< Duemila leghe sotto l'America
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Capitolo XXIV. Un lume
XXIII. Un battello abbandonato XXV. L'assassino di Smoky

CAPITOLO XXIV.

Un lume.

Alle 2 ant. del 28 Dicembre, dopo una notte tranquillissima, l’ingegnere e i suoi compagni si mettevano risolutamente in cammino più che mai decisi di raggiungere con una celere marcia gli uomini che li precedevano.

Sir John, con una lampada nella sinistra e un revolver nella destra, apriva la marcia; dietro a lui, in fila indiana, venivano Burthon, O’Connor e Morgan. Anche quest’ultimo aveva la lampada e il revolver per impedire che gli assassini gli assalissero improvvisamente alle spalle.

La galleria era vasta assai, e l’aria vi circolava liberamente. Le pareti erano affatto liscie, formate da trapps, ossia da strati orizzontali di rocce sovrapposte le une alle altre, e perfettamente asciutte. Anche il terreno era aridissimo, liscio, senza terriccio, senza sabbia, senza un ciottolo.

Il silenzio poi che regnava sotto quelle vôlte era cosa da impressionare chiunque. All’infuori del passo degli uomini che l’eco della galleria distintamente ripeteva, non udivasi nè il muggito d’un fiume, nè il mormorio d’un filo qualunque d’acqua, nè lo stridere d’un topolino, nè il ronzio d’un insetto.

— Questo silenzio mi stringe il cuore in modo strano, disse Burthon. Prima avevamo il muggito del fiume e lo sbuffare della macchina che ci rallegravano, ma ora pare di passeggiare in un vero cimitero.

— Ci abitueremo, Burthon, disse sir John.

— Lo credo, ma ditemi, signore, si prolungherà molto questa passeggiata?

— Il documento segna una galleria diritta, poi una caverna, quella che conterrà il tesoro, quindi un’altra galleria. Chi può dire quanto saranno lunghe queste gallerie?

— Signore, disse Morgan. Mi pare che questa galleria salga.

— L’ho notato anch’io, macchinista, rispose l’ingegnere.

— A quale profondità siamo?

Sir John si fermò e guardò il manometro che teneva gelosamente chiuso in una cassettina.

— To’! esclamò. Ci siamo notevolmente alzati dall’altro giorno a oggi, malgrado la nostra discesa nel pozzo.

— Di quanto?

— Ci troviamo a soli ottocento piedi di profondità.

By god! E la galleria continua a salire!

La marcia, per un momento interrotta, venne ripresa, nè cessò finchè il cronometro dell’ingegnere segnò il mezzodì. O’Connor accese il fuoco aiutato dal meticcio e preparò un magro pasto che in un batter d’occhio fu divorato. Dopo una sosta di due ore, sir John diede nuovamente il segnale di rimettersi in marcia la quale durò fino alle otto della sera.

In quella prima marcia avevano percorso più di venti chilometri.

Durante la notte nulla di straordinario avvenne che meriti di essere accennato. Nè sir John, nè Morgan, nè Burthon, nè O’Connor durante il loro quarto di guardia udirono rumore alcuno nè videro persona alcuna.

L’indomani si rimettevano coraggiosamente in marcia con passo abbastanza svelto. L’ingegnere, come il giorno precedente, era alla testa colla lampada nella sinistra e il revolver nella destra, Morgan formava la retroguardia.

La galleria non era però eguale a quella percorsa. Era assai più vasta, altissima tanto da non poter scorgere la vôlta e saliva molto più rapidamente. Ai trapps erano succeduti bellissimi marmi grigi, venati capricciosamente di azzurro o di rosso e il suolo era sparso talvolta di un terriccio ma così secco da non conservare alcuna impronta.

Verso il mezzodì, sir John che precedeva i compagni di qualche ventina di passi, improvvisamente si arrestò curvandosi verso terra. Burthon, Morgan e O’Connor si affrettarono a raggiungerlo.

