Cardenio lo prevenne dicendo: — E che, o signora? voi siete la bella Dorotea, l’unica figliuola del ricco Clenardo?„ Restò maravigliata Dorotea nel sentir il nome di suo padre pronunziato da un uomo di sì bassa apparenza, e perciò gli disse: — Chi siete voi, fratello, cui è noto il nome del padre mio, mentre, se mal non m’appongo, non so finora d’averlo palesato nell’intero corso del racconto di mie sventure? — Sono, rispose Cardenio, quell’infelice che, secondo le vostre parole, fu chiamato da Lucinda suo sposo: sono lo sventurato Cardenio ridotto a mal punto da colui che guidò voi pure in sì terribile fatalità: quello son io tratto da Fernando alla condizione che vedete, lacero, ignudo, spoglio di ogni umano conforto, e ciò ch’è peggio, coll’intelletto sì guasto, che appena di quando in quando mi concede il cielo di poterne far uso. Sì, Dorotea, quello son io che mi trovai presente alle ingiustizie di don Fernando, e che aspettai quel con cui Lucinda promise di essergli sposa. Son io colui che non aspettai il successo dello svenimento, nè ciò che derivar potesse dal foglio trovatole in seno. Come incapace di sopportare tante sventure congiunte insieme, uscii allora da quella casa lasciando una lettera al mio ospite che la facesse pervenire alle mani di Lucinda; e volai tosto tra queste solitudini deliberato di terminarvi la vita, che dopo quel momento io detesto come un nemico mortale. Non piacque alla sorte di appagare il mio desiderio, contentandosi di recare offesa al mio intelletto; forse per riserbarmi alla buona ventura d’incontrarmi in voi; poichè se è vero, come non dubito, tutto quello che raccontaste, potrebbe essere che ci riserbasse il cielo a qualche migliore avvenimento in compenso dei sofferti disastri. La mia speranza non è mal fondata; perchè se Lucinda non può farsi sposa a don Fernando per essere mia, nè don Fernando con lei per essere vostro, avendone fatta essa dichiarazione così solenne, possiamo ragionevolmente confidare di vederci restituito dal cielo ciò che è nostro e che non fu nè alienato nè distrutto. E poichè abbiamo ora questa consolazione fondata non già sopra vane speranze o sopra fantastici pensieri, vi supplico, o signora, di appigliarvi ad altre risoluzioni, giacchè penso di così fare io pure attendendo fortuna migliore. Giuro intanto in fede di cavaliere e di cristiano di non mai abbandonarvi finchè non vi vegga unita a don Fernando; e se con sode ragioni condurre io non lo potrò al proprio dovere, prometto di usare della libertà che mi concede l’esser cavaliere, sfidandolo a giusto duello pel torto che vi usa (senza parlare delle offese ch’egli ha fatte a me pure, e delle quali lascio la cura al cielo); insomma io voglio essere in terra l’unico vostro soccorso„.

Ciò che disse Cardenio terminò di compiere la maraviglia in Dorotea, e non sapendo rendergli grazie convenienti a tanta offerta, volle gittarsegli a’ piedi. Non consentì Cardenio, e il curato rispose per ambedue, approvando il lodevole ragionare di Cardenio; e soprattutto pregandolo, consigliandolo, persuadendolo che se ne andassero uniti al suo paese, dove si sarebbe cercato rimedio alle cose delle quali eglino abbisognavano, e dove avrebbero potuto indagare di don Fernando, e pensare al modo di ricondurre Dorotea ai suoi genitori, ovvero di prendere que’ partiti che fossero creduti più opportuni. Aggradirono Cardenio e Dorotea il consiglio, ed accettarono l’offerta amichevole. Il barbiere, ch’era restato sospeso e taciturno sopra quanto avea inteso, fece anch’egli il suo piccolo ragionamento, e si offerse con non minor cuore del curato a tutto ciò che valesse a servirli. Fece nel tempo stesso una breve narrazione della causa che colà li aveva tratti, e delle stranezze e delle pazzie di don Chisciotte, e come ne stavano attendendo lo scudiere ch’era andato a cercarlo. Allora Cardenio si ricordò come d’un sogno, della quistione avuta con don Chisciotte, e la raccontò agli astanti senza sapere loro spiegare qual motivo l’avesse prodotta. Stando in questi ragionamenti s’intese da lungi la voce di Sancio Panza, il quale non avendoli rinvenuti dove li aveva lasciati, li chiamava altamente. Gli andarono incontro, e chiedendogli di don Chisciotte, fece egli loro sapere di averlo trovato coperto della sola camicia, spossato, pallido, mezzo morto di fame, sospirando per la sua signora Dulcinea; e che avendogli detto ch’ella gli comandava che di là si partisse per recarsi al Toboso dove lo stava aspettando, rispose ch’era deliberato di non comparire davanti alla sua bellezza se non avea fatte prima prodezze tali che lo rendessero degno della sua grazia; e che se a ciò non avesse adempito, correa pericolo di non arrivare giammai ad essere