< Elena (Euripide - Romagnoli)
Questo testo è stato riletto e controllato.
Euripide - Elena (412 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1931)
Esodo
Terzo stasimo


Entra velocemente, affannatissimo, un nunzio, e si dirige verso il palazzo, da dove esce, quasi súbito, Teoclimeno.

araldo

In buon punto, o signor, presso la casa
ti trovo: udrai da me nuovi cordogli.

teoclimeno

Che c’è?

araldo

               Le nozze appresta con un’altra
donna: ché di qui lungi Elena andò.

teoclimeno

Su penne alzata, o il piede al suol movendo?


araldo

Per mare Menelao via la condusse,
che ad annunciar la propria morte giunse.

teoclimeno

Ahi fieri detti! E qual naviglio mai
la rapí? Narri fatti inverosimili!

araldo

È presto detto: quel ch’ebbe da te
lo stranïero; e tuoi nocchieri v’erano.

teoclimeno

Come? Saper lo vo’. Non posso credere
che un uomo sol tanti nocchieri uccidere
possa, quanti eran quei che teco mossero.

araldo

Poiché, lasciata questa reggia, al mare
mosse di Giove la figliuola, ad arte
stanco traendo il molle pie’, gemeva
lo sposo, al fianco suo vivo, e non morto.
E poi che giunti fummo entro il recinto
dei tuoi cantieri, in mar traemmo un legno
di Fenicia, che avea cinquanta banchi,
cinquanta remi, e intatto era dall’onde.
E un’opra all’altra succedea: chi l’albero,

chi dispone il remeggio, e chi le stroppe,
e volte a un segno son le vele bianche
e i timon’ con le cinghie in giú calati.
Mentre a ciò s’attendeva, alcuni Ellèni,
di Menelao compagni, al lido giunsero,
belli di forme, ma di cenci avvolti
di naufragio, e d’apparenza sordidi.
Come l’Atríde approssimar li vide,
levando finti gemiti, parlò:
«O sventurati, da qual nave achèa
franta, giungete? Al misero d’Atrèo
figlio volete dar con noi sepolcro,
ché la salma è perduta, e la Tindàride
ne celebra l’esequie?». E finte lagrime
quelli versando, nella nave entrarono,
per Menelao recando i doni funebri.
A noi fu causa di sospetto, il numero
grande di quelli che saliano; e motto
se ne fece fra noi; ma poi tacemmo,
per obbedire ai detti tuoi: ché ordine
tu dato avevi che il foresto avesse
della nave il comando; e tu la causa
fosti cosí di tutto lo scompiglio.
E dunque, tutte nella nave l’altre
maneggevoli cose agevolmente
poste avevamo; ma non volle il toro
poggiar diritto il pie’ su la palàncola:
anzi muggiva; e stravolgeva gli occhi,
la schiena arcava, e si guardava ai comi,
ed impediva di toccarlo. E d’Elena
gridò lo sposo allora: «O voi che d’Ilio
abbatteste la rocca, or non levate
sui giovanili omeri il toro, come

d’Ellade è l’uso, per gittarlo a prora,
e il ferro in pugno, a compiere pel morto
il sacrificio, ognun non stringerà?
E al suo comando, quelli si lanciarono,
afferrarono il toro, e lo deposero
fra i banchi della nave. E Menelao,
carezzandogli il capo e la cervice,
lo indusse a entrare nella nave. E infine,
quando il carico fu tutto compiuto,
posti sui gradi della scala i piedi
dai mallèoli belli, Elena ai banchi
sede’ nel mezzo, e Menelao, che vivo
a parole non era, a lei daccanto.
Gli altri, alla dritta ed alla manca sponda,
sedeano accanto ai rematori, un uomo
presso ad un uomo, e nascondeano spade
sotto i mantelli; e il grido, ecco, del còmito
udimmo, e l’onde fûr tutte uno strepito.
E quando già né troppo lungi, né
troppo eravam presso alla terra, disse
il timoniere: «Navigar dobbiamo
ancora innanzi, o stranïero, o basta?
Ché della nave a te spetta il comando».
E quegli disse: «Basta». E il ferro in pugno
strinse, ed a prora mosse, e lí piantato,
per uccidere il toro, alcun dei morti
non ricordò, bensí, sgozzando il toro
cosí pregò: «Posídone, marino
Dio del pelago, e voi, caste figliuole
di Nerèo, me da questa terra insieme
con la mia sposa conducete illeso
alle spiagge di Nauplia». E zampillarono
rivi di sangue in mar, fausto presagio

per il foresto. E disse alcuno: «Inganno
fu questo navigar: torniamo a riva!
Tu da’ l’ordine: tu gira il timone».
Ma sul toro immolato alto sorgendo,
gridò l’Atríde ai suoi compagni. «O fiori
d’Ellade eletta, a che per voi s'indugia
a scannar questi barbari, a trafiggerli,
a scagliarli nel mare?» — E ai tuoi nocchieri
il còmito gridò di contro: «O via,
al calcio l’uno impugni il palo, un altro
i banchi spezzi, dallo scalmo sfili
un terzo i remi, e insanguini la fronte
dei nemici stranieri». In pie’ balzarono
lutti, stringendo quelli spade, questi
nautici arnesi. E fu di sangue colma
tutta la nave. E d’Elena s’udia
l’incitamento a poppa. «Ov’è la fama
che guadagnaste a Troia? A questi barbari
si mostri!» E nella furia, altri cadevano,
altri si rialzavano, già morti
veduti altri ne avresti. E Menelao,
stringendo l’armi, ove scorgea gli amici
pericolanti, ivi accorreva, e il ferro
sui nemici vibrava, e giú nell’onde
li faceva piombare: onde la nave
deserta fu dei tuoi nocchieri. E il sire
al timone sedè, disse che all’Ellade
volgessero la prora. E quelli alzarono
le vele, e il vento si levò propizio.
Sí che son lungi dalla terra. Ed io,
gittatomi nel mar, di presso all’àncora,
mi salvai dalla strage; e, ormai spossato,
mi trasse in salvo un pescatore, e a terra

mi condusse, sí ch’io potessi a te
dare l’annunzio. Ahimè, ché nulla agli uomini
piú d’una saggia diffidenza giova.

