< Elettra (D'Annunzio)
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Le città del silenzio
Le città del silenzio (IV) Le città del silenzio (VI)


LE CITTÀ DEL SILENZIO.
arezzo.
I.

A
REZZO, come un ciel terrestro è il lino

cerulo, il vento aulisce di viola.
Ove sono Uguccion della Faggiuola
e il cavalier mitrato Guglielmino?


5Non vedo Certomondo e Campaldino,
né Buonconte forato nella gola.
Alla tua Pieve il balestruccio vola;
in San Francesco è Piero, e il suo giardino.

Non vedo nella polve i tuoi pedoni
10carpone sotto il ventre dei cavalli
con le coltella in mano a sbudellarli.

Van sonetti del tuo Guitton, canzoni
del tuo Petrarca per colline e valli;
e con voce d’amore tu mi parli.


II.
Bruna ti miro dall’aerea loggia
che t’alzò Benedetto da Maiano.
Fan ghirlanda le nubi ove Lignano
e Catenaia e Pietramala poggia.

5E fànnoti ghirlande i tralci a foggia
di quelle, onde i tuoi vasi ornò la mano
pieghevole del fìgulo pagano
quando per lui vivea l’argilla roggia.

Or rivive pel mio sogno il liberto
10grèculo intento a figurar le tigri
l’evie i tripodi i tirsi le pantere.


Arar penso i tuoi campi e, nell’aperto
solco da’ buoi di Valdichiana impigri,
discoprir l’ansa infranta del cratère.


III.
Aste in selva, stendardi al vento, elmetti
di cavalieri, Costantin securo,
Massenzio in fuga, Cosra morituro,
e le chiare fiumane e i cieli schietti!

5Come innanzi a un giardin profondo io stetti,
o Pier della Francesca, innanzi al puro
fulgor de’ tuoi pennelli; e il sacro muro
moveano i fiati dei pugnaci petti.

Ma il Vincitore e il Labaro e Massenzio
10e la bella reina d’Asia oblìa
il mio cor; ché levasti più grand’ala!

Presso l’arca del crudo Pietramala
vidi il fiore di Magdala, Maria.
E un greco ritmo corse il pio silenzio.


IV.
Forte come una Pallade senz’armi,
non ella ai piè del mite Galileo

si prostrò serva, ma il furente Orfeo
dissetò arso dal furor dei carmi.

5Qui da tristi occhi profanata parmi,
mentre a specchio del Ionio o dell’Egeo
degna è che s’alzi in bianco propileo
come sorella dei perfetti marmi.

Ellade eterna! Non il vaso d’olio
10odorifero è quel di Deianira,
ov’essa chiuse il dono del Biforme?

Per lei Ristoro ode cantar le torme
degli astri, come il Samio; e su la lira
Guido Monaco tenta il modo eolio.


cortona
I.

O
CORTONA, l’eroe tuo combattente

non è già quel gagliardo che s’accampa
giuso in Inferno alla penace vampa
ove si torce la perduta gente?

5Pur le Vergini crea la man possente
e i Chèrubi, usa all’affocata stampa,

come l’Etrusco orna la dolce lampa
e di macigni alza la porta ingente.

Chiusa virtù d’antiche primavere,
10urbe di Giano, irrompe nel tuo Luca.
Maravigliosamente in lui tu vigi.

Forza del mondo è il tuo robusto artiere.
Sparvero come in vortice festuca
i tuoi tiranni Uguccio ed Aloigi.


II.
O Corito, perché la Lampa è priva
di nutrimento? Io vidi messaggera,
grande come Callìope, leggera
come Aglaia, recar l’olio d’oliva.

5Ecco, nel bronzo la Gorgóne è viva;
nuota il delfino, corre la pantera;
segue le melodíe di primavera
Sileno su la fistola giuliva.

Bacco e gli aspetti delle Essenze ascose
10fan di fecondità ricco il metallo.
Or versa nel suo cavo l’olio puro!


La vital Lampa in cui l’arte compose
tra mostri e iddii l’Onda marina e il Phallo,
tu sospendila accesa al dio futuro.


III.
Dirompendo col vomere l’antica
gleba etrusca il bifolco, a Sepoltaglia,
all’Ossaia, la spada e la medaglia
scopre laddove ondeggerà la spica.

