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LA NOTTE DI CAPRERA.
I.
il Dittatore silenziosamente
sul far dell’alba con suoi pochi sen viene
alla marina dove la nave attende.
5Ei si ricorda nell’alba di novembre:
quando salpò da Quarto era la sera,
sera di maggio con ridere di stelle.
Non vede ei stelle ma l’alta accesa gesta
dietro di sé nella stagion sì breve.
10Ei seco porta un sacco di semente. Il sacco di semente
Quella è la nave che all’acque di Sardegna
già navigò dal Faro in gran segreto
per il soccorso, innanzi ch’ei prendesse
Reggio ed i monti, innanzi che Soveria
15fossegli resa, quando le nuove schiere
precipitò nella Calabria estrema
e duce fu alle armi, alle carene
fu calafato, fu mastro d’ascia, artiere
d’ogni arte, pronto ei sempre alla diversa
20necessità con volto sorridente.
Donato il regno al sopraggiunto re,
ora sen torna al sasso di Caprera
il Dittatore. Fece quel che poté.
E seco porta un sacco di semente.
II.
d’amor selvaggio all’apparito Eroe
nel bel settembre. Emmanuele dorme
là nella reggia ove tanto tremò
l’erede esangue di Ferdinando. Implora
30Dominedio Francesco di Borbone
chiuso in Gaeta con la sua fulva donna,
con l’aquiletta bavara che rampogna.
“Calatafimi! Marsala!„ Chiama a nome I cavalli di guerra
i suoi cavalli di guerra il Dittatore,
35novo nell’alba, gli arabi suoi sul ponte
recalcitranti al vento che riscuote
il Golfo. Palpa le lor criniere ondose
che sanno ancor d’arsiccio, le lor froge
palpa, e le labbra frenate onde fioccò
40la spuma come neve su i moribondi.
Ed ei li pensa lungi, franchi del morso,
per le ferrigne rupi; e dice: “Anche a voi
la libertà!„ Quella divina voce
odono i due cavalli che hanno i nomi
45delle Vittorie e lui guatan con occhi
di fanciulli, ecco, obbedienti. Sorge
l’aurora. È pronta la nave. Il Dittatore
delle tempeste grida: “Salpa!„ L’alta onda
del dominato Oceano gli torna
50nella memoria e nella voce. Scioglie
l’ultimo capo dell’ormeggio allor con
atto che par santo al devoto stuolo.
L’anima già per l’acque si diffonde
simile al dì. Ripete ei la parola
55che consolò i suoi laceri prodi:
“A Roma, a Roma ci rivedremo! A Roma!„
Bello non è come il raggiante volto
del donator di regni il novo Sole.
III.
60Tirreno. Guarda vigile, dalla prua
che non ha rostro, se non vegga la rupe Il ritorno all’isola rupestre
brulla apparir tra i nugoli; o seduto
resta sul sacco delle semente a lungo,
tutto pensoso della seminatura
65nei magri solchi e delle sue lattughe
anco e de’ suoi magliuoli e de’ suoi frutti.
Novera già col pensier nel suo chiuso
la scarsa greggia, e le lane valuta,
i negri velli ed i candidi, cui
70non mai segnò la robbia; alla futura
prole sorride, e allarga la pastura
sopra il macigno. In quale tempo ei fu
pastore? Quando migrò con la tribù
su le grandi orme dei padri alle pianure?
75Quando agli armenti cinse i fuochi notturni,
fatta la sosta presso la fonte pura?
Mondo di strage, ei beve il vento. I flutti
crespi e canuti accorrono ver lui
come le bianche pecore per l’azzurra
80erba; ed ei sa il suono che le aduna.
D’antico tempo gli sovviene. Di tutto
quel che fu ieri non gli sovviene più.
Apre così le braccia la Natura
subitamente al buono figliuol suo
85per riposarlo, sopra il suo petto ignudo,
di tanto sangue e di tanta ventura.
E il figlio a lei così volge dischiusa
la sua divina anima di fanciullo.
IV.
90Gallura, i monti aerei nell’aria. Il granito sepolcrale
Ecco il granito ov’ei riposerà.
Ecco la tomba che gli lavorerà
l’arte del Mare. Come in petrose tazze,
nei grembi cavi l’isola solitaria
95serba il silenzio ch’è bevanda al pugnace.
Quivi placato nella sua verità
ei può sognare; né quel silenzio mai
gli mancherà, sopra il fragor del Mare.
V.
100(ei palpitò forte veggendo selci
risfavillar sotto l’urto del ferro,
udendo su per le rupi deserte
eco del gran galoppo senza freno)
or nella bianca stanza è solo con sé
105il Dittatore, solo con sé fedele.
Guarda le bianche mura ch’ei fece, artiere
d’ogni arte, dopo che preso e difeso ebbe
quelle di Roma. È senza mutamento
la povertà, è senza mutamento
110la pace. Il sacco delle semente è a piè
del letto. L’arme, disopra l’origliere,
al vacillar della lucerna splende.
Palpita e guizza la fiammella. È gran vento Il maestrale
alle finestre, gran vento di maestro
115sul mar che romba nelle anse di Caprera,
grande clamore a quando a quando, immenso
grido, selvaggio urlo come a Palermo,
come a Palermo urlo di popolo ebro.
