< Elettra (D'Annunzio)
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La notte di Caprera
A uno dei Mille Canti della morte e della gloria



LA NOTTE DI CAPRERA.

I.

D
ONATO il regno      al sopraggiunto re,

il Dittatore      silenziosamente
sul far dell’alba      con suoi pochi sen viene
alla marina      dove la nave attende.
5Ei si ricorda      nell’alba di novembre:
quando salpò      da Quarto era la sera,
sera di maggio      con ridere di stelle.
Non vede ei stelle      ma l’alta accesa gesta
dietro di sé      nella stagion sì breve.
10Ei seco porta      un sacco di semente. Il sacco di semente
Quella è la nave      che all’acque di Sardegna
già navigò      dal Faro in gran segreto
per il soccorso,      innanzi ch’ei prendesse
Reggio ed i monti,      innanzi che Soveria
15fossegli resa,      quando le nuove schiere
precipitò      nella Calabria estrema
e duce fu      alle armi, alle carene
fu calafato,      fu mastro d’ascia, artiere
d’ogni arte, pronto      ei sempre alla diversa
20necessità      con volto sorridente.
Donato il regno      al sopraggiunto re,
ora sen torna      al sasso di Caprera

il Dittatore.      Fece quel che poté.
E seco porta      un sacco di semente.

II.

A
NCORA dorme      la città che ululò

d’amor selvaggio      all’apparito Eroe
nel bel settembre.      Emmanuele dorme
là nella reggia      ove tanto tremò
l’erede esangue      di Ferdinando. Implora
30Dominedio      Francesco di Borbone
chiuso in Gaeta      con la sua fulva donna,
con l’aquiletta      bavara che rampogna.
“Calatafimi!      Marsala!„ Chiama a nome I cavalli di guerra
i suoi cavalli      di guerra il Dittatore,
35novo nell’alba,      gli arabi suoi sul ponte
recalcitranti      al vento che riscuote
il Golfo. Palpa      le lor criniere ondose
che sanno ancor      d’arsiccio, le lor froge
palpa, e le labbra      frenate onde fioccò
40la spuma come      neve su i moribondi.
Ed ei li pensa      lungi, franchi del morso,
per le ferrigne      rupi; e dice: “Anche a voi
la libertà!„      Quella divina voce
odono i due      cavalli che hanno i nomi
45delle Vittorie      e lui guatan con occhi
di fanciulli, ecco,      obbedienti. Sorge

l’aurora. È pronta      la nave. Il Dittatore
delle tempeste      grida: “Salpa!„ L’alta onda
del dominato      Oceano gli torna
50nella memoria      e nella voce. Scioglie
l’ultimo capo      dell’ormeggio allor con
atto che par      santo al devoto stuolo.
L’anima già      per l’acque si diffonde
simile al dì.      Ripete ei la parola
55che consolò      i suoi laceri prodi:
“A Roma, a Roma      ci rivedremo! A Roma!„
Bello non è      come il raggiante volto
del donator      di regni il novo Sole.

III.

E
D or sen va      il Ligure pel suo

60Tirreno. Guarda      vigile, dalla prua
che non ha rostro,      se non vegga la rupe Il ritorno all’isola rupestre
brulla apparir      tra i nugoli; o seduto
resta sul sacco      delle semente a lungo,
tutto pensoso      della seminatura
65nei magri solchi      e delle sue lattughe
anco e de’ suoi      magliuoli e de’ suoi frutti.
Novera già      col pensier nel suo chiuso
la scarsa greggia,      e le lane valuta,
i negri velli      ed i candidi, cui

70non mai segnò      la robbia; alla futura
prole sorride,      e allarga la pastura
sopra il macigno.      In quale tempo ei fu
pastore? Quando      migrò con la tribù
su le grandi orme      dei padri alle pianure?
75Quando agli armenti      cinse i fuochi notturni,
fatta la sosta      presso la fonte pura?
Mondo di strage,      ei beve il vento. I flutti
crespi e canuti      accorrono ver lui
come le bianche      pecore per l’azzurra
80erba; ed ei sa      il suono che le aduna.
D’antico tempo      gli sovviene. Di tutto
quel che fu ieri      non gli sovviene più.
Apre così      le braccia la Natura
subitamente      al buono figliuol suo
85per riposarlo,      sopra il suo petto ignudo,
di tanto sangue      e di tanta ventura.
E il figlio a lei      così volge dischiusa
la sua divina      anima di fanciullo.

IV.

M
a ecco l’ombra      di Caprera. Ecco l’aspra

90Gallura, i monti      aerei nell’aria. Il granito sepolcrale
Ecco il granito      ov’ei riposerà.
Ecco la tomba      che gli lavorerà

l’arte del Mare.      Come in petrose tazze,
nei grembi cavi      l’isola solitaria
95serba il silenzio      ch’è bevanda al pugnace.
Quivi placato      nella sua verità
ei può sognare;      né quel silenzio mai
gli mancherà,      sopra il fragor del Mare.

V.

O
r liberati      i cavalli di guerra

100(ei palpitò      forte veggendo selci
risfavillar      sotto l’urto del ferro,
udendo su      per le rupi deserte
eco del gran      galoppo senza freno)
or nella bianca      stanza è solo con sé
105il Dittatore,      solo con sé fedele.
Guarda le bianche      mura ch’ei fece, artiere
d’ogni arte, dopo      che preso e difeso ebbe
quelle di Roma.      È senza mutamento
la povertà,      è senza mutamento
110la pace. Il sacco      delle semente è a piè
del letto. L’arme,      disopra l’origliere,
al vacillar      della lucerna splende.
Palpita e guizza      la fiammella. È gran vento Il maestrale
alle finestre,      gran vento di maestro
115sul mar che romba      nelle anse di Caprera,
grande clamore      a quando a quando, immenso

grido, selvaggio      urlo come a Palermo,
come a Palermo      urlo di popolo ebro.
“O cuore, balzi?      Placato ancor non sei?„
120L’Eroe sorride;      ma gli occhi del veggente
veggono il sole      su la città che ferve
colui che parla      e l’ultimo suo gesto,
il furibondo      palpito che solleva
tutto quel muto      popolo come un petto
125immortale, e      tutto il sangue repente
sparir dai volti      innumerevoli, e
tutte le bocche      urlanti, tutte le
mani distese      in alto alla ringhiera;
Piazza Pretoria      fatta dal travincente
130amore vasta      come l’Italia intera
l’anima d’un      popolo fatta un cielo
di libertà,      eguale al giorno ardente;
una bellezza      nuova per sempre accesa
nel triste mondo,      un’imagine eterna
135di gloria impressa      nel vano velo, eretta
un’altra cima,      ala data alla Terra!

