< Duemila leghe sotto l'America
Questo testo è stato riletto e controllato.
III. La caverna del Mammouth V. Una traccia misteriosa

CAPITOLO IV.

Il Maelstroom.

I boscelli e le funi erano a posto. Le guide, sotto la direzione dell’ingegnere, legarono i colli e a quattro alla volta li calarono in fondo all’abisso dove Morgan, Burthon e O’Connor gli slegavano e li disponevano in bell’ordine.

Il lavoro durò tre buone ore, durante le quali giunsero i negri col restante del carico che fu pure calato nel Maelstroom. Alle sei del mattino tutto era terminato. L’ingegnere consegnò al capo delle guide duemila dollari e altrettanti al capo dei negri, si fece giurare da tutti di conservare il più assoluto silenzio, poi, fatti levare i paranchi e stretta la mano a quanti gli erano vicini, si mise a cavalcioni della sbarra che aveva servito di discesa ai suoi compagni.

— Signore, disse il capo delle guide prima di dare ordine ai suoi uomini di svolgere la fune. Dovrò ritirare anche questa corda?

— Sì rispose l’ingegnere.

— E se sarete costretto a ritornare pel Maelstroom?

— Odimi attentamente. Se non ti rincresce ti recherai ogni giorno, verso il mezzodì, sull’orlo di questo abisso e se udrai dei colpi di fucile calerai una fune.

— Vi prometto che lo farò.

— Grazie, e se tornerò vivo alla superficie della terra ti ricompenserò largamente.

— Addio signore e che Dio vi protegga.

— Addio amico. Dà il segnale.

La corda cominciò a svolgersi e l’ingegnere scese nell’orribile abisso che schiudevasi sotto i suoi piedi.

Le pareti erano scabrose, screpolate in mille guise, ora rientranti ed ora sporgenti in modo tale che l’ingegnere vi urtava contro lacerandosi le vesti. Dal fondo veniva su dei sordi boati che man mano discendeva diventavano ognor più formidabili. Quantunque possedesse un coraggio più che straordinario, nel trovarsi sospeso a quella fune, circondato da una fitta tenebra che la lampada appena appena rompeva e stretto fra quelle roccie aguzze, provò un brivido.

Guardò giù. In fondo in fondo tre punti luminosi brillavano ed attorno ad essi scorse tre forme umane appena distinte e immobili. Erano senza dubbio i suoi compagni che seguivano ansiosamente la spaventevole discesa.

A quaranta passi di profondità i suoi piedi si posarono su di una specie di piattaforma che avanzavasi nel mezzo del pozzo. Quattro oscure grotte erano scavate nel fondo e ne uscivano strani rumori: pareva che dei torrenti impetuosi scorressero là entro. Con un piede si spinse al largo e continuò a scendere. A cento altri piedi di profondità vide uscire da un immane crepaccio una colonna d’acqua la quale slanciavasi furiosamente nel fondo dell’abisso. Il fracasso era tale che pareva che le rupi si sprofondassero e l’impeto così violento che la fiamma della lampada minacciava di spegnersi.

Assordato, flagellato dalla spuma che arrivava fino a lui, scese parallelamente alla cateratta ponendo piede su di una rupe scoscesa sulla quale tenevansi ritti i suoi tre compagni.

— Bravo signor Webher, gli gridò Burthon in un orecchio.

L’ingegnere a mala pena lo udì pel muggito formidabile delle acque. Afferrò la mano del compagno e la strinse vigorosamente.

I quattro audaci uomini si cacciarono in una galleria e s’arrestarono in una piccola caverna il cui suolo era formato d’un terriccio nerissimo sparso di conchiglie bianche come la neve. Là dentro si poteva parlare liberamente.

— Tutto va bene, disse Morgan.

— Hai trovato l’apertura che mette nella grande galleria? chiese l’ingegnere.

— Seguitemi, signore.

Morgan appoggiò le mani contro un macigno, il quale scivolò in una specie d’incanalatura lasciando un’apertura circolare di quattro piedi di diametro.

— Guardate, disse, alzando la lampada.

L’ingegnere vide schiusa dinanzi a lui una galleria immensa, la cui vôlta, senza dubbio altissima, celavasi fra le tenebre. Nel mezzo, fra due rive tagliuzzate, minate, sventrate, scorreva una negra ed impetuosa fiumana dirigendosi verso il sud-ovest. Là sotto circolava un’aria fresca, umida, più compressa dell’aria esterna ma respirabile.

— È questo certamente il fiume accennato dal documento, disse l’ingegnere.

— Si vede nessuno? chiese O’Connor con inquietudine.

— Chi vuoi che ci sia? domandò Burthon.

