< Elettra (D'Annunzio)
Questo testo è stato riletto e controllato.
Per i marinai d'Italia morti in Cina A uno dei Mille



A ROMA

A
UREA Roma, sia testimone

dal ciel di settembre la faccia
del Sole che mai cosa più grande
di te visitò nell’alterno Orbe;
5sieno testimoni dal confino
dell’Agro il Soratte santo
apollineo con le sue corone
di nubi e il Cimino proclive
che dal Tevere al Mare
10tende le sue cerulee braccia;
e testimoni sieno i Monti
d’Alba pampinei ridenti
al cielo dai profondi
occhi dei laghi; e il divino
15Agro che tace, co’ suoi armenti
irti, co’ suoi pastori biformi
dall’aspetto umano ed equino,
l’erbifero sepolcro dei regni
sia oggi testimone al canto
20che memora il detto sibillino.

“Manca la Madre„ disse il carme
euboico al sacerdote.
O Roma, guerriera senz’arme,
ti manca l’universa Idea

25che sorga, su l’ombre
oblique, su le forme vuote
di alito, su le cloache ingombre
di uomini, generatrice.
Manca la Grande Madre. Ti manca
30il vergine eroe, il nepote
ultimo del magnanimo Enea,
che con la sua man pura
la tragga vivente alle tue mura
auguste e instituisca la Festa
35nova e inizii la nova Epopea.
L’ancile di Marte è scodella
al mezzano; la meretrice
è addetta al fuoco di Vesta;
del tuo Campidoglio non resta,
40o Roma, che la Rupe Tarpea.

Ma, sotto il ciel settembrale
che riversa il suo calice d’oro
ampio dal Celio al Viminale
dal Gianicola al Vaticano
45dall’Anfiteatro al Fòro,
nel dì fausto dell’alta conquista,
cantiamo l’avvento fatale,
su la torbida acqua corrotta
chiamando l’imagine prisca.

50Contro l’un concistoro
che ciancia baratta confisca
e l’altro che munge il tesoro
di Pietro per l’anima ghiotta,
alziamo la statua ideale.
55Sorse fervido il popolo quando
intese il responso canoro:
“Manca la Madre. O Romano,
che tu chieda la Madre io comando.
Com’ella venga, addotta
60sia da una pura mano.„

Venne la Magna Madre
su la nave alla foce del fiume
biondo; e nel limo ristette,
immota, incrollabile come
65una rupe. I cavalieri,
il senato, la plebe di Roma,
le vergini del fuoco santo
accorsero in turba alla foce
del fiume incontro alla veneranda
70Ospite. Ed era ne’ cuori
letizia. Ma stava nel vado
limoso la carena immota
simile a una rupestre
isola. Legarono all’alta

75prora una fune gli uomini forti
e fecero gran forza di braccia,
e con voci iterate
aiutavano eglino la vana
opera, a trarre la nave
80dipinta nel Tevere biondo.

Ma sedeva la Magna Madre
incrollabile sopra la tolda,
con la sua corona di mura
su le chiome che fingono i flutti
85del ponto e i solchi dell’agro,
con le sue mani invitte
benefiche di beni infiniti
prone su le ginocchia più salde
che le roveri annose nei monti;
90al conspetto del popolo grande
sedeva la Madre dell’aurea
fecondità, la nutrice
dei mortali e degli immortali,
la donatrice delle semenze
95ineffabili, la dea
che moltiplica il sangue
animoso, edifica le chiare
città, conduce i pensieri
i timoni gli aratri, errante

100sonante in circoli immensi.

E la forza degli uomini forti
s’accrebbe di tutta la plebe
romana, s’accrebbe di tutti
i cavalieri romani. E tutti
le braccia davano alla fune
105ritorta e iteravan le voci
al travaglio, ma indarno; ché stava
immota nel vado la dipinta
carena e il simulacro sublime
splendeva sopra la tolda
110nell’aer salino tacente.
Attonita interruppe il conato
la moltitudine e tacque
pavida innanzi al prodigio
con supplice cuore. S’udiva
115fluire il Tevere biondo,
addurre all’imperio del Mare
la maestà di Roma.
Tra il popolo supplice, allora
120s’avanzò Claudia Quinta vestale.