VI.

O
CUORE, balzi?      Non sei placato ancóra?„

L’Eroe sorride;      ma si tocca la fronte
ove in quel dì      battevan forte il sole

140siciliano e      il vento dell’ignoto
destino e il suo      volere. Poi s’accosta
al bianco letto      che dà i profondi sonni, Il letto
ove il lin rude      par che di sale odori
(lavato in mare      e torto su lo scoglio?)
145ma il cuore è insonne,      riposare non può.
Ei crolla il capo      e dice: “Spartirò
le mie semente.„      Si china; piano scioglie
la bocca al sacco;      e ripone la corda.

VII.

S
EDUTO sta;      le sue semente ei sparte,

150faville d’oro      dall’una all’altra mano.
Sparte e col soffio      ventila come fa
esso il colono      che non mai fece altra arte. Il colono
La man non falla      quando l’occhio s’inganna:
sa come pesi      nella palma il buon grano.
155Tenne la spada      ed or terrà la marra.
Mezzo novembre      avran repente e chiaro
l’opre, poiché      non anco Aldebarano
sorse dal mare      ed ecco il Maestrale
porta il sereno      a chi vuol seminare.
160“O cuore, o cuore,      entra nella tua pace!„
Gli àlbatri intorno      soli rosseggeranno,
cui tolta fu      la terra lavorata.
“Guardiamo innanzi,      all’alba che verrà!„

Chino la fronte,      le sue semente ei sparte,
165faville d’oro      dall’una all’altra mano.
“Ciò che compimmo      altri lo canterà.„

VIII.

M
A la grandezza      di ciò che fu compito

s’alza e sovrasta      alla notte sublime, I Mille
sovrasta al cuore      di colui che ha sorriso,
170occupa la      solitudine, vince
la pace, infiamma      l’ombra; non ha confine
in breve nome.      O Italia, i Mille, i Mille!
Ali fulminee      delle Vittorie latine,
rapidità      della forza e dell’ira
175su le riviere      del sangue, alte e succinte
vergini d’oro,      messaggere vestite
di vento, immenso      amor di Roma, chi
si chiamerà      fra voi l’eguale di
quella che un volo      su da Calatafimi
180sino al Volturno      volò senza respiro
e dissetò      la sua gran sete alfine
sol nelle vene      di Leonida ucciso
un’altra volta?      Pianto alla Porta Pila,
silenzioso      pianto alla dipartita,
185coro di donne      liguri! Ultimo addio
di ferree madri      ai giovinetti figli!

Divinità      rivelata nei cigli
umani e primo      tremito delle prime
stelle nel puro      cielo primaverile!
190Più dolce maggio      in terra non fiorì.
Navi sospinte      nel mare dal respiro
stesso dei petti      eroici, dal destino
e dalla febbre,      dalla speranza invitta
e dal prodigio,      piene di melodìa
195e di ruggito,      nell’oscuro periglio
illuminate      dai baleni d’un riso
silenzioso,      con la prora diritta
a gloria e a morte,      a un punto e all’infinito!
Rapida gioia      de’ bei delfini amici
200nel solco, méssi      d’un rinnovato mito!
Stelle augurali      dell’Orsa al grande ardire,
accesa in cielo      bandiera del naviglio!
Più alto sogno      in Dante non salì.

IX.

C
HINO la fronte,      sparte le sue semente

205il Dittatore,      sotto la sua lucerna
che per le mura      d’ombre e di luci crea
notturne vite      coi lunghi aliti della
notte. È gran vento      alle finestre: geme,
sfida, minaccia,      rugge, ulula, intermesso.
210La man nell’atto      a quando a quando trema.

Fissi alla gesta      son gli occhi del veggente.
L’anima eterna      è cinta di baleni.
Ei vede, ei vede      il patrio mare ardente,
i suoi vascelli      nel fulgido silenzio Le navi eroiche
215misteriosi      come due giganteschi
spiriti, fatti      leggieri dall’ebrezza
che vi s’aduna,      dal sogno che vi ferve,
come le navi      dei templi dalla prece:
e il primo approdo,      Telamone col segno
220dell’Argonauta,      le odorifere selve
dell’Argentaro,      la pallida Maremma
tinta del sangue      gallico, ove raccese
Mario la febbre      di Minturno ed il ferro
trasse dal piè      degli schiavi, ne fece
225spade battute      per la strage crudele.
E l’altro monte,      e l’altro monte ei vede,
l’Erice azzurro,      solo tra il mare e il cielo
divinamente      apparito, la vetta
annunziatrice      della Sicilia bella!

X.

230
E
D ora tutto      è baleni, ora tutto

folgori e tuoni,      furore e sangue, azzurro
e sole, ferro      e fuoco, aure e profumi.
L’inno è nel vento,      l’ebrezza nell’arsura. L’approdo

Ei squassa l’aspre      chiome della fortuna
235in pugno e fa      d’ogni uomo una virtù,
una virtù      d’ardore ch’ei conduce
col suo sorriso      terribile nell’ultimo
impeto al cuor      d’un astro. E l’armatura
della sua possa      è il suo sorriso; e ovunque
240risplenda, quivi      è il prodigio; e nessuno
lo vede senza      vedere un dio nel suo
cielo; e beato      colui, quasi fanciullo,
che primamente      lo vede nella luce
e tra le spiche      ucciso cade giù.

XI.