“O cuore, balzi? Placato ancor non sei?„
120L’Eroe sorride; ma gli occhi del veggente
veggono il sole su la città che ferve
colui che parla e l’ultimo suo gesto,
il furibondo palpito che solleva
tutto quel muto popolo come un petto
125immortale, e tutto il sangue repente
sparir dai volti innumerevoli, e
tutte le bocche urlanti, tutte le
mani distese in alto alla ringhiera;
Piazza Pretoria fatta dal travincente
130amore vasta come l’Italia intera
l’anima d’un popolo fatta un cielo
di libertà, eguale al giorno ardente;
una bellezza nuova per sempre accesa
nel triste mondo, un’imagine eterna
135di gloria impressa nel vano velo, eretta
un’altra cima, ala data alla Terra!
VI.
L’Eroe sorride; ma si tocca la fronte
ove in quel dì battevan forte il sole
140siciliano e il vento dell’ignoto
destino e il suo volere. Poi s’accosta
al bianco letto che dà i profondi sonni, Il letto
ove il lin rude par che di sale odori
(lavato in mare e torto su lo scoglio?)
145ma il cuore è insonne, riposare non può.
Ei crolla il capo e dice: “Spartirò
le mie semente.„ Si china; piano scioglie
la bocca al sacco; e ripone la corda.
VII.
150faville d’oro dall’una all’altra mano.
Sparte e col soffio ventila come fa
esso il colono che non mai fece altra arte. Il colono
La man non falla quando l’occhio s’inganna:
sa come pesi nella palma il buon grano.
155Tenne la spada ed or terrà la marra.
Mezzo novembre avran repente e chiaro
l’opre, poiché non anco Aldebarano
sorse dal mare ed ecco il Maestrale
porta il sereno a chi vuol seminare.
160“O cuore, o cuore, entra nella tua pace!„
Gli àlbatri intorno soli rosseggeranno,
cui tolta fu la terra lavorata.
“Guardiamo innanzi, all’alba che verrà!„
Chino la fronte, le sue semente ei sparte,
165faville d’oro dall’una all’altra mano.
“Ciò che compimmo altri lo canterà.„
VIII.
s’alza e sovrasta alla notte sublime, I Mille
sovrasta al cuore di colui che ha sorriso,
170occupa la solitudine, vince
la pace, infiamma l’ombra; non ha confine
in breve nome. O Italia, i Mille, i Mille!
Ali fulminee delle Vittorie latine,
rapidità della forza e dell’ira
175su le riviere del sangue, alte e succinte
vergini d’oro, messaggere vestite
di vento, immenso amor di Roma, chi
si chiamerà fra voi l’eguale di
quella che un volo su da Calatafimi
180sino al Volturno volò senza respiro
e dissetò la sua gran sete alfine
sol nelle vene di Leonida ucciso
un’altra volta? Pianto alla Porta Pila,
silenzioso pianto alla dipartita,
185coro di donne liguri! Ultimo addio
di ferree madri ai giovinetti figli!
Divinità rivelata nei cigli
umani e primo tremito delle prime
stelle nel puro cielo primaverile!
190Più dolce maggio in terra non fiorì.
Navi sospinte nel mare dal respiro
stesso dei petti eroici, dal destino
e dalla febbre, dalla speranza invitta
e dal prodigio, piene di melodìa
195e di ruggito, nell’oscuro periglio
illuminate dai baleni d’un riso
silenzioso, con la prora diritta
a gloria e a morte, a un punto e all’infinito!
Rapida gioia de’ bei delfini amici
200nel solco, méssi d’un rinnovato mito!
Stelle augurali dell’Orsa al grande ardire,
accesa in cielo bandiera del naviglio!
Più alto sogno in Dante non salì.
IX.
205il Dittatore, sotto la sua lucerna
che per le mura d’ombre e di luci crea
notturne vite coi lunghi aliti della
notte. È gran vento alle finestre: geme,
sfida, minaccia, rugge, ulula, intermesso.
210La man nell’atto a quando a quando trema.
Fissi alla gesta son gli occhi del veggente.
L’anima eterna è cinta di baleni.
Ei vede, ei vede il patrio mare ardente,
i suoi vascelli nel fulgido silenzio Le navi eroiche
215misteriosi come due giganteschi
spiriti, fatti leggieri dall’ebrezza
che vi s’aduna, dal sogno che vi ferve,
come le navi dei templi dalla prece:
e il primo approdo, Telamone col segno
220dell’Argonauta, le odorifere selve
dell’Argentaro, la pallida Maremma
tinta del sangue gallico, ove raccese
Mario la febbre di Minturno ed il ferro
trasse dal piè degli schiavi, ne fece
225spade battute per la strage crudele.
E l’altro monte, e l’altro monte ei vede,
l’Erice azzurro, solo tra il mare e il cielo
divinamente apparito, la vetta
annunziatrice della Sicilia bella!
X.
folgori e tuoni, furore e sangue, azzurro
e sole, ferro e fuoco, aure e profumi.
L’inno è nel vento, l’ebrezza nell’arsura. L’approdo
Ei squassa l’aspre chiome della fortuna
235in pugno e fa d’ogni uomo una virtù,
una virtù d’ardore ch’ei conduce
col suo sorriso terribile nell’ultimo
impeto al cuor d’un astro. E l’armatura
della sua possa è il suo sorriso; e ovunque
240risplenda, quivi è il prodigio; e nessuno
lo vede senza vedere un dio nel suo
cielo; e beato colui, quasi fanciullo,
che primamente lo vede nella luce
e tra le spiche ucciso cade giù.
