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DUEMILA LEGHE SOTTO L’AMERICA
CAPITOLO I.
L’Ingegnere Webher.
La notte del 20 Novembre 1869, mentre una fitta pioggia scrosciava sul terreno e sui tetti delle case e un vento indiavolato e rigidissimo fischiava attraverso gli spogli rami degli alberi, un vigoroso cavallo inzaccherato di fango fino al collo, montato da un uomo armato d’una lunga carabina, entrava di galoppo in Munfordsville, piccola borgata di nessuna importanza, situata quasi nel cuore dello Stato di Kentucky dell’America settentrionale.
Se qualcuno degli abitanti avesse visto quell’individuo percorrere a quell’ora tarda e con quell’orribile tempo le vie del villaggio, non avrebbe senza dubbio esitato a rinchiudersi in casa e a sprangare la porta e le finestre per paura di aver a che fare con qualche cattivo scorridore.
Infatti quel cavaliere colla sua statura elevata, col suo cappellaccio di feltro adorno d’una piuma, col suo ampio mantello, i suoi stivaloni alla scudiera e la sua carabina, di primo colpo doveva fare sull’animo di chiunque un certo effetto.
Chi però lo avesse guardato da vicino si sarebbe subito rassicurato. La faccia di quell’uomo era franca, aperta, simpaticissima, con una fronte alta e spaziosa ma solcata da qualche precoce ruga, occhi bellissimi, neri, ma un po’ malinconici, sormontati da due grandi sopracciglia, naso dritto e labbra sottili ombreggiate da un paio di baffi un po’ brizzolati.
Giunto che fu il cavallo alle prime case della borgata, il cavaliere che guardava attentamente a destra e a sinistra come se cercasse qualcuno, cacciò una mano in una saccoccia interna della sua giubba di velluto nero e levò un magnifico cronometro d’oro.
— Mezzanotte, disse, accostandoselo agli occhi. Non sarà facile trovare la porta, con questa oscurità. Ma, ora che mi ricordo, ci deve essere un canwass-bach imbalsamato.
Spronò il cavallo che mandò un nitrito soffocato e attraversò di galoppo la borgata, arrestandosi dinanzi ad una casupola piuttosto malandata.
Guardò con attenzione la porta e vi vide sopra, inchiodata, una specie d’anitra colle ali spiegate.
— È il canwass-bach, mormorò.
Discese di sella, legò il cavallo alle sbarre di una inferriata e picchiò tre volte alla porta, dalle fessure della quale trapelavano alcuni raggi di luce.
— Chi è? chiese una voce dall’interno.
— L’ingegnere John Webher, rispose il cavaliere.
Subito i chiavistelli stridettero, la porta si aprì ed un uomo apparve con una lanterna in mano.
Quell’individuo non aveva più di trent’anni. Era un meticcio di media statura ma assai tarchiato, di tinta molto bruna, occhi grandi, vivissimi, intelligenti, labbra grosse ma non tumide, naso un po’ schiacciato e una capigliatura nerissima e ricciuta come quella dei negri. Il suo costume non differiva molto da quello dei cacciatori delle grandi praterie dell’ovest: giubbetto di tela greggia arabescato da cordoncini azzurri, stretto ai fianchi da una larga cintura un paio di pantaloni di pelle di daino, grandi uose e un berretto di pelle di volpe.
— Siete voi, signore? chiese, facendo cadere la luce della lanterna sull’ingegnere. Credeva di non vedervi con questa notte orribile.
— Non ho paura della pioggia e del vento, Burthon, rispose il cavaliere. Appena ricevetti la tua lettera saltai in sella e partii ventre a terra. Cosa desideri?
— Entrate, prima di tutto, sir John.
L’ingegnere e Burthon entrarono nella casupola. Si trovarono in una stanzetta illuminata da un gigantesco fuoco che ardeva sul camino e arredata miseramente. C’erano tre o quattro sedie zoppe, una tavola, alcune selle e alcuni finimenti da cavallo, alcuni fucili appesi ad un chiodo, due o tre di quei solidi coltelli che chiamansi bowie-knife, dei corni probabilmente pieni di polvere da sparo e delle pelli di cervo e d’orso tese a seccare.
Burthon sturò una bottiglia di wisky, empì un bicchiere e lo diede all’ingegnere.
— Bevete, sir John, disse. È di quello buono. Ed ora, ditemi: il vostro cavallo può fare altre sei miglia di galoppo?
— Perchè questa domanda? chiese sir John.
— Dobbiamo partire subito.
— Hai scoperto le tracce di qualche orso? Tu ti ricordi sempre di me quando c’è da fare un bel colpo di fucile.
— Non si tratta di andare alla caccia, sir John. Andiamo a trovare un uomo che sta per morire e che desidera parlare a voi.
— Un moribondo? E chi è?
— Ve lo dirò lungo il viaggio.
L’ingegnere vuotò la tazza e s’alzò subito.
— Partiamo, disse.
Burthon gettò un secchio d’acqua sul camino, si mise a tracolla un corno pieno di polvere e una borsa piena di palle e staccò dal chiodo un fucile.
— Hai un cavallo per te? chiese l’ingegnere.
— Ho il mio mustano. Andiamo, sir John.
Uscirono dalla catapecchia. Il cacciatore chiuse la porta a chiave e si recò sotto una tettoia dove stava un bel cavallo di prateria completamente bardato.
— Di galoppo! gridò, balzando agilmente in sella.
I due cavalli vigorosamente spronati partirono ventre a terra lasciandosi sulla destra Munfordsville.