245
O
VERITÀ      cinta di quercia, quando

canterai tu      per i figli d’Italia,
quando per tutti      gli uomini canterai
tu questo canto?      Ecco il pane spezzato
sotto l’olivo,      prima della battaglia;
250ecco irto d’armi      il colle di sì grande
nome, nomato      il Pianto dei Romani, Le sette Vittorie
aspro di sette      cerchi, balzo di Dante,
per ove gridan      come stuol di selvagge
aquile sette      Vittorie disperate;
255Alcamo in festa,      Partinico fumante;
l’avida sosta      della falange, al Passo
di Renna, in vista      della Conca e del Mare;

la sete, la fame;      la corsa verso Parco
nella tempesta      e nella notte, inganno
260meraviglioso;      la montagna affocata
di Gibilrossa      ove ecco ogni uomo par
che trasfiguri      come se oda parlare
una divina      voce alla sua speranza;
e la discesa      muta di sasso in sasso,
265per gli arsi aromi,      lungo le schegge calde,
mentre la sera      coi richiami lontani
de’ suoi pastori      e coi suoi flauti fa
la melodìa      dell’obliata pace;
e poi la notte      vigile di fatali
270stelle; e poi l’alba,      e nell’alba il tonante
impeto, l’urto,      la furibonda strage,
l’inferno al ponte      dell’Ammiraglio; il maschio
Nullo a cavallo      oltre la barricata
con la sua rossa      torma, ferino e umano
275eroe, gran torso      inserto nella vasta
groppa, centàurea      possa, erto su la vampa
come in un vol      di criniere; il grifagno
Bixio, il risorto      Giovanni delle Bande
Nere, temprato      animato metallo,
280voce a saetta,      sottil viso che sa
la cote come      il filo d’una spada
laboriosa,      ossuta fronte salda
come l’ariete      che dirocca muraglie,

eccolo all’opra      che balza da cavallo
285per trarsi il piombo      con le sue stesse mani
fuor delle fibre      tenaci; ecco espugnata Palermo espugnata
la Porta, data      la rotta alle masnade
regie col ferro      alle reni; le strade
ancor nell’ombra,      deserte; la città
290ancor dormente,      e la prima campana
che suona a stormo      verso l’aurora alzata
su Gibilrossa;      Fieravecchia che batte
già colma come      un cuor che si rinsangua;
Macqueda sotto      la grandine mortale;
295Montalto ai regi      tolto dallo spettrale
Sirtori; atroci      strida, crollar di case,
rossor d’incendii;      la morte che s’ammassa
nella ruina;      l’afa delle carni arse,
il cielo azzurro      su l’urlante fornace;
300e il Dittatore      terribile che passa,
il Dittatore      sorridente con pace
tra quel delirio      umano, il dio che guarda,
indubitata      forza, con nella faccia
il sole, il sole      del sorriso eternale.
305Gloria per sempre!      Ecco Palermo schiava
che si risveglia      giovine tra le fiamme,
che si solleva,      memore della Gancia,
nella vendetta      e nella libertà.


XII.

S
OTTO l’immensa      gloria chino la fronte,

310il Dittatore      onniveggente è immoto.
Nel sacco rude      la sua mano s’affonda
e inerte sta,      immemore dell’opra.
Or è interrotta      l’opra del buon colono.
Ei più non vede      rilucere pe’ solchi
315le sue semente,      né ribatte le porche
ei con la marra      in suo pensiero. Ascolta
il vento e il mare      nella notte profonda.
Ascolta il rombo      del suo spirito solo.
Non ei toccò      la cima di sua sorte?
320Non proferì      la sua più gran parola
quando a quel re      sopraggiunto donò
il regno e solo      poi si ritrasse all’ombra
d’un casolare,      lungi alla bella scorta,
sol con taluno      de’ suoi laceri prodi?
325Triste è la bocca      nella sua barba d’oro,
ché le sovvien      del molto amaro sorso.
Era laggiù,      presso Teano, incontro
ai foschi monti      del Sannio, il donatore;
seduto all’ombra      era, su vecchia botte
330non più capace      di contener la forza
del vin novello.      Era l’autunno intorno;
ammutolito      sul Volturno il cannone;

piegata e rotta      la gente di Borbone
sul Garigliano;      scomparso con la scorta La meditazione all’ombra
335splendida il re      sul suo cavallo storno,
andato a mensa.      Era l’autunno intorno:
cadean le foglie      dal tremolio dei pioppi;
i campi roggi      fumigavano sotto
l’aratro antico      tratto dai bianchi buoi
340campani cui      rauco urgeva il bifolco
fasciato le anche      dal vello del montone,
coperto il bronzeo      capo dal frigio corno.
Antiche e grandi      eran le cose intorno;
antico e grande      era il cuore dell’uomo
345seduto in pace      su la fenduta botte.
Ognun taceva      al conspetto dell’uomo
meditabondo.      Quasi era a mezzo il giorno:
era il meriggio      muto come la notte.
Ognun taceva,      ogni anima era prona
350dinanzi a lui,      col silenzio che adora
e riconosce:      alta preghiera in ora
che parve a ognuno      scorrere per ignota
profondità.      E il forte elce nodoso,
che negreggiava      quivi, fu santo come
355i dolci olivi      dell’orto ove pregò
tre volte un altro      uomo di fulve chiome.
E il donatore,      seduto su la doga
vile, crollò      la testa di leone.

Calmo guardò      pei fumi il campo roggio,
360col calmo sguardo      cerulo che soggioga
il rischio; udì      l’anelito dei buoi
affaticati      per quelle terre sode;
seguì un aratro      che discendea da un poggio,
considerò      se fosse dritto il solco
365dietro l’attrito      vomere. Anche ascoltò
la lodoletta      che facea sua melode.
Venne per l’aria      il suono d’un rintocco. Il banchetto del Vincitore
Allor fu quivi      recato da un pastore
giovine irsuto      di pelli, sopra un moggio,
370al donator      di regni un duro tozzo
di pane, e cacio      stantìo, di grave odore.
Aveva ei seco      il suo coltello a scrocco,
il suo coltello      di marinaio, ancóra
raccomandato      alla sua vecchia corda;
375l’aperse pronto,      con quello s’affettò
il pane e il cacio.      Maciullando, guardò
l’aratro antico      tratto dai bianchi buoi,
e giudicò      del dritto solco; poi,
come il più duro      non passava pel gozzo,
380chiese da bere      sorridendo al pastore.
Allor fu quivi      recato in un orciuolo
al donator      di regni acqua di pozzo.
Avido ei bevve,      accostatosi il rozzo
vaso alla bocca,      ma la bocca schifò.