XI.
canterai tu per i figli d’Italia,
quando per tutti gli uomini canterai
tu questo canto? Ecco il pane spezzato
sotto l’olivo, prima della battaglia;
250ecco irto d’armi il colle di sì grande
nome, nomato il Pianto dei Romani, Le sette Vittorie
aspro di sette cerchi, balzo di Dante,
per ove gridan come stuol di selvagge
aquile sette Vittorie disperate;
255Alcamo in festa, Partinico fumante;
l’avida sosta della falange, al Passo
di Renna, in vista della Conca e del Mare;
la sete, la fame; la corsa verso Parco
nella tempesta e nella notte, inganno
260meraviglioso; la montagna affocata
di Gibilrossa ove ecco ogni uomo par
che trasfiguri come se oda parlare
una divina voce alla sua speranza;
e la discesa muta di sasso in sasso,
265per gli arsi aromi, lungo le schegge calde,
mentre la sera coi richiami lontani
de’ suoi pastori e coi suoi flauti fa
la melodìa dell’obliata pace;
e poi la notte vigile di fatali
270stelle; e poi l’alba, e nell’alba il tonante
impeto, l’urto, la furibonda strage,
l’inferno al ponte dell’Ammiraglio; il maschio
Nullo a cavallo oltre la barricata
con la sua rossa torma, ferino e umano
275eroe, gran torso inserto nella vasta
groppa, centàurea possa, erto su la vampa
come in un vol di criniere; il grifagno
Bixio, il risorto Giovanni delle Bande
Nere, temprato animato metallo,
280voce a saetta, sottil viso che sa
la cote come il filo d’una spada
laboriosa, ossuta fronte salda
come l’ariete che dirocca muraglie,
eccolo all’opra che balza da cavallo
285per trarsi il piombo con le sue stesse mani
fuor delle fibre tenaci; ecco espugnata Palermo espugnata
la Porta, data la rotta alle masnade
regie col ferro alle reni; le strade
ancor nell’ombra, deserte; la città
290ancor dormente, e la prima campana
che suona a stormo verso l’aurora alzata
su Gibilrossa; Fieravecchia che batte
già colma come un cuor che si rinsangua;
Macqueda sotto la grandine mortale;
295Montalto ai regi tolto dallo spettrale
Sirtori; atroci strida, crollar di case,
rossor d’incendii; la morte che s’ammassa
nella ruina; l’afa delle carni arse,
il cielo azzurro su l’urlante fornace;
300e il Dittatore terribile che passa,
il Dittatore sorridente con pace
tra quel delirio umano, il dio che guarda,
indubitata forza, con nella faccia
il sole, il sole del sorriso eternale.
305Gloria per sempre! Ecco Palermo schiava
che si risveglia giovine tra le fiamme,
che si solleva, memore della Gancia,
nella vendetta e nella libertà.
XII.
310il Dittatore onniveggente è immoto.
Nel sacco rude la sua mano s’affonda
e inerte sta, immemore dell’opra.
Or è interrotta l’opra del buon colono.
Ei più non vede rilucere pe’ solchi
315le sue semente, né ribatte le porche
ei con la marra in suo pensiero. Ascolta
il vento e il mare nella notte profonda.
Ascolta il rombo del suo spirito solo.
Non ei toccò la cima di sua sorte?
320Non proferì la sua più gran parola
quando a quel re sopraggiunto donò
il regno e solo poi si ritrasse all’ombra
d’un casolare, lungi alla bella scorta,
sol con taluno de’ suoi laceri prodi?
325Triste è la bocca nella sua barba d’oro,
ché le sovvien del molto amaro sorso.
Era laggiù, presso Teano, incontro
ai foschi monti del Sannio, il donatore;
seduto all’ombra era, su vecchia botte
330non più capace di contener la forza
del vin novello. Era l’autunno intorno;
ammutolito sul Volturno il cannone;
piegata e rotta la gente di Borbone
sul Garigliano; scomparso con la scorta La meditazione all’ombra
335splendida il re sul suo cavallo storno,
andato a mensa. Era l’autunno intorno:
cadean le foglie dal tremolio dei pioppi;
i campi roggi fumigavano sotto
l’aratro antico tratto dai bianchi buoi
340campani cui rauco urgeva il bifolco
fasciato le anche dal vello del montone,
coperto il bronzeo capo dal frigio corno.
Antiche e grandi eran le cose intorno;
antico e grande era il cuore dell’uomo
345seduto in pace su la fenduta botte.
Ognun taceva al conspetto dell’uomo
meditabondo. Quasi era a mezzo il giorno:
era il meriggio muto come la notte.
Ognun taceva, ogni anima era prona
350dinanzi a lui, col silenzio che adora
e riconosce: alta preghiera in ora
che parve a ognuno scorrere per ignota
profondità. E il forte elce nodoso,
che negreggiava quivi, fu santo come
355i dolci olivi dell’orto ove pregò
tre volte un altro uomo di fulve chiome.
E il donatore, seduto su la doga
vile, crollò la testa di leone.
Calmo guardò pei fumi il campo roggio,
360col calmo sguardo cerulo che soggioga
il rischio; udì l’anelito dei buoi
affaticati per quelle terre sode;
seguì un aratro che discendea da un poggio,
considerò se fosse dritto il solco
365dietro l’attrito vomere. Anche ascoltò
la lodoletta che facea sua melode.
Venne per l’aria il suono d’un rintocco. Il banchetto del Vincitore
Allor fu quivi recato da un pastore
giovine irsuto di pelli, sopra un moggio,
370al donator di regni un duro tozzo
di pane, e cacio stantìo, di grave odore.
Aveva ei seco il suo coltello a scrocco,
il suo coltello di marinaio, ancóra
raccomandato alla sua vecchia corda;
375l’aperse pronto, con quello s’affettò
il pane e il cacio. Maciullando, guardò
l’aratro antico tratto dai bianchi buoi,
e giudicò del dritto solco; poi,
come il più duro non passava pel gozzo,
380chiese da bere sorridendo al pastore.