imperatore, siccome era obbligo suo, e neppure arcivescovo, ch’era il meno a cui potesse aspirare; e perciò pensassero eglino al modo di trarlo da quella intricata situazione. Il curato rispose che non se ne pigliasse fastidio, mentre l’avrebbero essi fatto partire di là a suo marcio dispetto. Partecipò allora a Cardenio e a Dorotea il divisamento suo per rimediare alla pazzia di don Chisciotte od almeno per ricondurlo al suo paese; e Dorotea che doveva in ciò avere gran parte, promise che senza dubbio avrebbe saputo e potuto sostener la persona di una giovane sventurata con più verità del barbiere; e che tanto più ciò le sarebbe agevole quanto che aveva seco i vestiti per comparire tale naturalmente. Soggiunse che a lei lasciassero l’incarico di fingere quanto fosse duopo all’oggetto, perocchè avendo studiato molti libri di cavalleria, sapea benissimo la condotta delle donzelle infelici quando chieggono favori ai cavalieri erranti. — Altro non abbisogna, disse il curato, se non che ci accingiamo all’opera; chè senza dubbio la sorte ci si mostra favorevole, poichè d’improvviso a voi, signori miei, si è cominciato ad aprire una porta per rimedio alle vostre sventure, ed a noi si renderà facile il conseguire quello di cui abbisogniamo„. Trasse allora Dorotea dall’involto che seco avea una zimarra di ricco tessuto ed appariscente, ed un mantellino di tela verde; cavò da una cassetta un collare ed altre gioie con cui si adornò in un momento per modo che sembrava una doviziosa e nobil signora. Disse che avea recati seco quei mobili, ed altri ancora, da casa sua per ciò che le potesse occorrere, ma che non ne avea fatto uso perchè non erasele offerta mai un’opportuna occasione. Tutti rimasero soddisfatti della sua buona grazia, leggiadria e belleza, riprovando assai don Fernando che avesse vilipesa una giovane di tanti pregi. Quello che più di ogni altro fece le maraviglie fu Sancio Panza, parendogli (come era realmente) di non avere veduto creatura più bella in tutto il corso della sua vita; e domandò al curato con viva premura che gli facesse sapere chi fosse quella sì rara signora, e che cosa andasse cercando per quei luoghi disabitati ed alpestri. — Questa bella signora, fratello Sancio, è, rispose il curato, per nulla dirne, l’erede per linea retta mascolina, del gran regno di Micomicone, la quale viene a cercare del vostro padrone per domandargli un favore, ed è che le disfaccia un torto ossia un’offesa che le fece un gigante furbo; e si è questa principessa partita dall’interno della Guinea, chiamata dalla fama che rende celebre il vostro padrone per tutto il mondo. — Fortunata ricerca e felice ritrovamento, disse a tal punto Sancio Panza; e più ancora se il mio padrone è avventurarto a segno da disfare questa ingiuria e drizzar questo torto, ammazzando l’indegno gigante che dice vossignoria: e lo ammazzerà in un fiato, sapete, quando non sia una qualche fantasima; perchè il mio signore non ha sopra le fantasime alcuna podestà. Ma di una cosa fra le altre debbo supplicare la signoria vostra, signor curato, ed è che per distogliere il mio padrone dall’idea di farsi arcivescovo (di che temo molto) vossignoria lo consigli a sposarsi con questa principessa, e così si metterà fuori del caso di ricevere gli ordini arcivescovili; donde egli giugnerà facilmente ad essere imperatore, ed io al conseguimento di ciò che desidero. Io ci ho studiato sopra, ed ho veduto assai chiaramente e trovato che per nulla mi sta bene che il mio padrone divenga arcivescovo; perchè io non sono fatto per la Chiesa avendo moglie; e se mi trovassi costretto di andare ad ottenere dispense per campare mercè le rendite ecclesiastiche con questa benedetta moglie e figliuoli, sarebbe un non finirla mai più. Perciò, signore, il punto sta qui, che il mio padrone si mariti con questa donna, che non so finora come si chiami, e per questo non le dico il suo nome. — Si chiama, rispose il curato, principessa Micomicona, perchè chiamandosi Micomicone il suo regno, è chiaro che il suo nome debba essere Micomicona. — Di ciò non vi è dubbio, rispose Sancio, perchè ho veduto molti a prendere il nome e soprannome della terra in cui nacquero, chiamandosi don Pietro di Alcalà, Giovanni di Ubeda e Diego di Vagliadolid; e lo stesso deve usarsi là nella Guinea, prendendosi le regine il nome dai loro regni. — Ciò debb’essere, disse il curato, e per quanto risguarda il matrimonio del vostro padrone, ci metterò del mio quanto posso„. Sancio rimase di ciò tanto contento quanto il curato era pieno di maraviglia della sua semplicità, e di vedere quanto avea fitti nel capo gli stessi spropositi del suo padrone, dandosi perfino a credere fermamente che egli potesse diventare un imperatore.