5Chi sa, nell’ansia della sua fatica
sotto l’ignea fersa, non l’assaglia
un sùbito furore di battaglia
a trionfar la sorte sua nemica!

Muzio Atténdolo Sforza nella rovere
10di Cotignola gitta il suo marrello
e ferrato cavalca al gran destino.

Sono le glebe tue fatte sì povere,
o Italia, che non sórgavi un novello
Eroe dall’aspro sangue contadino?



bergamo.
I.

B
ERGAMO, nella prima primavera

ti vidi, al novel tempo del pascore.
Parea fiorir Santa Maria Maggiore
di rose in una cenere leggera.

5E per l’aer volar pareano a schiera
i chèrubi fuggiti da Trescore,
quei che Lorenzo Lotto il dipintore
alzò fra i tralci della Vigna vera.

Davanti la gran porta australe i sassi
10deserti verzicavano d’erbetta,
quasi a pascere i due vecchi leoni.

Dolce correa per la città dei Tassi
la melode a destar la verginetta
Medea sepolta presso il Coleoni.


II.
Destarsi la dormente, qual la pose
su l’origlier di marmo l’Amadeo:
gli occhi aprirsi, le labbra lavs deo
clamare, le due mani sparger rose:


5quest’opere vid’io meravigliose
del lene April; ma in vetta al mausoleo,
tutt’oro l’arme, il gran Bartolomeo
pronto imperar tra le Virtù sue spose.

Non diemmi forse l’alto Condottiere,
10benigno a’ suoi ed a’ nimici crudo,
col suo gesto il segnal della riscossa?

Oh seme delle nostre primavere!
Triplice egli ebbe nell’invitto scudo
il carnal segno della maschia possa.



III.
L’ombra canuta del Guerrier sovrano
a Malpaga erra per la ricca loggia,
mutato l’elmo nel cappuccio a foggia,
tra i rimadori e i saggi in atto umano.

5E tu, Bergamo, il suo sepolcro vano
chiudi. Ma all’aspro vento che da Chioggia
sìbila è vivo! Ancor di strage ha roggia
l’unghia e la pancia il suo stallon romano.

Stretto nel pugno il fólgore di guerra,
10i fanti contra Galeazzo ei sferra
tonando co’l mortaro e la spingarda.


Arcato il duro sopracciglio, ei guarda
di su la manca spalla irta di piastra;
e, bronzo in bronzo, nell’arcion s’incastra.


carrara.
I.

C
ARRARA, morti son vescovi e conti

di Luni, e son dispersi i loro avelli;
gli Spinola e Castruccio Antelminelli
son morti, e gli Scaligeri e i Visconti;

5ed Alberico che t’ornò di fonti,
gli antichi tuoi signori ed i novelli.
Ma su quante città regnano i belli
eroi nati dal grembo de’ tuoi monti!

Quei che li armò di soffio più gagliardo,
10quei fa su te da vertice rimoto
ombra più vasta che quella del Sagro.

E non il santo martire Ceccardo
t’è patrono, ma solo il Buonarroto
pel martirio che qui lo fece magro.



II.
Su la piazza Alberica il solleone
muto dardeggia la sua fiamma spessa;
e, nel silenzio, a piè della Duchessa
canta l’acqua la rauca sua canzone.

5Dalla Grotta dei Corvi al Ravaccione
ferve la pena e l’opera indefessa.
Scendono in fila i buoi scarni lungh’essa
l’arsura del petroso Carrione.

S’ode ferrata ruota strider forte
10sotto la mole candida che abbaglia,
e il grido del bovaro furibondo,

ed echeggiar la bùccina di morte
come squilla che chiami alla battaglia,
e la mina rombar cupa nel fondo.


III.
Arce del marmo, in te rinvenni i segni
che t’impresse la forza dei Romani;
sculti al sommo adorai gli Iddii pagani;
e dissi: "O Roma nostra, ovunque regni!"

5Dissi: “O mio cuore, or fa che tu m’insegni
la rupe che foggiar volea con mani

di foco il grande Artier, sì che i lontani
marinai la vedesser dai lor legni.„

E dal Sagro alla Tecchia, da Betogli
10al Polvaccio, da Créstola alla Mossa
cercai l’arcana imagine scultoria.

Tutta l’Alpe splendea d’eterni orgogli.
“O cuor„ dissi “il tuo sangue sì l’arrossa!„
E in ogni rupe vidi una Vittoria.

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