< Duemila leghe sotto l'America
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Capitolo VII. La cateratta
VI. Un formidabile assalto VIII. Un polipo gigante

CAPITOLO VII.

La cateratta.

Era tempo. L’immenso esercito dei feroci roditori, fitto fitto, arrivava allora ai piedi della roccia contro la quale s’infranse come un torrente che trova sbarrata la via da un insormontabile ostacolo. Una indescrivibile confusione successe attorno alla roccia, scomponendo i ranghi degli emigratori. Impotenti di retrocedere per la spinta di quelli che venivano dietro, i topi si rovesciarono sui battaglioni vicini, passando sui loro corpi, generando risse formidabili. I piccoli mostri, stizziti, non potendo pigliarsela coll’ostacolo se la pigliavano coi compagni e li divoravano con ferocia senza pari per farsi posto.

Ci volle una buona mezz’ora prima che l’esercito si dividesse in due. L’ingegnere e i suoi compagni che avevano calato le lampade a pochi pollici dal terreno, seguivano con vivissima curiosità i movimenti di quegli interminabili ranghi, facendo piovere su di essi frammenti di roccie.

— Corna di cervo! esclamò Burthon, che non riusciva a rimettersi dalla sorpresa. Non ho mai visto uno spettacolo simile.

— Ne sono certo, disse l’ingegnere. Bisogna scendere quaggiù per vedere emigrazioni così gigantesche.

— Ma da dove vengono tutti questi roditori?

— Non saprei. Il sottosuolo pullula di questi feroci animaletti che crescono e si moltiplicano all’infinito e che non conoscono che una sola legge: rodere e divorare, minare tutto e dovunque.

— Avete osservato, signore, che sono tutti di un colore?

— Sono tutti di una razza. I topi non tollerano gli stranieri.

— To’ vi sono delle altre razze?

— C’erano, poichè sono state distrutte dai conquistatori.

— Dai conquistatori? Spiegatevi, sir John.

— I primi topi che invasero l’Europa, non erano eguali a questi che tu vedi emigrare, ma bensì bruni. Erano discesi dalle regioni settentrionali dietro l’esercito dei Vandali.

«Seicento anni dopo, una nuova razza di roditori, più forti e più feroci, d’un colore grigio-ferro, scendeva, combattendo ferocemente gli antichi abitatori del sotto-suolo che furono costretti a cedere il campo.

— Da dove venivano questi nuovi roditori? chiese O’Connor.

— Dall’Europa centrale dietro ai lanzichenecchi, le cui bande avevano invaso la Francia e l’Italia in sul finire del decimosesto secolo.

— Ma seguivano i barbari, forse? chiese Morgan.

— Sicuro e assai da vicino. Ogni calata di barbari era seguita da una emigrazione di topi.

— E questi nuovi conquistatori, che fecero?

— Distrussero quasi totalmente i topi bruni, ma non goderono a lungo i frutti della vittoria. Regnavano da cent’anni quando avvenne una gigantesca invasione di una nuova specie di topi: erano i topi asiatici, la cui razza regna ora in Europa e in America.

— E da dove venivano?

— Dai dintorni del mar Caspio.

— Che gambe! esclamò Burthon.

— Questi topi, continuò l’ingegnere, erano usciti da enormi buche apertesi nel deserto di Coman in seguito ad un grande terremoto. Una parte di essi mossero verso il nord e raggiunsero la Siberia e precisamente la città di Jaick.

— È incredibile, disse Morgan.

— Ma vero. Questi roditori appena entrati in città assalirono vigorosamente i sorci del paese. La battaglia cominciò alle quattro del meriggio e durò parecchie ore ferocissima; gli antichi padroni, vinti dal numero, furono costretti a cedere agli invasori un intero quartiere.

— E gli altri, dove emigrarono?

— I bricconi, più furbi, s’imbarcarono sulle navi ancorate sul Volga e si lasciarono trasportare nel cuore della Russia da dove discesero invadendo l’Europa da un capo all’altro. I sorci bruni, già decimati, non poterono tener testa a questi nuovi conquistatori più forti e meglio armati e disparvero.

— E come vennero in America? chiese Burthon.

— A bordo delle navi come gran signori.

— A gratis.

— Sicuro e probabilmente dentro la dispensa del cuoco.

— E sono aumentati in così grande quantità?

— In cinquant’anni i sorci asiatici diventarono così numerosi da costituire in alcune città un pericolo pubblico. A Parigi sono così numerosi che gli abitanti sono costretti a intraprendere annualmente delle grandi caccie.

— E in qual modo?

