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VILLA MEDICI
Tu non mi dài la pace, o Sole sereno, e l’oblio
2se i cari luoghi io cerchi vago de’ raggi tuoi!
Troppo soavi, ahi troppo soavi anche giungonmi al core
4questi che tu diffondi spiriti, o Primavera,
questi onde tutta vive la dura pietra e si scalda
6umanamente e gode ne le profonde vene,
onde gioiscon gli orti chiomati di verde novello,
8tremano le raccolte acque ne l’urne loro.
Tremano con sommesse parole, ne l’ombra, e fan'cupo
10specchio a tal ombra l’acque dentro il marmoreo vaso.
Stanvi le querci sopra, che l’aura de’ secoli avvolge:
12odono il suon, guardando placide a’ cieli e a Roma.
Chiusa ne’ suoi recinti lu villa medícea dorme:
14alzansi lenti i sogni da la sua gran verdura,
come allor che su ’l primo tremar de le vergini stelle
16per i quieti rami cantano i rosignuoli.
Oh pura in me, su ’l vespro, piovente dolcezza de’ sogni!
18Muta, la lunga scala ella saliva meco.
Tutta nel cor segreto io sentiami languire e tremare
20l’anima, al premer lieve de la diletta mano.
Ma, come fummo al sommo, la bocca ansante m’offerse
22ella: feriva il sole quel pallor suo di neve.
Alto d’amor susurro correa lungo i bòssoli foschi;
24dardi rompean la cava tènebra tutti d’oro,
quasi che d’odorato peplo e di veli ondeggianti
26bella ivi errasse Cintia dietro vestigia note.
II.
Ben tale dea presente, cui nomano Luna i mortali,
28empie d’un amoroso spirito i cari luoghi.
Ben questi elesse talami verdi e profondi la dea
30a gli amor suoi segreti, paga d’angusto impero.
Piacquesi de’ lavacri, che artefice umano compose,
32ella obliando i chiari fonti, gli azzurri fiumi:
l’agile per le selve d’Etolia corrente Acheloo,
34truce figliuol di Teti, vago di Dejanira;
l’Axïo da la riva lunata per ove muggendo
36candida l’ecatombe venne con passo grave;
ed il Penèo sonoro che vide di Dafne le membra
38torcersi verdi e snelle, ripalpitare in rami;
te, bel Cefiso, a cui la diva Afrodite bevente
40rise da tutto il volto, diede in balía la chioma;
te, puro Eurota, largo d’allori e di freschi roseti
42e di freschissime acque, d’onde emergeano ignude
vergini protendendo le belle braccia pugnaci
44verso la madre Sparta, a salutare il Sole.
Erano a Delia cari tai fiumi; al grand’arco divino
46porsero i lidi immensa copia di cacciagioni;
grati offerian riposi ne gli antri a le ninfe anelanti;
48murmuri avean di molle sonno persuasori.
Ma ben li oblia la dea. Non ebbero quelli il tuo riso
50misterioso, o fonte, l’inestinguibil riso,
tenue balen che l’acque tue pallide illumina a fiore
52(tal ride pur fra’ pianti l’anima in occhi umani)
onde in ardore treman a torno gli aperti narcissi,
54languidi reclinanti, presi di van desìo.
Non ebber quelli, o fonte, non ebber le voci tue vaghe
56più che mel dolci, lene balsamo a’ duoli umani.
Qual su ’l polito ferro de l’aste purpurea s’imperla
58l’onda del sangue e brilla nitidamente al sole,
tale su l’infiammata anima il confuso susurro
60frangesi in varianti numeri armoniosi.
Ode la selva intenta, le vergini stelle da’ cieli
62odono: a lor la fonte ride di conscio riso.
III.
Deh nel mattin recante gran fior di rugiade novelle,
64quando improvvisa apparve l’esule dea tra’ rami,
deh come tutte d’intimo ardor palpitarono l’acque
66poi che sentìan l’antica divinità redire!
Fulserò i tronchi allora con lume di puri diaspri;
68ebbero allor le foglie de l’adamante i fuochi.
Quivi il pastore biondo bellissimo Endimione
70Trivïa seco addusse; quivi prigion lui tiene.
Sta l’alta maraviglia. Pur sempre rifulgono i tronchi
72quivi in rigor di pietra simili a gemmei steli.
Piegansi i rami, carchi di verdi cristalli politi;
74pendon tra ramo e ramo lunghi velari d’oro,
poi che per entro questi misteri invisibile Aracne
76a le sottili attende opere de’ telai.
Tacciono i venti sopra: non fremito corre le cime;
78non, nel profondo incanto, giungon da l’Urbe voci.
Nascere dal silenzio pajono tutte le cose
80come le salienti nubi dal mare; e immote
(tali il giacente inconscio nel sogno ingannevoli forme
82vede, che a lui da l’imo genera il lento cuore)
durano: soli i lauri con lieve tremito incessante
84dan tra la selva indizio de la nascosta vita.
IV.
Oh lauri, quanto un giorno a l’anima nostra soavi!
86Alta venia ridendo ella fra gli alti steli.
L’ombra de’ bei capegli oscura battea come un’ala
88su la sua fronte; i lunghi occhi parean più neri.
Freschi salían di sotto il breve suo passo gli effluvi;
90molli pioveano albori da le vocali cime.
L’Erme da l’ombra mute sorgendo in lor forma divina,
92vigili meditanti anime ne la pietra,
lei riguardavan. come assorte in pensiero d’amore:
94sotto il lor piè quadrato, snelli fiorian gli acanti.
Io per sentieri ignoti fra’ lauri così la seguii
96trepidamente; e parve fosse d’in torno l’alba.
Parvemi, lei seguendo fra’ lauri, che dietro quell’orme
98ratto fuggisse il sangue mio dal profondo core
quale un vapor da calice colmo, e di vene novelle
100tutto l’amato corpo anche cingesse, e mista
l’anima mia per tale prodigio a la bella persona
102fulgida avesse gioja da la comune vita.
Fulgida gioja, oh grande mia comunione d’amore
104onde in bei fior di luce vaghi nascean pensieri!
Parvemi, lei seguendo, che simile in vista a la donna
106cui lungo il rivo scorse Dante tra’ freschi maj
(Deh bella Donna — ei fece — ch’a’ raggi d’amore ti scaldi! —
108Volsesi la soletta in su ’l vermiglio a lui)
ella in salir per l’erbe vestigia stellanti lasciasse,
110gemmee spandesse ai mirti da le sue man rugiade.
— Ecco, la Notte ascende per l’umido cielo: viole
112trae ne l’aerea vesta, pallide rose trae.
Leva col piè fulgori di stelle per gli archi profondi:
114treman le stelle, come polvere effusa d’oro.
Vede l’innumerevole riso d’a torno in gran cerchi
116spandersi: gode al sommo ella seder regina.
Voi salirete, o donna, così l’altura ove al sommo
118s’apre, fiammando forte, quella mia speme nuova.
S’apre solinga in cima, qual rosa che imperlano dolci
120lacrime, che il più caldo sangue del petto irrora.
Risplenderanvi sotto il piè nel cammino le stelle;
122racconteran le stelle la maraviglia ai cieli.
Voi ne la gloria, voi nel riso d’amore salendo;
124giugnere udrete il canto: «Ella, ella sola è gioja.
Eatro le man sue reca più luce che non l’Ora prima;
126fatta ella tutta quanta è di sovrane cose.»