Erasi messa intanto Dorotea sopra la mula del curato; e il barbiere s’era aggiustata al viso la coda di bue a foggia di barba, e raccomandarono a Sancio che li guidasse dove trovavasi don Chisciotte, avvertendolo che non dicesse di conoscere il curato e il barbiere, perchè da ciò dipendeva che il suo padrone diventasse imperatore. Il curato però nè Cardenio non vollero andar con loro, affinchè don Chisciotte non si richiamasse alla memoria la quistione avuta con Cardenio; e il curato perchè stimò che la sua presenza allora fosse inutile affatto. Perciò li lasciarono andare innanzi, ed essi gli andavano seguitando a piedi a poco a poco. Non lasciò il curato di avvertire Dorotea di quanto dovea fare, ed ella rispose che stesse di buon animo, perchè eseguirebbe ogni cosa appuntino come esigevano ed insegnavano i libri di cavalleria. Avevano fatti appena tre quarti di lega quando scoprirono don Chisciotte fra certi intricati cespugli, ed era in quel momento vestito, benchè non armato. Tostochè Dorotea lo vide, avendole detto Sancio che quegli era don Chisciotte, diede fortemente di sprone alla mula, e la seguitò il ben barbato barbiere. Arrivata a lui, lo scudiere si gittò a terra, e andò a ricevere in braccio Dorotea, la quale smontando con molta disinvoltura corse tosto ad inginocchiarsi dinanzi a don Chisciotte; e benchè egli tentasse con ogni sforzo di farla levare, essa senza muoversi così gli disse: — Non mi leverò di qua, o valoroso e bravo cavaliere, se prima la vostra bontà e cortesia non mi concede un favore, il quale ridonderà in onore e pregio della vostra persona, e a pro della più sconsolata e oltraggiata donzella che il sole abbia mai veduta; e se il valore del vostro braccio corrisponde al clamore dell’immortale vostra fama, siete obbligato a dare assistenza a questa sfortunata che da tanto lontani paesi viene all’odore del vostro celebrato nome, cercando rimedio alle sue disavventure. — Io non vi farò veruna risposta, o bella signora, disse don Chisciotte, nè sentirò cosa alcuna toccante le vostre vicende, finchè non vi alziate da terra. — No, non mi alzerò, o signore, ripigliò la sconsolata donzella, se non mi concedete prima il favore che vi chieggo. — Ve lo concedo, e prometto di fare ogni cosa per voi, replicò don Chisciotte, quando non ne derivi danno o disonore al mio re, alla patria, ed a colei che tiene le chiavi di questo cuore e della mia libertà. — Ciò non sarà certamente, mio buon signore„, soggiunse la giovane dolente. Sancio frattanto disse piano piano all’orecchio del suo padrone: — Può la signoria vostra senza pensarvi concederle il favore che domanda, perchè è cosa da nulla, trattandosi solo di ammazzare un gigantaccio; e questa che lo chiede è l’alta principessa Micomicona, regina del gran regno Micomicone di Etiopia. — Sia quale si vuol essere, rispose don Chisciotte, io farò quello cui sono obbligato, e ciò che mi detta la coscienza conforme alla mia professione; poi volgendosi alla donzella disse: — La vostra grande bellezza si alzi ch’io le concederò il favore che dimanderà. — Quello che chieggo si è, disse la donzella, che la magnanima vostra