385L’acqua putiva,      come d’un otro immondo.
Senza sdegnarsi      ei versò l’acqua al suolo.
Poi s’asciugò,      tranquillo; e disse: “Il pozzo
è infetto. Certo,      v’è una carogna al fondo.„
S’alzò nel detto;      e andò pei campi solo.

XIII.

390
O
R si ricorda      ei ben del sorso tristo;

e il cuor gli duole      d’un lento presagire
(riarderà      l’agosto su le cime
dell’Aspromonte      torbido, e di vermiglie
bacche il novembre      allegrerà le infide
395macchie a Mentana).      Ei vede il buono Elìa
col piombo in bocca      laggiù su la collina
dei sette cerchi;      e laggiù sul sottile
istmo, a Milazzo,      entro i maligni intrichi
delle paludi      e dei canneti, ritto
400il suo Missori      bellissimo che uccide
i cavalieri.      Ode il grifagno Bixio
che nel più folto      della mischia gli grida:
“Dunque così      voi volete morire?„ L’alfiere titanico
Subitamente      Deodato Schiaffino,
405quel da Camogli,      il biondo, gli apparisce:
il marinaio      biondo che gli somiglia,
occhi cilestri,      d’oro la barba e il crino,
ma più membruto,      più alto, d’una stirpe

ingigantita      nel travaglio marino.
410Subitamente      gli apparisce supino,
a mezzo il colle,      nel sangue che invermiglia
tutto il pianoro.      È caduto così
l’alfiere, primo      all’assalto. Garrisce
dopo lo schianto      la bandiera investita,
415come da un vento      d’ira, dal grande spiro:
e sul torace      come sur un macigno
fanti e cavalli      s’azzuffano in prodigi
di furia, e tutta      la virtù dell’estinto
ecco risorge      viva in un cuore vivo,
420ed è il torace      dell’eroe come un plinto
alla grandezza      d’un altro eroe. “Così
dunque volete      morire?„ Un leonino
fremito scuote      il Dittatore. Ei mira
sé nel gigante      biondo che gli somiglia,
425nel marinaio      ligure che morì
com’ei vorrebbe.      Cupo aggrotta le ciglia;
con gli occhi fissi      interroga il Destino.

XIV.

E
DALLA morte      sorge l’ombra di Roma.

Come il pastore      dell’Agro spaventoso
430nel ferin sangue      porta germe nascosto
d’antica febbre      che sùbita riscoppia L’ombra di Roma
mentre di sotto      l’arco dell’acquedotto

inaridito      ei guata fuggir l’ora
su l’erba e sta      con l’anima gravosa
435ch’ebbe immutata      per geniture molte
dal tempo quando      con solfo e con alloro
Pale odorava      la pecora feconda:
conosce il segno      del vigile malore,
conosce il gelo      che in foco si risolve;
440dà la sua vita      alla vorace forza:
ed ei ben sa      ch’ella non abbandona
se non l’ossame,      e guata fuggir l’ora
per l’erba e sta      con l’anima gravosa
e brucare ode      la pecora d’intorno:
445così l’insonne      sente dal più profondo
sangue salir      la febbre sacra, il morbo
divino, ardore      immedicabile, odio
ed amore ambi      indomati, onde il corpo
arde e la mente,      sacra febbre di Roma,
450ultima vita      terribile del suolo
esercitato      dai padroni del Mondo.

XV.

E
I lo conobbe      come conosce il figlio

il sen materno,      conobbe il suol latino
come colui      che alla mammella antica L’Agro
455s’abbeverò      con sete di giustizia.
Vi giacque armato,      sotto il seren d’aprile,

e di rugiada      nell’alba si coprì.
Vi colse il fiore      dell’asfodelo; misti
alle fresche orme      vi rinvenne i vestigi
460dei Fabii; v’ebbe      a ginocchio il nemico;
vi fu calpesto      dai suoi nello scompiglio,
dai cavalieri      suoi fuggiaschi, ferito
dall’unghie dure,      di polve e sangue intriso,
tremenda impronta,      quando del cuore invitto
465impedimento      al terrore improvviso
ei fece solo      e là, prono, col viso
nella carraia,      baciò la madre, vivo
oltre la morte,      e nel fragor sinistro
l’urlo supremo      della sua Lupa udì.

XVI.

470
O
VERITÀ      cinta di quercia, quando

canterai tu      per i figli d’Italia,
quando per tutti      gli uomini canterai
tu questo canto?      L’umano alito mai
più grandemente      magnificò la carne
475misera; mai      con émpito più grande Le trasfigurazioni
l’anima pura      vinse il carcame ignavo.
L’onta dell’uomo,      il corpo che si lagna
e trema, che ha      sonno, che ha sete fame
paura, che ha      orrore del suo sangue
480e delle sue      viscere, che si salva,

si cela, fugge,      cade, invoca pietà,
prega soccorso,      per soffrire si giace
e per morire      chiude gli occhi, la salma
pesante opaca      e fragile, la carne
485misera e impura,      l’onta dell’uomo schiavo,
veduta fu      sùbito trasmutarsi,
al nomar d’un      nome, in una sostanza
novella, armata      d’una vita tenace
e numerosa      come di germinanti
490membra e di vene      perenni, inebriata
di strage come      di allegrezza, agitata
con risa e grida      se molto era la piaga
vasta, se orrenda      era, come si squassa
una bandiera      superba a rincuorare
495stanchi e codardi.      Cantami, o Verità
cinta di quercia,      cantami questo canto!
Eccoti innanzi      le donne, ecco i vegliardi,
ecco i fanciulli:      le donne senza pianto,
senza vecchiezza      i vegliardi, a mortale
500gioco i fanciulli      con la morte che passa;
ecco guidato      a suon di trombe il ballo
dal buon Manara      sotto il colle tonante;
ecco il Masina,      con la sua schiera franca
di cavalieri      bolognesi, l’uom d’arme
505e di piacere,      ardentissima spada,
gioioso a mensa      come in campo, che già