— Le fogne della grande città sono infestate in modo spaventevole, disse sir John. I cacciatori chiudono una delle principali fogne poi all’estremità opposta cominciano la battuta con gran numero di cani, molti dei quali cadono vittime dei denti dei sorci. Nel dicembre del 1849, a Parigi, in pochi giorni ne uccisero 240.000.

— Cospettaccio! esclamò il meticcio. Ve ne sono dei milioni a Parigi.

— Figurati che quando demolirono l’antico ammazzatoio di Montfaucon, si calcolò a sei milioni di chilogrammi la carne che i signori sorci si regalavano.

— E cosa ne fanno dei sorci che uccidono in queste grandi caccie? Li seppelliscono forse?

— Oibò! Vi sono degli industriali che li comperano per fare, colla pelle, dei morbidissimi guanti.

— E non si possono distruggere questi feroci roditori?

— In qual modo? I topi sono spaventosamente prolifici; partoriscono tre volte all’anno e ad ogni parto danno dai dodici ai diciotto figli.

— Credete voi, signore, che questi topi, col tempo, diventino seriamente pericolosi? chiese Morgan.

— Non sarei sorpreso se un bel giorno le chiaviche di qualche antica città vomitassero sulle strade milioni di roditori e inseguissero i cittadini.

— Io vorrei vedere un simile spettacolo! esclamò Burthon, scoppiando dalle risa.

— Plinio ha narrato che delle città intere furono rovesciate dai topi, disse l’ingegnere.

— Ci credete voi? chiese Morgan.

— Forse.

Durante la conversazione, le schiere dei sorci continuarono a passare, sempre fitte, tumultuose, feroci, dirigendosi verso il sud-est dove, a quanto sembrava, aprivasi una gigantesca galleria.

La sfilata non doveva però durare ancor molto. Infatti, pochi minuti più tardi le schiere cominciarono ad assottigliarsi. Alle sette del mattino, la retroguardia degli emigratori scompariva fra le tenebre.

L’ingegnere e i cacciatori dopo d’aver atteso un po’ di tempo per paura che arrivasse un secondo esercito, scesero dalla rupe e corsero verso la riva.

La piattaforma, sulla quale si erano addormentati, era sparsa di scheletri di topi, perfettamente puliti dagli acuti denti dei loro compagni. Ve n’erano più di tre centinaia.

— Perbacco, disse Morgan, ne abbiamo ammazzato un bel numero.

Passando accanto al fornello improvvisato, O’Connor raccolse la pentola, che, come ben si può immaginare, era stata perfettamente vuotata.

— Avremo dei topi anche nel battello? disse Burthon.

— Sarà senza dubbio zeppo, disse l’ingegnere.

In pochi istanti giunsero al battello e vi saltarono dentro. Un gridìo acuto accolse la loro comparsa e al chiarore delle lampade furon visti branchi di sorci saltare qua e là in mezzo ai viveri, sotto gli attrezzi e perfino entro il fornello.

— Ah briganti! esclamò O’Connor impugnando una scure.

Ve n’erano almeno cento, ma fu tanto accanita la caccia che diedero il marinajo, il meticcio e il macchinista che in breve tempo non ne rimase vivo neppur uno.

L’ingegnere data un’occchiata al documento per vedere quale era la via da tenersi diede ordine a Morgan di accendere la macchina.

Mezz’ora dopo il battello si allontanava dalla riva dirigendosi a tutto vapore verso il sud-sudovest, dove, come indicava il documento, trovavasi la continuazione della fiumana.

Come prima, di quando in quando incontravansi dei colonnati giganteschi, per la maggior parte sventrati, forati e così minati alla base da credere che quel negro lago avesse le sue onde come un mare e le sue burrasche. L’acqua, tagliata dall’aguzzo sperone del battello, andava a infrangersi contro quei colossi con un fragore cupo che prolungavasi indefinitamente.

L’ingegnere, che vegliava attentamente a prua per paura di cozzare contro qualche scogliera o contro una di quelle colonne, più volte fece arrestare il battello per scandagliare il fondo, ma le sessanta braccia di corda gli filarono fra le mani senza che la palla toccasse.

— È un piccolo mare, diss’egli. Sessanta braccia sono già qualche cosa.

— Ma da dove viene tutta quest’acqua? chiese Burthon.

— Chi lo sa? Probabilmente dai grandi serbatoi che celansi sotto la crosta terrestre e che formano le sorgenti dei fiumi.

— Zitto! esclamò in quell’istante O’Connor. Si ode del rumore.

L’ingegnere tese gli orecchi abbassandosi verso la superficie del lago. In lontananza s’udiva un cupo fragore prodotto, a quanto sembrava, dal precipitare delle acque.