persona mi segua sul momento dove io sarò per condurla, e mi prometta di non impegnarsi in altra avventura, nè in veruna domanda, finchè non mi abbia vendicata di un traditore che contra ogni diritto divino ed umano mi usurpa il regno. — Replico, che ve lo prometto, rispose don Chisciotte; e potete, o signora, da quindi innanzi dar bando alla malinconia che vi opprime, e fare che riprendano nuovo spirito e nuova forza le vostre illanguidite speranze, chè con l’assistenza di Dio e mercè il valore del mio braccio voi vi vedrete presto restituita al vostro regno, e seduta sul trono del vostro antico potente stato, ad onta e a dispetto dei poltroni che vi si opponessero; e diasi tantosto mano all’opera, chè dall’indugio, come si dice, nasce talvolta il pericolo„. La bisognosa donzella fece ogni sua possa per baciargli le mani: ma don Chisciotte, che amava di esser tenuto un ben creato e cortese cavaliere, non lo permise; la fece anzi alzare da terra e l’abbracciò con molta affabilità e bel costume; poi ordinò a Sancio che guardasse se erano ben assettate le cinghie a Ronzinante, e lo armasse sul fatto di tutto punto. Sancio calò giù l’armatura che a guisa di trofeo stava pendente da un arbore, e, riviste le cinghie, armò il suo padrone in men ch’io nol dico. Il quale vedutosi armato: — Andiamo, disse, nel nome di Dio a dar favore a questa alta signora„. Stavasene tuttavia ginocchioni il barbiere facendo ogni sforzo per trattenere le risa ed occupandosi con ogni studio a impedire che gli cadesse la barba: chè se caduta gli fosse andato sarebbe a vuoto il loro disegno lodevolissimo: e vedendo ch’era già concesso il favore, e che la diligenza di don Chisciotte andava accelerandone il compimento, levossi, e presa l’altra mano della sua signora, l’aiutarono in due a montare sulla mula. Don Chisciotte salì subito sopra Ronzinante, e il barbiere si rassettò sulla sua cavalcatura, restando Sancio a piedi, ciò che gli fece tornare in mente la dolorosissima perdita del suo asino; ma già tollerava ogni cosa pazientemente, poichè se il suo padrone, come a lui pareva certissimo, era non pur sulla strada, ma prossimo a diventar imperatore, egli stava per accasarsi con quella principessa, divenendo per lo meno re di Micomicone. Gli dava un po’ di fastidio il pensiere che quel regno fosse in terra di Negri, e che i suoi vassalli dovessero essere tutti negri; ma poi nella sua fantasia trovò buon rimedio dicendo seco medesimo: — Che importa a me che i miei vassalli sieno negri? Io non avrò altra briga che quella di trasportarli sulle navi in Ispagna, dove potrò venderli, e me li pagheranno a contanti, e con questi potrò comprarmi qualche titolo o carica con cui vivere riposatamente in tutto il corso della mia vita. Oh s’io dormissi! e non fossi capace a un bisogno di vendere, per esempio, un trenta mila vassalli! Affè di Dio che li saprò metter a profitto come mi tornerà meglio: e sieno pur negri che io li farò diventare bianchi e gialli: vengano, vengano, che io me ne lecco le dita„. Immerso in queste sue fantasie andava egli sì veloce e contento che non sentiva l’incomodo di camminare a piedi.