Allor fu quivi recato in un orciuolo
al donator di regni acqua di pozzo.
Avido ei bevve, accostatosi il rozzo
vaso alla bocca, ma la bocca schifò.
385L’acqua putiva, come d’un otro immondo.
Senza sdegnarsi ei versò l’acqua al suolo.
Poi s’asciugò, tranquillo; e disse: “Il pozzo
è infetto. Certo, v’è una carogna al fondo.„
S’alzò nel detto; e andò pei campi solo.
XIII.
e il cuor gli duole d’un lento presagire
(riarderà l’agosto su le cime
dell’Aspromonte torbido, e di vermiglie
bacche il novembre allegrerà le infide
395macchie a Mentana). Ei vede il buono Elìa
col piombo in bocca laggiù su la collina
dei sette cerchi; e laggiù sul sottile
istmo, a Milazzo, entro i maligni intrichi
delle paludi e dei canneti, ritto
400il suo Missori bellissimo che uccide
i cavalieri. Ode il grifagno Bixio
che nel più folto della mischia gli grida:
“Dunque così voi volete morire?„ L’alfiere titanico
Subitamente Deodato Schiaffino,
405quel da Camogli, il biondo, gli apparisce:
il marinaio biondo che gli somiglia,
occhi cilestri, d’oro la barba e il crino,
ma più membruto, più alto, d’una stirpe
ingigantita nel travaglio marino.
410Subitamente gli apparisce supino,
a mezzo il colle, nel sangue che invermiglia
tutto il pianoro. È caduto così
l’alfiere, primo all’assalto. Garrisce
dopo lo schianto la bandiera investita,
415come da un vento d’ira, dal grande spiro:
e sul torace come sur un macigno
fanti e cavalli s’azzuffano in prodigi
di furia, e tutta la virtù dell’estinto
ecco risorge viva in un cuore vivo,
420ed è il torace dell’eroe come un plinto
alla grandezza d’un altro eroe. “Così
dunque volete morire?„ Un leonino
fremito scuote il Dittatore. Ei mira
sé nel gigante biondo che gli somiglia,
425nel marinaio ligure che morì
com’ei vorrebbe. Cupo aggrotta le ciglia;
con gli occhi fissi interroga il Destino.
XIV.
Come il pastore dell’Agro spaventoso
430nel ferin sangue porta germe nascosto
d’antica febbre che sùbita riscoppia L’ombra di Roma
mentre di sotto l’arco dell’acquedotto
inaridito ei guata fuggir l’ora
su l’erba e sta con l’anima gravosa
435ch’ebbe immutata per geniture molte
dal tempo quando con solfo e con alloro
Pale odorava la pecora feconda:
conosce il segno del vigile malore,
conosce il gelo che in foco si risolve;
440dà la sua vita alla vorace forza:
ed ei ben sa ch’ella non abbandona
se non l’ossame, e guata fuggir l’ora
per l’erba e sta con l’anima gravosa
e brucare ode la pecora d’intorno:
445così l’insonne sente dal più profondo
sangue salir la febbre sacra, il morbo
divino, ardore immedicabile, odio
ed amore ambi indomati, onde il corpo
arde e la mente, sacra febbre di Roma,
450ultima vita terribile del suolo
esercitato dai padroni del Mondo.
XV.
il sen materno, conobbe il suol latino
come colui che alla mammella antica L’Agro
455s’abbeverò con sete di giustizia.
Vi giacque armato, sotto il seren d’aprile,
e di rugiada nell’alba si coprì.
Vi colse il fiore dell’asfodelo; misti
alle fresche orme vi rinvenne i vestigi
460dei Fabii; v’ebbe a ginocchio il nemico;
vi fu calpesto dai suoi nello scompiglio,
dai cavalieri suoi fuggiaschi, ferito
dall’unghie dure, di polve e sangue intriso,
tremenda impronta, quando del cuore invitto
465impedimento al terrore improvviso
ei fece solo e là, prono, col viso
nella carraia, baciò la madre, vivo
oltre la morte, e nel fragor sinistro
l’urlo supremo della sua Lupa udì.
XVI.
canterai tu per i figli d’Italia,
quando per tutti gli uomini canterai
tu questo canto? L’umano alito mai
più grandemente magnificò la carne
475misera; mai con émpito più grande Le trasfigurazioni
l’anima pura vinse il carcame ignavo.
L’onta dell’uomo, il corpo che si lagna
e trema, che ha sonno, che ha sete fame
paura, che ha orrore del suo sangue
480e delle sue viscere, che si salva,
si cela, fugge, cade, invoca pietà,
prega soccorso, per soffrire si giace
e per morire chiude gli occhi, la salma
pesante opaca e fragile, la carne
485misera e impura, l’onta dell’uomo schiavo,
veduta fu sùbito trasmutarsi,
al nomar d’un nome, in una sostanza
novella, armata d’una vita tenace
e numerosa come di germinanti
490membra e di vene perenni, inebriata
di strage come di allegrezza, agitata
con risa e grida se molto era la piaga
vasta, se orrenda era, come si squassa
una bandiera superba a rincuorare
495stanchi e codardi. Cantami, o Verità
cinta di quercia, cantami questo canto!