coro

Creduto non avrei mai che potesse
fra noi restare Menelao nascosto
come è rimasto a me, Signore, e a te.

teoclimeno

Ahimè, dunque delle astuzie femminili io fui zimbello!
Son le nozze andate in fumo. Se potessi ora il battello
catturar, presto sarebbero gli stranieri in poter mio.
Ma pagar la mia sorella traditrice deve il fio,
che, sapendo ch’era in casa Menelao, nol disse. Ma
nessun altro con gli oracoli ch’ella spaccia ingannerà.

Fa’ per entrare nella reggia.



coro

A quale opera di sangue, mio signore, volgi il pie’?
Trattengono il re.

teoclimeno

Dove impone la giustizia. Presto, sgombra innanzi a me.

coro

Non mi stacco dal tuo manto: ché tu affretti gravi pene.


teoclimeno

Comandare al re vuoi, quando schiava sei?

coro

                                        Ma cerco il bene.

teoclimeno

Non per me, se non mi lasci.

corifea

                                   Ti precludo anzi la via.

teoclimeno

Ammazzar delle sorelle la piú trista....

corifea

                                                  La piú pia.

teoclimeno
M’ha tradito.

corifea

                    Oprare il giusto è un tradir bene a ragione.

teoclimeno

La mia sposa ad altri diede.


corifea

                                   A chi piú n'era padrone.

teoclimeno

Chi del mio sarà padrone?

corifea

                              Chi dal padre l’ebbe un dí.

teoclimeno

La fortuna a me la diede.

corifea

                              E il Destin te la rapí.

teoclimeno

Giudicarmi a te non spetta.

corifea

                              Sí, se meglio io parlerò.

teoclimeno

Non son io padron?


corifea

                              D’oprare cose giuste: ingiuste no.

teoclimeno

Vai cercando morte.

corifea

                              Uccidimi: volentieri a morte andremo,
prima noi, che tua sorella: ché questo è pregio supremo
dei domestici d’onore: dar la vita pel signore.
Sull’alto della reggia appaiono i Dioscuri. Parla Castore.

dioscuri

Teoclimèno, re di questa terra,
gl’impeti frena cui mal t’abbandoni,
ché noi due t’appelliam. Siamo i Dïoscuri,
a cui Leda die’ vita insiem con Elena,
ch’è dalla casa tua fuggita. Il fato
non voleva le nozze onde ti crucci;
né Tëonòe, la vergine che nacque
dalla Nerèide, la sorella tua,
torto ti fece; ché al voler dei Numi
onore fece, e di tuo padre agli ordini.
Poiché il fato volea ch’ella abitasse
nella tua reggia insino a questo punto;
ma or non piú, quando caduto è il vallo
d’Ilio, e il suo nome essa agl’Iddei prestò:
tornare deve alle sue prime nozze,
alla sua casa, e col suo sposo vivere.

Da tua sorella il negro ferro dunque
rattieni, e ch’essa ha bene oprato reputa.
Noi da gran tempo la sorella nostra
salvata avremmo, poiché Giove rese
Numi anche noi; ma inferïori al Fato
siamo, e agli Dei che tutto questo vollero.
Questo, dunque, a te dico. E a mia sorella
di navigar con suo marito. Il vento
propizio avrete; e cavalcando il pelago,
noi, tuoi germani, a voi d’accanto, salvi
vi condurremo in patria; e quando il corso
avrai compiuto di tua vita, Diva
detta sarai, comuni coi Dïoscuri
avrai le offerte ed i libami sacri
dei mortali: ché vuol Giove cosí.
E il luogo dove te prima depose
di Maia il figlio, allor che dalle uranie
case discese, e ti rapí da Sparta,
le membra tue celandovi, perché
Paride sposa non t'avesse, l’isola
che quasi a guardia presso l’Atte stendesi,
dico, d’Elena il nome avrà fra gli uomini,
perché rifugio del tuo ratto fu.
E Menelao, che tanto errò, nell’isola
dei Beati gli Dei vogliono ch’abiti.
Poiché i bennati i Numi non abborrono,
e piú patisce chi nacque a far numero.

teoclimeno

Il furor placherò, figli di Leda
e di Giove, che in sen vostra sorella
m’aveva acceso; e non darò la morte

a mia sorella. Torni Elena in patria,
se lo vogliono i Numi. E voi sappiate
che la vostra sorella, il sangue vostro,
è la piú saggia e virtuosa donna
che sia. V’allegrin d’Elena gli altissimi
sensi, che in poche donne si riscontrano.

coro

Spesso tramuta quanto oprano i Dèmoni,
e inaspettati eventi i Numi compiono;
e a quel che s’attendea negarono esito,
e all’inatteso aprîr tramite agevole.
E tale fu di questo evento il termine.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.