Offendeva lei casta il sospetto
del volgo, iniquo rumore.
S’avanzò Claudia Quinta e con mani

pure attinse l’acqua del fiume;
125tre volte il capo s’asperse,
tre volte levò al cielo le palme;
prona nel suo crine giacente,
invocò a gran voce la dea.
Quindi, alzata, legò il suo cinto
130alla prora e con lene fatica
trasse la Magna Madre nel fiume,
trasse la Madre dell’eterna
fecondità verso l’arce eterna
dell’Urbe. Tonarono i petti
135romani; sanguinò la bianca
giovenca dinanzi alla poppa
coronata. Sedente sul plaustro
de’ buoi la Turrigera, addotta
da virtù di vergine pura,
140entrò per la porta Capena.

Così, o Roma nostra, negli anni
verrà non dal Dindimo ululante,
non pietra esculta in nave dipinta
pel Mediterraneo Mare,
145verrà dagli oceani lontani
ove la vita allaccia la vita
d’isola in isola per correnti
misteriose di voleri

umani e di sogni umani
150che cercano le novelle forme,
verrà dai continenti
immensi ove ancora dorme
la ricchezza nei misteri
delle montagne e delle lande
155promessa agli insonni messaggeri,
verrà dai confini del mondo
con l’impeto degli elementi
e con l’ordine dei pensieri,
verrà dall’alto e dal profondo
160la Potenza in cui sola tu speri.

Così, o Roma nostra, nei tempi
un vergine eroe di tua stirpe
così la trarrà alle tue mura.
Non carena immobile in sirte
165limosa, non simulacro
già venerato in templi
estranei trarrà la man pura,
ma la Potenza umana, ma il sacro
spirito nato dal cuore
170dei popoli in pace ed in guerra,
ma la gloria della Terra
nel divino fervore
della volontà che la scopre

e la trasfigura
175per innumerevoli opre
di luce e d’ombra, d’amore
e d’odio, di vita e di morte,
ma la bellezza della sorte
umana, dell’uomo che cerca
180il dio nella sua creatura.

Però che in te, come in un’impronta
indistruttibile, debba
la Potenza dell’Uomo
assumere forma ed effigie,
185instituita nel Campidoglio
e nel Foro, di contro all’Onta
dell’Uomo, su le vestigie
della forza e dell’orgoglio
che chiesero la Grande Madre
190alle montagne frigie
per lei custodir nelle tue sacre
mura che sole credevi
tu degne di chiudere l’altrice
universa quantunque sì brevi.
195O Roma, o Roma, in te sola,
nel cerchio delle tue sette cime,
le discordi miriadi umane
troveranno ancor l’ampia e sublime

unità. Darai tu il novo pane
200dicendo la nova parola.

Quel che gli uomini avranno pensato
sognato operato sofferto
goduto nell’immensa Terra,
tanti pensieri, tanti sogni,
205tante opere, tanti dolori,
tante gioie, ed ogni
diritto riconosciuto ed ogni
mistero discoperto
ed ogni libro aperto
210nel giro dell’immensa Terra,
tutte le speranze umane
volanti da porti sonori,
tutte le bellezze umane
cantanti per boschi d’allori,
215vestiranno le forme sovrane,
appariranno alla luce eterna,
o Roma, o Roma, in te sola.
Ai liberi ai forti materna,
o dea, spezzerai tu il novo pane
220dicendo la nova parola.

Aurea Roma, o donna dei regni,
sien testimoni all’augurale

Ode che canta oggi il tuo destino
le cose che portano i segni:
la nube che sul Palatino
sanguigna risplende
come porpora imperiale
tra gli ardui cipressi; il divino
silenzio del vespero che accende
i Diòscuri domitori
di cavalli sul Quirinale;
l’ombra spirante che occupa i Fori
gli Archi le Terme taciturna;
la fonte di Giuturna
che dalla ruina risale;
la tavola delle Leggi sacre
che dalla polve riappare;
e la mia speranza, o Madre,
e il fior del mio sangue latino,
e il fuoco del mio focolare.


A UNO DEI MILLE

O
VEGLIARDO, consunto come l’usto

dell’àncora che troppe volte morse
con sue marre i tenaci fondi, pregno
4del sale amaro,
splende la gloria sul tuo volto adusto

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.