Eccoti innanzi le donne, ecco i vegliardi,
ecco i fanciulli: le donne senza pianto,
senza vecchiezza i vegliardi, a mortale
500gioco i fanciulli con la morte che passa;
ecco guidato a suon di trombe il ballo
dal buon Manara sotto il colle tonante;
ecco il Masina, con la sua schiera franca
di cavalieri bolognesi, l’uom d’arme
505e di piacere, ardentissima spada,
gioioso a mensa come in campo, che già
tinto in vermiglio ritorna al quarto assalto
per la Corsina e sprona il suo cavallo
su la scalèa, gli dà ferocia ed ali,
510colpito in petto non fa motto né lai, Villa Corsina
vuota la sella, stramazza, con le braccia
aperte e il ventre prono sul sasso sta;
ed ecco i suoi già pronti a dargli bagno
di grana e coltre di porpora, le lame
515battute a freddo, le lance di Romagna,
che per ammenda di Velletri han pagato
un fiero scotto, eccoli tempestare
su l’atterrato per trar dalla battaglia
il corpo e dargli sepoltura, gli eguali
520dei belli Achei corazzati di rame
sul corpo di Patroclo nato dal
cielo, del caro al Pelìde compagno;
mentre dardeggia la voce del grifagno
Bixio ferito di piombo all’anguinaglia,
525voce di scherno, che fischia sfonda e taglia
come la spada che tronca gli è rimasta
nel pugno; e il fabro d’inni Mameli, il vate
soave come Simonide ceo, ma
più puro che l’ospite di Tessaglia,
530guerreggiatore laureato, sul franto
ginocchio cade sorridendo; e di vasta
anima un altro artefice, il lombardo
Induno, alfine cade, giace forato
come selvaggio bugno e per tanti varchi
535non la sua vasta anima dà ma inganna Catalogo dei guerrieri
la morte, due volte fatto immortale.
Ecco il Bronzetti, ad altri campi sacro,
ad altro antico esempio, che il suo caro
non abbandona già sotto le calcagna
540nemiche ma l’ardire e la pietà
di Niso ingenuo innova; ecco il toscano
Masi, il Sampieri veneto, ecco il lombardo
Vismara, il Bacci piceno, l’apuano
Giorgieri, duci e gregarii, il romano
545Spada, e Fulgenzio Fabrizi umbro ammirando
al Ponte Milvio, e il conte ravennate
Loreta, e il buon Savoia mantovano,
e il buon Maestri, il monco, il mutilato
di Morazzone, e quel gentil Montaldi
550già cacciatore al Salto e capitano
che navigando laggiù pel guerreggiato
fiume fu solo ed ebbe cento braccia
a sostener con l’arme l’arrembaggio;
ecco l’Anceo, il Silva, il Rodi, il Sacchi,
555il pro’ Daverio, il Mellara, gli Strambio,
il più bel fiore del sangue di Romagna
e di Liguria e d’Umbria e di Toscana,
d’ogni contrada, figli della montagna,
figli del piano, figli del litorale,
560della città e del borgo selvaggio,
il più bel fiore fiorito dalle madri
nel vaticinio della gesta fatale,
speranza e forza della profonda Italia,
speranza che arde e forza che combatte,
565dolor che ride e giubilo che assale,
solenne ebrezza, funebre voluttà,
il più bel fiore fiorito dalle madri
potenti come la terra che bagna
il fiammeo flutto ond’è converso il latte
570robusto dato con compagnia di canti;
e il Morosini, e i Dandolo, sonanti
nomi nel bronzo della gloria navale,
stirpe di dogi, sangue republicano
che tinse già di suo colore i fianchi
575delle galere, il Mare Nostro, Candia,
la Morea, Nasso, in cento assedii, e i sacri
marmi d’Atene e l’oro di Bisanzio,
spoglie del Mondo offerte alla Città.
XVII.
580fumida prua del Vascello protesa
nella tempesta, alti nomi per sempre
solenni come Maratona Platèa
Crèmera, luoghi già d’ozii di piaceri
di melodie e di magnificenze
585fuggitive, orti custoditi da cieche
statue ed arrisi da fontane serene,
trasfigurati sùbito in rossi inferni
vertiginosi, chi dirà la bellezza
che in voi s’alzò dalla ruina e stette L’astro sanguigno
590su l’Urbe come terribile astro a sera?
chi canterà la vostra grande sera?
Cadeva il dì crudo su fuoco e ferro.
Tre volte e quattro iterato per l’erte
scalèe l’assalto: grado per grado, pietra
595per pietra, preso e perduto e ripreso
e riperduto il baluardo orrendo;
accumulati i cadaveri a piè
degli agrifogli, dei balaustri, delle
statue, delle urne; fatto il pendìo riviera
600del sangue, cupo bulicame di membra
lacere; acceso l’incendio; alzato al cielo
impallidito il clamore supremo
i Legionarii ansanti, arsi di sete
e d’ira, armati di tronconi e di schegge
605neri di fumo e di polvere, belli
e spaventosi parvero come quelli
che superato avean l’uman potere
con la scagliata anima (tale il segno
superato è dal dardo veemente)
610e respiravan dai lor profondi petti
piagati l’ansia d’un miracolo ardente.
“Avanti!„ allora gridò la voce immensa.
Erano questi reduci dall’inferno
raccolti presso le mura, tra il Vascello
615e San Pancrazio. Ansavan come belve
cacciate innanzi dal fuoco nelle selve
incendiate, esausti, dalla sete
stretti le fauci; e non avean da bere
se non sudore e sangue. Ognun coi denti
620secchi mozzò l’anelito, e si tese
per obbedire. “Avanti!„ ripeté
la voce immensa. Ed il bianco mantello
ondeggiò, come l’onda delle bandiere, L’ultimo assalto
su gli aridi occhi. S’udìa, contra il Vascello,
625spesso il nemico tonar dalle trincere
della Corsina come da una fortezza.