La notte era sempre orribile e oscurissima. Un vento fortissimo e molto freddo fischiava rabbiosamente fra i rami delle quercie, degli aceri, dei faggi e degli olmi, torcendoli e spezzandoli e una pioggia più dirotta di prima cadeva scorrendo fra i solchi delle piantagioni. In nessun luogo si vedeva un’anima viva, nè in alcuna casa brillava un lume.
— Ma dove mi conduci? chiese l’ingegnere dopo qualche tempo, al compagno che galoppava al suo fianco.
— Da un moribondo che ricevette da voi sempre larghi aiuti, dall’indiano Smoky infine.
— Che! Smoky moribondo!..
— Sì, e temo che non veda il sole di domani.
— Che gli è accaduto? chiese l’ingegnere con voce commossa.
— Ve lo racconterò in poche parole. Il povero Smoky, quindici giorni or sono, tornava alla sua casupola con un tacchino selvatico che aveva ucciso in un bosco. Ad un tratto tre uomini che stavano nascosti dietro ad un albero fecero fuoco su di lui, e appena lo videro cadere gli sfondarono la porta della capanna e gli rubarono quanto possedeva.
— E dove l’avevano colpito?
— In mezzo al petto con due palle. Appena io fui avvertito corsi a trovarlo e lo curai, ma stamane lo stato del ferito si aggravò tanto, che come vi dissi, temo non veda il sole di domani.
— E chi sono gli assassini?
— Li conosco tutti e tre. Uno è un bianco, certo Carnot, gli altri due sono scorridori di prateria.
— E dove sono ora?
— Avranno attraversato il Mississippi e si saranno rifugiati nelle grandi praterie dell’ovest. Ma vi giuro signore, che li troverò e ben presto.
— Hai intenzione di ritornare nelle grandi praterie?
— Non c’è più selvaggina nel Kentucky, sir John.
— Sei solo ora?
— No, sono sempre assieme a O’Connor e a Morgan.
— Sono presso Smoky i tuoi compagni?
— Non lo credo. Stamane mi dicevano che volevano battere un certo bosco ove erano state trovate le traccie di un orso.
— Sai perchè Smoky desidera vedermi?
— Per parlarvi, vi ho detto.
— Povero Smoky, mormorò l’ingegnere. Affrettiamoci, Burthon.
Alla una del mattino i due cavalieri, dopo aver costeggiato per qualche tratto la riva destra del Green, grosso corso d’acqua che scaricasi nell’Ohio, si cacciarono in mezzo ad un folto bosco di aceri dal cupo fogliame, battendo un sentiero appena tracciato.
Là sotto non pioveva, ma l’oscurità era così profonda che non ci vedevano più in là di tre passi e il vento ruggiva in modo tale da credere che il bosco fosse pieno di belve feroci.
Alle due, Burthon che segnava la via, piegò bruscamente verso est e dopo un tre o quattrocento metri si arrestava dinanzi ad una piccola capanna le cui finestre erano illuminate.
— A terra sir John, disse, scendendo di sella.
L’ingegnere obbedì e si diresse verso la capanna lasciando al compagno la cura di riparargli il cavallo.
Una vecchia negra lo ricevette sulla porta.
— Siete l’ingegnere Webher, gli chiese.
— In persona. Dorme Smoky?
— No signore.
— Come sta?
— Molto male. Non gli dò quattro ore di vita.
L’ingegnere entrò nella capanna. Si trovò in una stanza rettangolare, illuminata da una candela di sevo e molto meschinamente ammobiliata. Una tavola nel mezzo, alcune panche all’intorno, dei fucili appesi alle pareti, alcune scuri indiane, qualche coltello, delle corna di bisonte, delle pelli, delle fiaschette, dei mocassini ricamati, alcune vesti ammucchiate in un angolo e in fondo un letto sul quale rantolava un uomo molto vecchio, molto scarno, di tinta rossastra e con una capigliatura assai lunga e ancora nera.
L’ingegnere si fermò un momento a mirare con occhio compassionevole quel disgraziato che pareva proprio agli estremi, poi si avvicinò al letto.
— Smoky, mio povero amico, disse con voce commossa.
L’indiano udendo quella voce aprì gli occhi semispenti, poi, facendo uno sforzo si alzò lentamente.
— Voi! esclamò, mentre un vivo lampo animavagli gli sguardi. Mio fratello bianco è sempre buono.
— Come stai, amico mio?
L’indiano tentò di sorridere ma non vi riuscì.
— Il Grande Spirito mi chiama, disse poi con voce rantolosa.
— Non disperare Smoky, disse sir John stringendo affettuosamente la mano che il morente gli tendeva.
— Sento che la mia vita... se ne va, fratello bianco.... Oh, ma non ha paura della morte un indiano.... Temeva solamente di lasciare... questa capanna senza avervi veduto e....
S’interruppe e chinò la testa come se cercasse di riordinare le sue idee, poi, dopo essersi riadagiato sul letto, riprese con voce più fioca.
— Mio fratello bianco... è stato sempre buono coi suoi fratelli rossi e... sempre largo di aiuti... il suo cuore è sempre stato grande... generoso.
— Che vuoi concludere amico? chiese l’ingegnere.
— Lo saprete subito.... Mi rimane forse qualche ora da vivere... sì, poco tempo, molto poco... sento che le palle degli assassini... sono vicine al cuore.... Mio fratello bianco presti molta attenzione... a quanto gli dirò.... Ha fatto tanto bene a me... e io ne farò a lui.
— Parla Smoky, ma va adagio, non affaticarti.
— Mi affaticherò ancora per poco, disse l’indiano con amaro sorriso. Ascoltatemi, fratello.