— Avete scoperto qualche traccia? chiese il macchinista.

— No, ho trovato una testa.

— Una testa! esclamarono i tre cacciatori.

— Una chinca.

— Cos’è questa chinca? chiesero Burthon e O’Connor.

Sir John mostrò a essi una specie di palla coperta da una criniera piuttosto lunga. Era una vera testa umana, grossa poco più di un pugno, adorna di capelli lunghi e nerissimi e di orecchini d’oro. I lineamenti erano fieri, la pelle rossastra, i denti bianchissimi e piccoli assai, ma mancavano gli occhi.

— Ma cos’è quella roba li? chiese Burthon al colmo della sorpresa.

— La testa di qualche gran capo peruviano, rispose l’ingegnere.

— Una testa così piccola! esclamò O’Connor. Gli antichi peruviani avevano forse le teste grosse come una palla da giuoco?

— Chi ha detto questo? Forse l’avevano più grossa della tua che è tutt’altro che piccola.

— Ma come un testone è diventato così piccolo? chiese Burthon.

— Te lo dico subito, disse sir John. Prova premere questa testa.

Il meticcio ubbidì e con sua grande sorpresa sentì che le carni facilmente cedevano.

— Ma questa testa non ha ossa, disse.

— Non ne ha infatti. Gli indiani le hanno prima spezzate e poi fatte uscire dal collo.

— E perchè?

— Per introdurvi delle pietre ardenti le quali hanno rimpicciolito la testa senza alterare i lineamenti.

— È un processo magnifico, signore, che fa molto onore agli antichi peruviani.

— Non dico di no. Andiamo innanzi.

Si avanzarono per alcuni chilometri ancora, calpestando talvolta delle ossa gigantesche che l’ingegnere disse appartenere ad animali antidiluviani, a mastodonti o a dinoteri, o a megateri, o ad anaploteri, poi fecero la solita sosta per dar un po’ di riposo alle gambe e per accontentare lo stomaco che reclamava imperiosamente la colazione.

Alle tre la marcia venne ripresa e continuò fino alle 9. Sir John stimò il cammino fatto non inferiore ai trentacinque chilometri.

— A quale altezza siamo? chiese Morgan divorando la cena che Burthon aveva rapidamente preparata.

— A seicentocinquanta piedi sopra il livello del mare, rispose l’ingegnere.

— Siamo dunque nel cuore di qualche gran catena di montagne, disse Burthon.

— Senza dubbio.

— Forse nel cuore delle Ande.

— È probabile, Burthon. A chi spetta il primo quarto di guardia?

— A me, disse Burthon.

— Tieni gli occhi ben aperti.

— Non temete. Nessuno s’avvicinerà al nostro accampamento.

Il meticcio si mise dinanzi la lampada e il revolver, caricò la pipa, l’accese e si sdraiò sulla sua coperta tenendo gli occhi ben aperti e gli orecchi ben tesi.

Vegliava da due buone ore, senza che nulla avesse udito nè veduto, quando, nell’abbassarsi verso terra per raccogliere un po’ di tabacco che gli era caduto, credette di udire un vago rumore.

Gettò rapidamente uno sguardo all’ingiro. Sir John, O’Connor e Morgan dormivano tranquillamente avvolti nelle loro coperte di lana; al di là del cerchio di luce della lampada non si vedeva nulla, proprio nulla.

Si sdraiò e accostò un orecchio a terra. Con sua grande sorpresa udì il passo di un uomo che la roccia chiaramente trasmetteva, e s’accorse anche che quel passo si avvicinava con una certa rapidità.

Si alzò col revolver in pugno. Tosto un grido a malapena frenato gli uscì dalle labbra.

Ad una grande distanza, ma sotto le vôlte di quella galleria, brillava fra la fitta tenebra un punto luminoso.

— Gli assassini! esclamò, impallidendo.

In due salti fu presso ai compagni e con tre vigorose scosse li svegliò.

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