Perduta omai l’altura; folle impresa
tentare un altro assalto; tutta l’erta
spazzata; dubbio giungere a mezzo; certa
630la strage. “Avanti!„ gridò la voce immensa
e pura come il ciel di primavera
sopra le fronti degli uomini promessi.
E comandò agli uomini il portento.
“Orsù, Emilio Dandolo, riprendete
635Villa Corsina! Su, di corsa, con vénti
dei vostri prodi più prodi, a ferro freddo!„
Ed il nomato tremò nel cuore udendo
il nome suo in bocca della stessa
Gloria. Caduto eragli già il fratello
640su la scalèa, spento. E disse: “O fratello,
teco verrò!„ Pronto, fece l’appello
dei morituri. E la falange breve
mosse all’assalto ultimo. Una gran febbre
allora parve palpitare nel vespro,
645visibil come l’ardore nei deserti
quando per l’aere vibra incessantemente.
Sorse un clamore terribile nel vespro,
terribil come quel dei romani petti
che ferì l’aere ed i volanti uccelli
650quando rostrata salpò la quinquereme
di Scipione. Videsi in alto un negro
stuolo di corvi sbattere sul funesto
Gianicolo, ove scendean le aquile un tempo
con i presagi. E nel fuoco e nel ferro
655il fato della Republica fu certo.
I morituri la videro morente
nel sangue loro. Un disse: “Vinceremo.„
XVIII.
di San Pancrazio la seconda legione
660lombarda, quella dal Medici condotta
florida schiera giovenile, corona
di Lombardia. Il Vascello, dal prode La falange dei giovinetti
Sacchi difeso fin quasi a mezzo il giorno,
quindi tenuto da quel santo e feroce
665Manara cui serbata era la gloria
di Villa Spada, sosteneva il maggiore
sforzo nemico. Fervida era già l’opra
degli approcci, era imminente già il crollo
del fastigio, era già degli uccisi ingombro
670tutto il palagio. Or veniva al soccorso
Giacomo Medici, incrollabile possa,
compatto bronzo contra le sorti immoto.
Dalla Toscana nel Lazio, senza colpo
ferire, avea condotta la legione
675con disciplina durissima, per prove
e patimenti infiniti, veloce
e càuto, dando per guanciale al riposo
la gleba o il sasso, avendo giorno e notte
il rischio sempre alle spalle, di fronte
680e ai fianchi come dogo o molosso pronto
ad azzannare senza latrato. Il sole,
il vento, l’erbe, i torrenti, le rocce
aveangli fatta selvaggia come un’orda
la bella schiera. Ai giovini leoni,
685tutta la notte nutriti dall’odore
della Campagna sacra nel periglioso
cammino, Roma era apparita in fondo
alla pianura nella sùbita aurora
come una nube. Ed un grido era sorto:
690“O Madre!„ Ed ogni cuore in quella parola
s’era devoto, con volontà di gloria;
e taluno ebro avea sentito forse
nelle gramigne rimaste fra le chiome
incolte il peso mortale degli allori.
695Veniva or dunque, senza squilli, alla Porta
di San Pancrazio la seconda legione
lombarda. Ed ecco, verso la Porta, incontro
a lei la fila delle barelle atroce,
con i feriti, con i morenti in mostra!
700Ed i feriti ed i morenti, incontro
ai giovinetti floridi, del dolore
fecero un riso non umano. E coloro
che non avean più pel riso la bocca
ma cave piaghe, gittarono dagli occhi
705il lor baleno; e taluno gittò Il battesimo
le bende intrise discoprendo la coscia
tronca od il ventre lacerato e gridò:
“Resti con voi questo segno!„ Ed un monco
scosse ridendo il moncherino come
710un aspersorio di sangue e battezzò
gli imberbi. E tutti ridevano di gioia
come fanciulli, poiché la morte ai loro
terribili atti mesceva un che di dolce,
una bontà puerile, un candore
715di libertà mai detto da parola
d’uomo né vinto in terra; e di candore
splendevan essi nel dissanguarsi in fondo
alle barelle che penetravan l’ombra
di Roma fatta più profonda dal rombo
720che il Campidoglio spandea sonando a stormo.
Nell’ombra “Viva la Republica!„ urlò
l’anima alzata del coro moribondo.
E l’urlo sotto la Porta rimbombò.
E la legione, scagliata dalla Porta
725eroica, entrò nella battaglia. Allora,
bianco a traverso la bufera del fuoco,
bianco sul suo cavallo agile come
un tigre dómo, non simile ad un uomo
fragile ma simile ad una forza
730onnipresente espressa dalla lotta
stessa dei fati e degli uomini, incontro
ai giovinetti venne il Liberatore.
Muto trascorse lungh’esse le coorti
adolescenti come fa il nembo sopra
735le spiche ma l’anime ch’ei piegò
col suo gran soffio parvero dall’angoscia
risollevarsi moltiplicate. Gli occhi
erano intenti a lui; e con un solo
sguardo ei toccò le anime come un solo
740baleno tocca le innumerevoli onde.
“Avanti!„ allora gridò l’immensa voce.
Ed il cavallo a un tratto s’arrestò
come un torrente precluso che si copre
di schiume. Calmo il cavaliere biondo
745parve più alto, signore delle sorti,
sicuro. Spessi fischiavangli d’intorno
gli obici senza toccarlo; orrido scroscio
facean su i muri del Vascello; talora
sordi facean nella legione un solco
750ove spariva qualche silenzioso
capo atterrato. Si protese, raccolse
il puro sogno dei giovinetti morti
nella sua voce che fu pei vivi come
la melodia della materna Roma.