Stavansi Cardenio ed il curato ad osservare questi avvenimenti con attenzione tenendosi ascosi fra i cespugli, nè sapeano come fare per accompagnarsi cogli altri nel viaggio. Ma il curato che era uomo che la sapea lunga, immaginò sul fatto come venire a capo dei suoi desiderii. Egli trasse una forbice che portava in un astuccio, e tagliò con gran prestezza la barba a Cardenio, poi lo vestì con un suo cappotto bigio e un collaretto nero, restando egli in calze e farsetto. Compariva perciò Cardenio tanto differente da quello che pareva prima, che non avrebbe conosciuto più sè medesimo se si fosse guardato in uno specchio. Fatto ciò, quantunque gli altri avessero viaggiato nel mentre ch’ei si travestivano, giunsero facilmente sulla strada maestra prima di loro, perchè le balze e i cattivi passi di quei luoghi facevano che camminassero più velocemente i pedoni che le persone a cavallo. In effetto presto si trovaron al piano appiè della montagna, ed uscitone fuori anche don Chisciotte coi compagni, il curato si pose a mirarlo con molta gravità, come chi cerca di rammentarsi qualcuno e di riconoscerlo; e dopo averlo buona pezza osservato se gli fece incontro a braccia aperte, dicendoci con sonora voce: — Sia il ben trovato lo specchio della cavalleria, il mio buon compatriotta don Chisciotte della Mancia, il fiore e l’esempio della gentilezza, la difesa e il rifugio dei bisognosi, la quinta essenza dei cavalieri erranti„. Nel dire questo teneva abbracciato il ginocchio della gamba sinistra di don Chisciotte, il quale, attonito di ciò che vedeva e sentiva dire e fare da quell’uomo, si pose a guardarlo con attenzione, e lo conobbe finalmente, restando come trasecolato a tal vista. Fece gran forza per voler ismontare: ma il curato nol permise a niun modo, per lo che disse don Chisciotte: — Me lo permetta vossignoria, signor curato, chè non si conviene che io mi stia a cavallo quando se ne sta a piedi una sì rispettabile persona com’è la signoria vostra. — Nol consentirò a patto alcuno, rispose il curato: se ne resti a cavallo la vostra grandezza, poichè a cavallo compie gloriosamente le maggiori imprese e avventure che siensi nell’età nostra vedute; chè a me, benchè indegno sacerdote, basterà montare in groppa di una delle mule di questi signori che viaggiano colla signoria vostra, se però lo comportano, ed anche farò conto di cavalcar Pegaso o di mettermi sopra il daino o l’alfana cavalcati dal famoso Muzaracche, che stassene attualmente incantato nella gran caverna Zulema lontano assai poco dalla gran Compluto1. — Io non avea posto mente a ciò, signor curato, replicò don Chisciotte, ma credo bene che la principessa mia signora comanderà per amor mio al suo scudiere che dia alla signoria vostra la sella della sua mula, poichè egli potrà accomodarsi sulle groppe, quando però la mula sia abituata a due cavalcatori. — Credo che porterà, rispose la principessa, e immagino che non abbisognerà domandarlo due volte al signor mio scudiere, ch’egli è sì gentile e costumato da non permettere che un ecclesiastico se ne vada a piedi quando può andare a cavallo. — Così sia, rispose il barbiere, e smontando sul fatto offerse al curato la sella che accettò senza farsi molto pregare: ma volle la mala sorte che mentre il barbiere volea montar sulle groppe, la mula ch’era vetturina (e questo basta per dire ch’era cattiva) tirò due calci all’aria sì impetuosi, che se avesse colto maestro Niccolò nel petto o nella testa, gli avrebbe fatto maledire l’ora in cui si era messo in traccia di don Chisciotte. Tale e tanta però fu la paura che strammazzò, e la sua barba si svelse: laonde per non essere scoperto fu presto a coprirsi la faccia con ambe le mani, e dolersi come se gli si fosser rotti i denti. Quando vide don Chisciotte quel gruppo di barba senza ganasce e senza che lo scudiere fosse per ciò insanguinato, disse: — Viva il cielo che questo è un gran miracolo! gli fu strappata la barba dal viso come se l’avesse avuta posticcia!„ Il curato, scorgendo il pericolo di tutta la sua invenzione, affrettossi immantinente a raccorla colà dove maestro Niccolò era caduto, e mettendosi la testa di lui fra le gambe, gliela appiccò di nuovo, susurrando certe parole che disse essere opportune da recitare all’uopo di attaccar barbe come si sarebbe veduto. Riattaccata dunque che la ebbe si discostò, e lasciò lo scudiere sì ben barbato e sano com’era prima, della qual cosa rimase don Chisciotte maravigliato oltre misura; e pregò il curato che a tempo e luogo gl’insegnasse le magiche parole, perchè certamente la loro virtù doveva estendersi ad altri mali. Rispose il curato che era così per lo appunto; e promise che gli avrebbe insegnato questo ed altri segreti. Stabilirono dunque che cavalcasse il curato, e che poi ognuno si desse il cambio di tanto in tanto finchè giugnessero all’osteria la quale trovavasi a due leghe di là.