— Mi hanno detto che nelle caverne abitano gli spettri.

— Frottole, mio caro.

— Ritorniamo, disse l’ingegnere. Le guide aspettano una mia risposta.

— Una domanda sir John, disse Burthon. Avete detto alle guide che noi andiamo a cercare i tesori degli Inchi?

— No, amico mio. Essi credono che si tratti di una grande escursione scientifica.

— Avete fatto bene, signore.

Ritornarono nella caverna in mezzo alla quale giaceva il carico. L’ingegnere strappò un foglietto di carta al suo notes e vi scrisse:

«Ritirate la fune. Tutto va bene. Addio a tutti.»

Poi lo legò alla fune, la quale, ad un colpo di rivoltella sparato da Burthon, dalle guide venne ritirata.

— Costruiamo ora il battello, disse l’ingegnere.

Burthon, Morgan e O’Connor trasportarono in riva al fiume i pezzi i quali erano numerati, di acciaio molto leggiero ma così resistente da sfidare un urto anche violentissimo. Subito si misero al lavoro diretti dal loro capo.

Due ore furono più che sufficienti per riunire tutti quei pezzi i quali formarono una elegantissima imbarcazione, comoda, stretta di carena, lunga ben trentasei piedi e armata a prua di un solido sperone.

L’adattamento della macchina e dell’elica richiese un tempo più lungo. Morgan, che come si disse era stato parecchi anni macchinista, assicurò i compagni che potevasi, in caso disperato, ottenere una velocità superiore ai sedici nodi.

Alle 12 l’ingegnere propose una dormita di alcune ore. La proposta fu accolta e ognuno avvoltosi in una grossa coperta si stese accanto al battello.

Non si svegliarono che alle 8 di sera. Fecero un buon pasto con carni fredde che il previdente ingegnere aveva portate entro un pacco, poi, dopo una fumata, spinsero il battello nel fiume ormeggiandolo solidamente alla sporgenza d’una rupe.

— Bello! superbo! esclamò O’Connor. Nei miei viaggi sugli oceani ne ho visti ben pochi battelli così ben costruiti.

— E quando filerà a tutto vapore sarà ancora più bello, disse Burthon.

— Cominciamo a caricare, amici, disse sir John. Il battello è impaziente di prendere il largo.

C’erano duemilasettecento chilogrammi da caricare. Quattrocento di carbon fossile, duecento d’olio per le lampade, trecento di pesce secco, quattrocento di biscotti, duecento di pemmican1, cento di spirito pel fornello della cucina, e i restanti in attrezzi, quali manovelle, aste di ferro, due eliche di ricambio, ecc., in thè, cioccolatta, caffè, bottiglie di wisky, gin e brandy, una cassa di sale, vesti, coperte, polvere da mine e da sparo, armi, picconi, badili, funi, bussole, barometri, due manometri ad aria compressa, due cronometri, quattro apparati Rouquayrol con una piccola pompa a stantuffi fissi e cilindri mobili per rinnovare la provvista d’aria dei serbatoi, una piccola farmacia, ecc.

Tutta questa roba fu ben collocata nel battello e in modo da lasciare uno spazio sufficente per stendere delle coperte per chi doveva riposare.

Alle 10 gli ultimi preparativi erano terminati. L’ingegnere fece accendere quattro lampade di sicurezza, sistema Davy, cinte da un tubo di cristallo protetto da grossi fili di ferro e coperte da una rete metallica, poi salì nel battello il quale cullavasi dolcemente sotto le onde spumeggianti della fiumana. I suoi compagni, un po’ commossi e un po’ pallidi, lo seguirono.

— Amici, disse sir John con voce grave. Se qualcuno non si sente il coraggio di seguirmi, parli.

Nessuno rispose.

— Grazie, amici. Burthon, stura una bottiglia.

Il meticcio stappò una bottiglia di vecchio wisky ed empì quattro tazze.

— Qual nome porterà il nostro battello? chiese l’ingegnere.

— Non trovo nome migliore a quello di Huascar, disse Morgan.

Urràh per l’Huascar! gridò sir John.

Urràh! urlarono i cacciatori.

E vuotarono d’un colpo le tazze.

— Macchina avanti! comandò l’ingegnere. E Dio ci protegga!

Morgan, che un’ora prima aveva accesa la macchina, aprì la valvola. Il vapore sbuffò, brontolò, muggì, e l’elica cominciò a turbinare.

L’Huascar si scosse e si slanciò innanzi fendendo come una freccia le cupe acque della grande galleria, nel mentre che un ultimo e formidabile urràh scuoteva gli echi delle incommensurabili vôlte.

  1. Carne secca ridotta in polvere secondo il sistema indiano.


Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.