— Che ci sia una cateratta? chiese Burthon.

— Potrebbe essere, disse sir John.

— E se fosse insuperabile?

— Se sono passati gli Inchi, passeremo anche noi.

La corrente che poco prima era appena sensibile, diventava, man mano che s’avanzavano, rapidissima e il fragore diventava davvero formidabile. I quattro esploratori non sapendo con certezza di che trattavasi, diventavano ognor più inquieti. Quel pericolo ignoto, forse insuperabile pel loro battello, forse terribile, forse inaspettato, spaventava lo stesso ingegnere.

Ben presto, a dieci o quindici metri a prua, apparvero innumerevoli scogliere, fitte fitte, nere, aguzze, altissime. Erano disposte in modo che arrestavano quasi la corrente la quale vi si infrangeva contro alzandosi, schiumeggiando, muggendo.

— Adagio, Morgan, disse l’ingegnere. Se urtiamo l’Huascar si sventrerà.

Il macchinista si affrettò a rallentare la velocità del battello, il quale, guidato dalla mano di ferro di O’Connor, procedette con prudenza, cercando un passaggio.

Dopo aver percorso per un duecento metri la fronte di quella formidabile barriera, dietro la quale se ne scorgevano parecchie altre non meno formidabili, il battello si cacciò in un angusto e tortuoso canale, dove l’acqua vi si precipitava con furia irresistibile. Tre volte l’Huascar sfiorò con uno stridore metallico quei pericolosi scogli ma passò e senza malanni.

Dietro quelle barriere la corrente era rapidissima, irresistibile e produceva un fragore tale che l’ingegnere era costretto a gridare per dare i comandi.

— Ma dove siamo? chiese O’Connor, che si affaticava alla barra.

— Vicini a una cateratta senza dubbio, rispose l’ingegnere che era ritto a prua con una manovella in mano. Non l’odi tu a muggire?

— La scenderemo?

— Se è possibile. Burthon, prepara una torcia di bengala.

Il meticcio piantò in mezzo al battello un’asta di ferro e sulla cima vi legò solidamente la torcia.

Ad un tratto una sottile pioggia si riversò sul battello. L’ingegnere alla luce delle lampade, vide a prua una gigantesca colonna di vapore che pareva uscisse da un abisso.

— La cateratta! gridò. Macchina indietro!

Nel mentre l’elice turbinava in senso inverso, Burthon dava fuoco alla torcia di bengala. Un grido d’ammirazione e nel tempo stesso di terrore sfuggì dalle labbra dei quattro esploratori.

A quindici soli passi dalla prua dell’Huascar, le acque del lago, tinte di rosso dalla viva luce della torcia, si scagliavano giù per una rapida china con impeto irrefrenabile, accavallandosi, scrosciando, muggendo con intensità spaventevole.

Dal fondo, una grandissima nube di vapore s’ergeva, pure tinta di rosso, strisciando contro le rupi e ricadendo in minutissima pioggia.

A destra, a manca e dalla vôlta colossali rocce, minate, sventrate, s’alzavano o pendevano, trasparenti come alabastro le une, nere come il carbone le altre, o scintillanti come fossero tempestate di gemme e screziate d’oro. Nè l’ingegnere, nè Burthon, nè O’Connor, nè Morgan, avevano mai visto uno spettacolo simile.

— Ritorniamo! disse il meticcio con voce alterata. Qui v’è la morte.

L’ingegnere, la cui maschia figura spiccava fieramente in mezzo a quell’oceano di fuoco, con un gesto energico additò la cateratta.

— Avanti! avanti! comandò. Non abbiate paura!

Morgan, quantunque sicurissimo di non toccare il fondo della cateratta colle membra sane, lanciò il battello innanzi.

— Tenetevi saldi! s’udì gridare l’ingegnere che era di già avvolto fra la nube di vapore.

Erano allora sull’orlo della cateratta. Il battello, vigorosamente spinto innanzi, oscillò un istante come un ubbriaco, s’inchinò a prua con uno scricchiolio sonoro e si slanciò a precipizio giù per la china, urtato, flagellato dalla massa d’acqua.

Aveva percorso appena venti metri, quando a prua avvenne un cozzo fortissimo che atterrò i quattro uomini. Un urlo terribile si confuse coi muggiti delle acque che schiacciavansi furiosamente contro le roccie.

— Siamo perduti! aveva urlato O’Connor.

Il battello, incagliato fra le sporgenze di due scogli, si era arrestato a mezza discesa semirovesciato sull’anca di tribordo.

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