755“Giovani, avanti, ché vinceremo anche oggi!„
Non con lo sprone ma col suo grande cuore
ei sollevò il suo cavallo a volo:
nel balzo il bianco mantello palpitò L’ala della Vittoria
come la bianca ala della Vittoria.
760Il giovenile grido coperse i tuoni
del monte, dietro il galoppo senza orma.
Nella fumèa del vespro, intorno a Roma,
erano ovunque la ruina e la morte.
Ma chi morì, morì vittorioso.
XIX.
il Dittatore. Arde tra le apparite
stragi, nel grido dei magnanimi figli.
Arde, in silenzio, della sua febbre antica.
E la grandezza di ciò che fu compito
770s’alza e sovrasta alla notte sublime.
“Ah non invano! Ah non invano!„ dice
la sua speranza. “Non invano moriste,
o dolci figli, latin sangue gentile!
Altra rugiada aspettan le gramigne
775dell’Agro, e avranno altra rugiada, prima
che sorga l’alba della novella vita.
O Madre, e quel che ti daremo vinca La promessa
di santità quello che t’offerimmo.
Pur t’offerimmo quel ch’era in noi divino.„
780Ed ecco ei tende la mano, come chi
promette, ei tende la mano che spartiva
le sue semente con la saggezza antica,
la man che già seminò, che al mattino
seminerà là dove fu il granito.
785Per testimone ha l’anima sua. Dice:
“Verrò, verrò. Là donde mi partii
ritornerò.„ La trista dipartita
ripensa: il luglio torrido; le milizie
raccolte in piazza, mute sotto il meriggio
790muto, al conspetto del Vaticano inviso,
come le statue dei portici; il sorriso
che gli sgorgò dai precordii alla vista
della coorte adolescente; Iddio
nei cieli azzurri, il silenzio infinito,
795l’orazion piccola “Io offro a chi
mi vuol seguire fame sete fatiche
combattimenti e morte„; poi l’uscita Da Roma alla Palude
da San Giovanni, tutto il popolo afflitto
che lacrimava e le Trasteverine
800accorse in gara che spargevano i gigli
sotto il cavallo dell’eroina Anita
a San Giovanni, il sordo calpestio
in notte chiara su la Via Tiburtina
con la grande ombra di Roma che seguiva
805i legionarii, la sosta su la cima
nuda, l’estremo sguardo, l’estremo addio
alla Città già in mano del nemico;
e poi la corsa di confine in confine
per monti e valli, l’arrivo a San Marino,
810al bel Titano, con la sua schiera esigua
sfuggita a quattro eserciti, la fine
dell’alta guerra, il Mare, l’accanito
inseguimento per le selvagge rive,
per le paludi febbrose, l’agonìa
815della sua donna sotto il sole maligno,
il disperato remeggio verso il lido
di Chiassi, il dolce corpo su l’erbe arsicce
morente; poi l’abbandono improvviso
sopra la Costa di Paviero, il supplizio
820feroce, il caro corpo non seppellito
nella calura lùgubre l’infierire
di tutti i mali contro l’anima invitta.
“O Madre, e quel che ti daremo vinca
di santità quello che t’offerimmo„
825dice l’Eroe che seppe ben patire.
Per testimone ha l’anima sua. Dice:
“Verrò, verrò. Là donde mi partii
ritornerò, Madre, per ben morire.„
XX.
830atto di fede e in quell’offerta. Il giusto
seminatore, innanzi ch’ei s’induca
al meritato sonno, innanzi ch’ei chiuda
gli occhi da tanta visione consunti,
getta il buon seme del dolore futuro.
835Ascolta il vento, esplorator notturno
che indaga gli antri, che visita le rupi,
che parla e poi tace, tace e poi rugge.
Pensa il piloto: “Reca lungi l’augurio
tu che ben sei vento italico, più
840nostro che ogni altro, Maestrale, robusto Invocazione al Maestrale
tenditor di vele latine, duro
scotitor di latine selve, tu
che tra Ponente e Borea spiri, giù
dalle Alpi insino al Peloro, per tutta
845la Italia e segui l’Apennino e le punte
dei promontorii tutte sul mare giungi
in libertà, Maestrale, tu lungi
in questa prima notte reca il saluto
dell’uomo a quella che sta nella pianura
850oltre Argentaro, nell’Agro taciturno
che divorò le stirpi, e l’assicura
che a lei pensò l’uomo quando la prua
sciolse da Quarto, ed a lei quando fu
presa la riva, e sempre in ogni pugna
855a lei, dal Pianto dei Romani, laggiù,
da Gibilrossa, dal Faro, dal Volturno.
E, come attende l’uomo, tu l’assicura
che a lei verrà se pur sempre all’autunno
segua l’inverno e dall’inverno surga
860la primavera. Intanto ei veglia e scruta.„
Così promette il piloto di altura
e di rivaggio, l’uomo tirrenio, instrutto
di sapienza pelasga, che misura
senza fallire con l’occhio l’azzimutto
865e su la linea di fede sa condurre
il suo naviglio con bussola vetusta,
col buon pinàce di manico sicuro,
privo dell’ago, dell’ago che si turba
strepita impazza smarrisce sua virtù.
870“Andremo a poggia e all’orza. Orza di punta!„
pensa il piloto. E il sorriso si schiude
nel suo oro. “Alle mure dei trevi! Mura!„
Silenzioso ride: pensa la susta Il buon piloto
che tiene a segno l’antenna latina. Una
875minaccia arguta par che il suo riso aguzzi.
Ei sa che avrà vento traverso, buffi
di vento obliquo; ma sa come si muri.