tinto in vermiglio      ritorna al quarto assalto
per la Corsina      e sprona il suo cavallo
su la scalèa,      gli dà ferocia ed ali,
510colpito in petto      non fa motto né lai, Villa Corsina
vuota la sella,      stramazza, con le braccia
aperte e il ventre      prono sul sasso sta;
ed ecco i suoi      già pronti a dargli bagno
di grana e coltre      di porpora, le lame
515battute a freddo,      le lance di Romagna,
che per ammenda      di Velletri han pagato
un fiero scotto,      eccoli tempestare
su l’atterrato      per trar dalla battaglia
il corpo e dargli      sepoltura, gli eguali
520dei belli Achei      corazzati di rame
sul corpo di      Patroclo nato dal
cielo, del caro      al Pelìde compagno;
mentre dardeggia      la voce del grifagno
Bixio ferito      di piombo all’anguinaglia,
525voce di scherno,      che fischia sfonda e taglia
come la spada      che tronca gli è rimasta
nel pugno; e il fabro      d’inni Mameli, il vate
soave come      Simonide ceo, ma
più puro che      l’ospite di Tessaglia,
530guerreggiatore      laureato, sul franto
ginocchio cade      sorridendo; e di vasta
anima un altro      artefice, il lombardo

Induno, alfine      cade, giace forato
come selvaggio      bugno e per tanti varchi
535non la sua vasta      anima dà ma inganna Catalogo dei guerrieri
la morte, due      volte fatto immortale.
Ecco il Bronzetti,      ad altri campi sacro,
ad altro antico      esempio, che il suo caro
non abbandona      già sotto le calcagna
540nemiche ma      l’ardire e la pietà
di Niso ingenuo      innova; ecco il toscano
Masi, il Sampieri      veneto, ecco il lombardo
Vismara, il Bacci      piceno, l’apuano
Giorgieri, duci      e gregarii, il romano
545Spada, e Fulgenzio      Fabrizi umbro ammirando
al Ponte Milvio,      e il conte ravennate
Loreta, e il buon      Savoia mantovano,
e il buon Maestri,      il monco, il mutilato
di Morazzone,      e quel gentil Montaldi
550già cacciatore      al Salto e capitano
che navigando      laggiù pel guerreggiato
fiume fu solo      ed ebbe cento braccia
a sostener      con l’arme l’arrembaggio;
ecco l’Anceo,      il Silva, il Rodi, il Sacchi,
555il pro’ Daverio,      il Mellara, gli Strambio,
il più bel fiore      del sangue di Romagna
e di Liguria      e d’Umbria e di Toscana,
d’ogni contrada,      figli della montagna,

figli del piano,      figli del litorale,
560della città      e del borgo selvaggio,
il più bel fiore      fiorito dalle madri
nel vaticinio      della gesta fatale,
speranza e forza      della profonda Italia,
speranza che arde      e forza che combatte,
565dolor che ride      e giubilo che assale,
solenne ebrezza,      funebre voluttà,
il più bel fiore      fiorito dalle madri
potenti come      la terra che bagna
il fiammeo flutto      ond’è converso il latte
570robusto dato      con compagnia di canti;
e il Morosini,      e i Dandolo, sonanti
nomi nel bronzo      della gloria navale,
stirpe di dogi,      sangue republicano
che tinse già      di suo colore i fianchi
575delle galere,      il Mare Nostro, Candia,
la Morea, Nasso,      in cento assedii, e i sacri
marmi d’Atene      e l’oro di Bisanzio,
spoglie del Mondo      offerte alla Città.

XVII.

V
ILLA Corsina,      Casa dei Quattro Venti,

580fumida prua      del Vascello protesa
nella tempesta,      alti nomi per sempre
solenni come      Maratona Platèa

Crèmera, luoghi      già d’ozii di piaceri
di melodie      e di magnificenze
585fuggitive, orti      custoditi da cieche
statue ed arrisi      da fontane serene,
trasfigurati      sùbito in rossi inferni
vertiginosi,      chi dirà la bellezza
che in voi s’alzò      dalla ruina e stette L’astro sanguigno
590su l’Urbe come      terribile astro a sera?
chi canterà      la vostra grande sera?
Cadeva il dì      crudo su fuoco e ferro.
Tre volte e quattro      iterato per l’erte
scalèe l’assalto:      grado per grado, pietra
595per pietra, preso      e perduto e ripreso
e riperduto      il baluardo orrendo;
accumulati      i cadaveri a piè
degli agrifogli,      dei balaustri, delle
statue, delle urne;      fatto il pendìo riviera
600del sangue, cupo      bulicame di membra
lacere; acceso      l’incendio; alzato al cielo
impallidito      il clamore supremo
i Legionarii      ansanti, arsi di sete
e d’ira, armati      di tronconi e di schegge
605neri di fumo      e di polvere, belli
e spaventosi      parvero come quelli
che superato      avean l’uman potere
con la scagliata      anima (tale il segno

superato      è dal dardo veemente)
610e respiravan      dai lor profondi petti
piagati l’ansia      d’un miracolo ardente.
“Avanti!„ allora      gridò la voce immensa.
Erano questi      reduci dall’inferno
raccolti presso      le mura, tra il Vascello
615e San Pancrazio.      Ansavan come belve
cacciate innanzi      dal fuoco nelle selve
incendiate,      esausti, dalla sete
stretti le fauci;      e non avean da bere
se non sudore      e sangue. Ognun coi denti
620secchi mozzò      l’anelito, e si tese
per obbedire.      “Avanti!„ ripeté
la voce immensa.      Ed il bianco mantello
ondeggiò, come      l’onda delle bandiere, L’ultimo assalto
su gli aridi occhi.      S’udìa, contra il Vascello,
625spesso il nemico      tonar dalle trincere
della Corsina      come da una fortezza.
Perduta omai      l’altura; folle impresa
tentare un altro      assalto; tutta l’erta
spazzata; dubbio      giungere a mezzo; certa
630la strage. “Avanti!„      gridò la voce immensa
e pura come      il ciel di primavera
sopra le fronti      degli uomini promessi.
E comandò      agli uomini il portento.
“Orsù, Emilio      Dandolo, riprendete