Saliti tutti e tre a cavallo, cioè don Chisciotte, la principessa e il curato, restando Cardenio, il barbiere e Sancio Panza a piedi, don Chisciotte disse alla donzella: — La grandezza vostra, signora mia, mi conduca per la strada che brama„. E prima ch’ella desse risposta il curato soggiunse: — Verso qual regno vuole guidarci la signoria vostra? M’immagino verso il regno di Micomicone, poichè credo che non vorrà andare altrove, se pure ioho qualche intelligenza di queste cose„. Dorotea che stavasene sull’avviso di tutto comprese che avea da rispondere affermativamente, e perciò disse: — Appunto, o signore, io debbo dirigermi verso quel regno. — Se così è, disse il curato, fa di mestieri che attraversiamo la mia terra, e moverà per quella parte la signoria vostra prendendo la via di Cartagena, dove potrà imbarcarsi con la buona ventura: e se avrà prospero vento favorevole, mare tranquillo e senza burrasche, si troverà ella in poco meno di nove anni a vista del gran lago Meone, voglio dire Meotide, che giace distante dal regno della grandezza vostra poco più di cento giornate. — Parmi, soggiuns’ella, che vossignoria si inganni, perchè non sono ancora due anni da che me ne sono partita, e ad onta che non abbia avuto la sorte di navigare con prospero vento, pur sono giunta a vedere ciò cui miravano le ardenti mie brame, il signor don Chisciotte della Mancia, le cui geste maravigliose mi si resero subito ch’ebbi posto il piede in Ispagna; e furono esse che m’indussero a farne ricerca per mettermi sotto le ali della sua protezione, affidando la giustizia della mia causa al suo braccio invincibile. — Basta, basta, cessino le mie lodi, disse a tal punto don Chisciotte, giacchè son nemico dichiarato di ogni adulazione: e sebbene in questo vossignoria non mi aduli, nondimeno restano offesi i miei orecchi da somiglianti discorsi. Ciò di che posso assicurarvi, signora mia, si è che ad ogni costo io mi adoprerò a favorir la vostra causa, se anche n’andasse la vita; ma riservando ciò a miglior tempo, prego il signor curato che mi faccia sapere la cagione che a queste parti il condusse così solo, senza servitore, e con vestiti sì leggieri che al vederli io ne spasimo. — Risponderò brevemente, disse il curato, perchè saprà la signoria vostra, signor don Chisciotte, ch’io e maestro Niccolò, nostro amico e barbiere, ce ne andavamo a Siviglia a riscuotere certo danaro mandatomi da un tal mio parente che da molti anni passò nelle Indie, e non eran meno di sessanta mila pezzi duri, nè sono bagattelle: ora sappia che passando ieri per questi luoghi quattro assassini ci assalirono spogliandoci di ogni cosa e perfino delle barbe, e ce le strapparono in modo che convenne al barbiere metterne una posticcia, e conciarono assai male anche questo giovinotto (ed accennò Cardenio) che qua vedete; ed il peggio si è che corre voce in questi dintorni, che quelli che ci assalirono furono galeotti, i quali quasi in questo medesimo sito furono liberati per opera di un uomo sommamente valoroso che li ha sciolti in onta al commissario ed alle guardie che li custodivano. Costui dovea certamente esser uomo privo di senno, o qualche furfante come loro, o una persona senz’anima e senza coscienza, poichè volle mettere il lupo nell’ovile, la volpe fra le galline, la mosca nel mele; e così frodare la giustizia, opporsi al re suo signore naturale, facendo fronte ai suoi giusti comandi, privare le galere delle braccia occorrenti, rimettere in movimento la Santa Ermandada, che da molto tempo se ne stava in riposo, e commettere in fine un’azione che tornerà a danno dell’anima sua ed a grave pregiudizio della sua persona„.

Avea Sancio fatta sapere al curato ed al barbiere l’avventura dei galeotti condotta a fine dal suo padrone con tanta gloria, e per questo andava il curato ripetendola con tratti ben forti per vedere ciò che ne facesse o dicesse don Chisciotte, il quale cangiavasi di colore ad ogni parola, nè osava dire ch’egli era stato il liberatore di quella buona gente. — Questi, conchiuse il curato, furono quelli che ci hanno assassinato; ma Dio perdoni a colui che è stato causa che non fossero strascinati al meritato supplizio„.


  1. Zulema è il nome di una montagna presso la patria di Cervantes, sulla cima della quale trovaronsi alcune rovine credute dell’antica Complutum.


Note

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