E crolla il capo incolpevole. “Orsù
via, che domani si semina!„ Nel suo
880pensiero ondeggia di biade il sasso brullo.
S’accosta al letto placido ove il lin rude
par che di sale odori, male asciutta
vela che quivi posi dalle fortune.
Il sacco è a piè del letto; l’arme luce
885su l’origliere: il sogno eterno illude
quella divina anima di fanciullo.
XXI.
ode un belato. Belare ode un agnello
forse smarrito nelle rupi deserte;
890per la notte ode una voce innocente
che chiede prega geme trema si perde.
Già sollevato in sul cubito, teso
l’orecchio, ascolta nelle pause del vento.
La voce trema prega geme. “È un agnello
895smarrito; cerca la madre.„ E balza in piedi
il Dittatore. Indossa le sue vesti,
rapido come allor che il pro’ Daverio
il tre di giugno entrò dov’ei giaceva
pesto e ferito, urlando “La bandiera!„
900Durano affé i buoni usi di guerra,
se bene tace la diana, a Caprera.
Anche allora brillavano le stelle.
Il Dittatore cammina contravvento.
A quando a quando sosta, tende l’orecchio
905se mai distingua, tra i colpi del maestro,
sopra gli schianti della risacca, il segno
di quel belare. Conosce dall’altezza
dell’Orse l’ora. Tutto il cielo è sereno.
Le sette Guardie tramontan sul Tirreno.
910Il buon piloto mira le chiare stelle
dei marinai, le dolci Gallinelle
sul collo al Toro, nell’ala pegasèa
Markab, in bocca al Cane Sirio ardente,
e su la spalla d’Orione Adhaèr,
915e Vega e Arturo e Canòpo e la Perla.
D’antico tempo or gli sovviene. Regge,
nella memoria, col pollice l’anello
dell’astrolabio e studia come ascenda
un astro e come si colchi, nel silenzio
920dei mari. Gira sul capo il ciel sereno.
L’isola acclive è come una galèa
grande che sola navighi verso terre
lontane. Il vento cade. Ed ecco l’agnello
chiama la madre nelle rupi deserte:
925s’ode la voce che trema prega geme.
“O creatura di Dio, dove sei persa?„ Il buon pastore
Ed ecco un che di bianco, un che di lieve
nell’ombra, come una falda di neve
intiepidita da una pena vivente.
930L’uomo si china verso la pena, sente
il vello, prende con le mani leggiere
la creatura di Dio, l’alza, la tiene
fra le sue braccia, l’accoglie sul suo petto.
Non fu pastore ei forse? Gli sovviene
935d’antico tempo quando migrò col gregge
alle pianure su l’ampia orma paterna,
quando di fuochi notturni cinse il gregge,
fatta la sosta intorno alla cisterna.
L’anima sua ora è come la terra,
940è come il mare, è come il firmamento,
come la forza delle stirpi guerriere
e pastorali che nel cominciamento
furono, come la verginità fresca
del primo sguardo che dalla cosa espresse
945il mito, come la meraviglia ingenua
animatrice che d’ogni cosa fece
una bellezza e la favola breve
dell’uom fallace converse in gioia eterna.
XXII.
950alla sua casa, portando nelle braccia
la creatura che tuttavia si lagna,
che chiama chiama, che chiama la sua madre.
Il vento cade, il mare s’abbonaccia,
il ciel s’imbianca. Ei sente nella faccia
955pungere l’uzza mattutina, e la guazza
piovere sente su l’oro della barba
che si confonde con quella dolce lana.
“O creatura, non posso io darti latte„
dice il pastore sorridendo al belato
960che non si placa. “Tu chiami la tua madre.
Dove sarà ella? Molto lontana?
E veggo già che s’avvicina l’alba;
sicché non giova tornare alla mia casa;
ma giova a te avere la tua madre
965che anche ti chiama, che ha la poppa gonfiata
di molto latte che tu ti beverai.„
Ed ei si gode nel suo cuore piegando
a un’altra via, però che bene ei sa
la via del chiuso ove la greggia scarsa
970attende l’ora della pastura. L’alba L’ovile
stampa nel ciel le sue dita rosate
quando all’ovile giunge, all’ovile fatto
di schiette pietre che scelse di sua mano
e poi commesse e legò con la calce
975e vi coprì tutto il tetto di lastre
pulite ed anche vi fece di legname
sodo la porta, come artiere d’ogni arte
ch’ei fu, che sempre sarà finché le braccia
gli reggeranno. Or, mentre giunge, il cane
980lo riconosce come riconobbe Argo
sul concio il dire del molto travagliato
Odisseo; sì lo riconosce il sardo
mastino, forte, fulvo, e balzagli innanzi
e gli fa festa. Ma, dal chiuso, al richiamo
985della deserta creatura la madre
risponde. Senza indugio il pastore apre
la porta e càuto depone al limitare
di pietra il redo che, su le oblique zampe
lanose, come un infante traballa,
990bela dal roseo muso, per l’ombra calda
saltella in cerca della poppa gonfiata.
Chino alla porta, dell’avido poppare
si gode l’uomo incolpevole; è pago;
ché buono ei stima l’odore della calda
995lana nell’uzza che punge aspra di sale,
e invero sol gli rincresce d’un pane,
d’un pan che manca alla sua lieta fame
sì mattutina. “Ecco che è fatta l’alba. Il vincastro
Riconterò le mie pecore.„ Taglia
1000una verga, entra nel chiuso, e caccia il branco.
Nitrire i suoi cavalli di battaglia
ode all’aperto. Respira: “Oh Libertà!„
Poi, sufolando ne’ modi della Pampa
e dell’Oceano, pascola verso il mare.