635Villa Corsina!      Su, di corsa, con vénti
dei vostri prodi      più prodi, a ferro freddo!„
Ed il nomato      tremò nel cuore udendo
il nome suo      in bocca della stessa
Gloria. Caduto      eragli già il fratello
640su la scalèa,      spento. E disse: “O fratello,
teco verrò!„      Pronto, fece l’appello
dei morituri.      E la falange breve
mosse all’assalto      ultimo. Una gran febbre
allora parve      palpitare nel vespro,
645visibil come      l’ardore nei deserti
quando per l’aere      vibra incessantemente.
Sorse un clamore      terribile nel vespro,
terribil come      quel dei romani petti
che ferì l’aere      ed i volanti uccelli
650quando rostrata      salpò la quinquereme
di Scipione.      Videsi in alto un negro
stuolo di corvi      sbattere sul funesto
Gianicolo, ove      scendean le aquile un tempo
con i presagi.      E nel fuoco e nel ferro
655il fato della      Republica fu certo.
I morituri      la videro morente
nel sangue loro.      Un disse: “Vinceremo.„



XVIII.

V
ENIVA, senza squilli, in corsa, alla Porta

di San Pancrazio      la seconda legione
660lombarda, quella      dal Medici condotta
florida schiera      giovenile, corona
di Lombardia.      Il Vascello, dal prode La falange dei giovinetti
Sacchi difeso      fin quasi a mezzo il giorno,
quindi tenuto      da quel santo e feroce
665Manara cui      serbata era la gloria
di Villa Spada,      sosteneva il maggiore
sforzo nemico.      Fervida era già l’opra
degli approcci, era      imminente già il crollo
del fastigio, era      già degli uccisi ingombro
670tutto il palagio.      Or veniva al soccorso
Giacomo Medici,      incrollabile possa,
compatto bronzo      contra le sorti immoto.
Dalla Toscana      nel Lazio, senza colpo
ferire, avea      condotta la legione
675con disciplina      durissima, per prove
e patimenti      infiniti, veloce
e càuto, dando      per guanciale al riposo
la gleba o il sasso,      avendo giorno e notte
il rischio sempre      alle spalle, di fronte
680e ai fianchi come      dogo o molosso pronto
ad azzannare      senza latrato. Il sole,
il vento, l’erbe,      i torrenti, le rocce

aveangli fatta      selvaggia come un’orda
la bella schiera.      Ai giovini leoni,
685tutta la notte      nutriti dall’odore
della Campagna      sacra nel periglioso
cammino, Roma      era apparita in fondo
alla pianura      nella sùbita aurora
come una nube.      Ed un grido era sorto:
690“O Madre!„ Ed ogni      cuore in quella parola
s’era devoto,      con volontà di gloria;
e taluno ebro      avea sentito forse
nelle gramigne      rimaste fra le chiome
incolte il peso      mortale degli allori.
695Veniva or dunque,      senza squilli, alla Porta
di San Pancrazio      la seconda legione
lombarda. Ed ecco,      verso la Porta, incontro
a lei la fila      delle barelle atroce,
con i feriti,      con i morenti in mostra!
700Ed i feriti      ed i morenti, incontro
ai giovinetti      floridi, del dolore
fecero un riso      non umano. E coloro
che non avean      più pel riso la bocca
ma cave piaghe,      gittarono dagli occhi
705il lor baleno;      e taluno gittò Il battesimo
le bende intrise      discoprendo la coscia
tronca od il ventre      lacerato e gridò:
“Resti con voi      questo segno!„ Ed un monco

scosse ridendo      il moncherino come
710un aspersorio      di sangue e battezzò
gli imberbi. E tutti      ridevano di gioia
come fanciulli,      poiché la morte ai loro
terribili atti      mesceva un che di dolce,
una bontà      puerile, un candore
715di libertà      mai detto da parola
d’uomo né vinto      in terra; e di candore
splendevan essi      nel dissanguarsi in fondo
alle barelle      che penetravan l’ombra
di Roma fatta      più profonda dal rombo
720che il Campidoglio      spandea sonando a stormo.
Nell’ombra “Viva      la Republica!„ urlò
l’anima alzata      del coro moribondo.
E l’urlo sotto      la Porta rimbombò.
E la legione,      scagliata dalla Porta
725eroica, entrò      nella battaglia. Allora,
bianco a traverso      la bufera del fuoco,
bianco sul suo      cavallo agile come
un tigre dómo,      non simile ad un uomo
fragile ma      simile ad una forza
730onnipresente      espressa dalla lotta
stessa dei fati      e degli uomini, incontro
ai giovinetti      venne il Liberatore.
Muto trascorse      lungh’esse le coorti
adolescenti      come fa il nembo sopra

735le spiche ma      l’anime ch’ei piegò
col suo gran soffio      parvero dall’angoscia
risollevarsi      moltiplicate. Gli occhi
erano intenti      a lui; e con un solo
sguardo ei toccò      le anime come un solo
740baleno tocca      le innumerevoli onde.
“Avanti!„ allora      gridò l’immensa voce.
Ed il cavallo      a un tratto s’arrestò
come un torrente      precluso che si copre
di schiume. Calmo      il cavaliere biondo
745parve più alto,      signore delle sorti,
sicuro. Spessi      fischiavangli d’intorno
gli obici senza      toccarlo; orrido scroscio
facean su i muri      del Vascello; talora
sordi facean      nella legione un solco
750ove spariva      qualche silenzioso
capo atterrato.      Si protese, raccolse
il puro sogno      dei giovinetti morti
nella sua voce      che fu pei vivi come
la melodia      della materna Roma.
755“Giovani, avanti,      ché vinceremo anche oggi!„
Non con lo sprone      ma col suo grande cuore
ei sollevò      il suo cavallo a volo:
nel balzo il bianco      mantello palpitò L’ala della Vittoria
come la bianca      ala della Vittoria.
760Il giovenile      grido coperse i tuoni

del monte, dietro      il galoppo senza orma.
Nella fumèa      del vespro, intorno a Roma,
erano ovunque      la ruina e la morte.
Ma chi morì,      morì vittorioso.

XIX.

765
C
ON gli occhi fissi      interroga il Destino

il Dittatore.      Arde tra le apparite
stragi, nel grido      dei magnanimi figli.
Arde, in silenzio,      della sua febbre antica.
E la grandezza      di ciò che fu compito
770s’alza e sovrasta      alla notte sublime.
“Ah non invano!      Ah non invano!„ dice
la sua speranza.      “Non invano moriste,
o dolci figli,      latin sangue gentile!
Altra rugiada      aspettan le gramigne
775dell’Agro, e avranno      altra rugiada, prima
che sorga l’alba      della novella vita.
O Madre, e quel      che ti daremo vinca La promessa
di santità      quello che t’offerimmo.
Pur t’offerimmo      quel ch’era in noi divino.„
780Ed ecco ei tende      la mano, come chi
promette, ei tende      la mano che spartiva
le sue semente      con la saggezza antica,
la man che già      seminò, che al mattino
seminerà      là dove fu il granito.

785Per testimone      ha l’anima sua. Dice:
“Verrò, verrò.      Là donde mi partii
ritornerò.„      La trista dipartita
ripensa: il luglio      torrido; le milizie
raccolte in piazza,      mute sotto il meriggio
790muto, al conspetto      del Vaticano inviso,
come le statue      dei portici; il sorriso
che gli sgorgò      dai precordii alla vista
della coorte      adolescente; Iddio
nei cieli azzurri,      il silenzio infinito,
795l’orazion      piccola “Io offro a chi
mi vuol seguire      fame sete fatiche
combattimenti      e morte„; poi l’uscita Da Roma alla Palude
da San Giovanni,      tutto il popolo afflitto
che lacrimava      e le Trasteverine
800accorse in gara      che spargevano i gigli
sotto il cavallo      dell’eroina Anita
a San Giovanni,      il sordo calpestio
in notte chiara      su la Via Tiburtina
con la grande ombra      di Roma che seguiva
805i legionarii,      la sosta su la cima
nuda, l’estremo      sguardo, l’estremo addio
alla Città già      in mano del nemico;
e poi la corsa      di confine in confine
per monti e valli,      l’arrivo a San Marino,
810al bel Titano,      con la sua schiera esigua

sfuggita a quattro      eserciti, la fine
dell’alta guerra,      il Mare, l’accanito
inseguimento      per le selvagge rive,
per le paludi      febbrose, l’agonìa
815della sua donna      sotto il sole maligno,
il disperato      remeggio verso il lido
di Chiassi, il dolce      corpo su l’erbe arsicce
morente; poi      l’abbandono improvviso
sopra la Costa      di Paviero, il supplizio
820feroce, il caro      corpo non seppellito
nella calura      lùgubre l’infierire
di tutti i mali      contro l’anima invitta.
“O Madre, e quel      che ti daremo vinca
di santità      quello che t’offerimmo„
825dice l’Eroe      che seppe ben patire.
Per testimone      ha l’anima sua. Dice:
“Verrò, verrò.      Là donde mi partii
ritornerò,      Madre, per ben morire.„

XX.

O
R s’è placato      il cuore in quel suo puro

830atto di fede      e in quell’offerta. Il giusto
seminatore,      innanzi ch’ei s’induca
al meritato      sonno, innanzi ch’ei chiuda
gli occhi da tanta      visione consunti,
getta il buon seme      del dolore futuro.

835Ascolta il vento,      esplorator notturno
che indaga gli antri,      che visita le rupi,
che parla e poi      tace, tace e poi rugge.
Pensa il piloto:      “Reca lungi l’augurio
tu che ben sei      vento italico, più
840nostro che ogni altro,      Maestrale, robusto Invocazione al Maestrale
tenditor di      vele latine, duro
scotitor di      latine selve, tu
che tra Ponente      e Borea spiri, giù
dalle Alpi insino      al Peloro, per tutta
845la Italia e segui      l’Apennino e le punte
dei promontorii      tutte sul mare giungi
in libertà,      Maestrale, tu lungi
in questa prima      notte reca il saluto
dell’uomo a quella      che sta nella pianura
850oltre Argentaro,      nell’Agro taciturno
che divorò      le stirpi, e l’assicura
che a lei pensò      l’uomo quando la prua
sciolse da Quarto,      ed a lei quando fu
presa la riva,      e sempre in ogni pugna
855a lei, dal Pianto      dei Romani, laggiù,
da Gibilrossa,      dal Faro, dal Volturno.
E, come attende      l’uomo, tu l’assicura
che a lei verrà      se pur sempre all’autunno
segua l’inverno      e dall’inverno surga
860la primavera.      Intanto ei veglia e scruta.„

Così promette      il piloto di altura
e di rivaggio,      l’uomo tirrenio, instrutto
di sapienza      pelasga, che misura
senza fallire      con l’occhio l’azzimutto
865e su la linea      di fede sa condurre
il suo naviglio      con bussola vetusta,
col buon pinàce      di manico sicuro,
privo dell’ago,      dell’ago che si turba
strepita impazza      smarrisce sua virtù.
870“Andremo a poggia      e all’orza. Orza di punta!„
pensa il piloto.      E il sorriso si schiude
nel suo oro. “Alle      mure dei trevi! Mura!„
Silenzioso      ride: pensa la susta Il buon piloto
che tiene a segno      l’antenna latina. Una
875minaccia arguta      par che il suo riso aguzzi.
Ei sa che avrà      vento traverso, buffi
di vento obliquo;      ma sa come si muri.
E crolla il capo      incolpevole. “Orsù
via, che domani      si semina!„ Nel suo
880pensiero ondeggia      di biade il sasso brullo.
S’accosta al letto      placido ove il lin rude
par che di sale      odori, male asciutta
vela che quivi      posi dalle fortune.
Il sacco è a piè      del letto; l’arme luce
885su l’origliere:      il sogno eterno illude
quella divina      anima di fanciullo.



XXI.

O
R mentre giace,      sopra il vento intermesso

ode un belato.      Belare ode un agnello
forse smarrito      nelle rupi deserte;
890per la notte ode      una voce innocente
che chiede prega      geme trema si perde.
Già sollevato      in sul cubito, teso
l’orecchio, ascolta      nelle pause del vento.
La voce trema      prega geme. “È un agnello
895smarrito; cerca      la madre.„ E balza in piedi
il Dittatore.      Indossa le sue vesti,
rapido come      allor che il pro’ Daverio
il tre di giugno      entrò dov’ei giaceva
pesto e ferito,      urlando “La bandiera!„
900Durano affé      i buoni usi di guerra,
se bene tace      la diana, a Caprera.
Anche allora      brillavano le stelle.
Il Dittatore      cammina contravvento.
A quando a quando      sosta, tende l’orecchio
905se mai distingua,      tra i colpi del maestro,
sopra gli schianti      della risacca, il segno
di quel belare.      Conosce dall’altezza
dell’Orse l’ora.      Tutto il cielo è sereno.
Le sette Guardie      tramontan sul Tirreno.
910Il buon piloto      mira le chiare stelle
dei marinai,      le dolci Gallinelle

sul collo al Toro,      nell’ala pegasèa
Markab, in bocca      al Cane Sirio ardente,
e su la spalla      d’Orione Adhaèr,
915e Vega e Arturo      e Canòpo e la Perla.
D’antico tempo      or gli sovviene. Regge,
nella memoria,      col pollice l’anello
dell’astrolabio      e studia come ascenda
un astro e come      si colchi, nel silenzio
920dei mari. Gira      sul capo il ciel sereno.
L’isola acclive      è come una galèa
grande che sola      navighi verso terre
lontane. Il vento      cade. Ed ecco l’agnello
chiama la madre      nelle rupi deserte:
925s’ode la voce      che trema prega geme.
“O creatura      di Dio, dove sei persa?„ Il buon pastore
Ed ecco un che      di bianco, un che di lieve
nell’ombra, come      una falda di neve
intiepidita      da una pena vivente.
930L’uomo si china      verso la pena, sente
il vello, prende      con le mani leggiere
la creatura      di Dio, l’alza, la tiene
fra le sue braccia,      l’accoglie sul suo petto.
Non fu pastore      ei forse? Gli sovviene
935d’antico tempo      quando migrò col gregge
alle pianure      su l’ampia orma paterna,
quando di fuochi      notturni cinse il gregge,

fatta la sosta      intorno alla cisterna.
L’anima sua      ora è come la terra,
940è come il mare,      è come il firmamento,
come la forza      delle stirpi guerriere
e pastorali      che nel cominciamento
furono, come      la verginità fresca
del primo sguardo      che dalla cosa espresse
945il mito, come      la meraviglia ingenua
animatrice      che d’ogni cosa fece
una bellezza      e la favola breve
dell’uom fallace      converse in gioia eterna.

XXII.

C
OL novel peso      pianamente sen va

950alla sua casa,      portando nelle braccia
la creatura      che tuttavia si lagna,
che chiama chiama,      che chiama la sua madre.
Il vento cade,      il mare s’abbonaccia,
il ciel s’imbianca.      Ei sente nella faccia
955pungere l’uzza      mattutina, e la guazza
piovere sente      su l’oro della barba
che si confonde      con quella dolce lana.
“O creatura,      non posso io darti latte„
dice il pastore      sorridendo al belato
960che non si placa.      “Tu chiami la tua madre.
Dove sarà      ella? Molto lontana?

E veggo già      che s’avvicina l’alba;
sicché non giova      tornare alla mia casa;
ma giova a te      avere la tua madre
965che anche ti chiama,      che ha la poppa gonfiata
di molto latte      che tu ti beverai.„
Ed ei si gode      nel suo cuore piegando
a un’altra via,      però che bene ei sa
la via del chiuso      ove la greggia scarsa
970attende l’ora      della pastura. L’alba L’ovile
stampa nel ciel      le sue dita rosate
quando all’ovile      giunge, all’ovile fatto
di schiette pietre      che scelse di sua mano
e poi commesse      e legò con la calce
975e vi coprì      tutto il tetto di lastre
pulite ed anche      vi fece di legname
sodo la porta,      come artiere d’ogni arte
ch’ei fu, che sempre      sarà finché le braccia
gli reggeranno.      Or, mentre giunge, il cane
980lo riconosce      come riconobbe Argo
sul concio il dire      del molto travagliato
Odisseo; sì      lo riconosce il sardo
mastino, forte,      fulvo, e balzagli innanzi
e gli fa festa.      Ma, dal chiuso, al richiamo
985della deserta      creatura la madre
risponde. Senza      indugio il pastore apre
la porta e càuto      depone al limitare

di pietra il redo      che, su le oblique zampe
lanose, come      un infante traballa,
990bela dal roseo      muso, per l’ombra calda
saltella in cerca      della poppa gonfiata.
Chino alla porta,      dell’avido poppare
si gode l’uomo      incolpevole; è pago;
ché buono ei stima      l’odore della calda
995lana nell’uzza      che punge aspra di sale,
e invero sol      gli rincresce d’un pane,
d’un pan che manca      alla sua lieta fame
sì mattutina.      “Ecco che è fatta l’alba. Il vincastro
Riconterò      le mie pecore.„ Taglia
1000una verga, entra      nel chiuso, e caccia il branco.
Nitrire i suoi      cavalli di battaglia
ode all’aperto.      Respira: “Oh Libertà!„
Poi, sufolando      ne’ modi della Pampa
e dell’Oceano,      pascola verso il mare.


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