< Elettra (Euripide - Romagnoli)
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Euripide - Elettra (413 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1930)
Prologo
Personaggi Parodo

Esce dalla casupola Auturgo.

auturgo

O d’Argo antica terra, e voi, dell’Inaco
acque fluenti, onde partí con mille
navi, recando guerra al suol di Troia,
Agamènnone re! Qui, spento Priamo
dell’ilíaco suol signore, e l’inclita
città presa di Dàrdano, tornò
di nuovo ad Argo, e molte sovra i culmini
dei templi consacrò spoglie di barbari.
La fortuna colà dunque gli arrise;
e in patria, invece, perí, per la frode
di Clitemnestra, e per la man d'Egisto,
di Tieste figliuolo. Egli morí,
l’antico scettro abbandonò di Tàntalo,
e regna Egisto in questa terra, e sposa
tiene con sé la sposa del defunto,
di Tíndaro la figlia. Allor che il Sire
a Troia navigò, lasciò due figli,
Oreste, il maschio, ed il femmineo fiore
d’Elettra. Oreste, mentre già piombava
su lui la man d’Egisto, per ucciderlo,

l’aio antico del padre lo rapí,
a Strofio lo recò, per allevarlo,
nella terra di Fòcide. Restò
nella casa paterna Elettra; e quando
giunse per lei l’adolescenza florida,
quanti eran primi nella terra d’Ellade,
la richiesero sposa. Egisto, invece,
per timore che un figlio essa ad alcuno
di quei possenti generar potesse,
vendicatore dell’Atríde, a niuno
mai la concesse, e la trattenne in casa.
Pure, da timor grande, anche cosí,
egli era invaso, che ad alcun di furto
potesse figli generare; e morte
darle decise: la salvò la madre,
sebben crudele, dalle man’ d’Egisto:
ch’ella un pretesto per lo sposo ucciso
aveva pure; ma odïosa rendersi
temea, se i figli trucidasse. E allora,
Egisto tese questa trama: il figlio
d'Agamènnone, ch’ito era fuggiasco
da questa terra, molto oro promise,
chi l’uccidesse; e diede Elettra in moglie
a me, che nacqui, niuno può contenderlo,
da padri micenèi, di stirpe illustri,
ma di sostanze poveretti; e allora
la nobiltà va in fumo. Affin che fosse
poco il timor, la diede a un uom da poco.
Ché, se sposata un uom d’alto lignaggio
l’avesse, certo ridestato avrebbe
lo scempio, ora sopito, d’Agamènnone,
la vendetta colpito avrebbe Egisto.
Ma quest’uomo non mai, può dirlo Cípride,

macchiò d’Elettra il letto: ella è ancor pura.
Ebbi la figlia di Signori grandi;
ma mi vergognerei s’io l’oltraggiassi,
ché degno io non ne sono. E per Oreste
piango, per lui che dicon mio cognato
se mai, tornando, le infelici nozze
della sorella, o misero, vedrà.
E chi stolto mi giudica, perché
una fanciulla ho in casa, e non la tocco,
sappia che falso è il metro ond’ei misura
la mia saggezza, e che lo stolto è lui.
Esce dalla casa Elettra. Indossa povere vesti, e porta sulla testa una brocca per attingere acqua.

elettra

O negra notte, o de le stelle d’oro
nutrice, all’ombra tua questa che siede
brocca sul capo a me, debbo alle fonti
fluvïali recare. A ciò ridotta
la miseria non m’ha: bensí mostrare
bramo agli Dei quanto m’offende Egisto,
lanciare nell’immenso ètere l’ululo
io voglio al padre mio: ché la Tindàride
maledetta, mia madre, via da casa
per compiacer lo sposo, mi scacciò.
Or ch’altri figli a Egisto ha procreati,
stima che siam di troppo Oreste ed io.

auturgo

Ecco, per me travagli e peni, o misera,
tu cresciuta fra gli agi: io ben ti dissi
che tu te ne astenessi; eppur lo fai.


elettra

Al par dei Numi, amico mio, ti stimo
ché mi trovo fra i mali, e non m offendi.
È gran sorte fra gli uomini, un tal medico
quale tu sei per me, trovar dei mali.
Ed io, sebbene tu chiesto non l'hai,
per quanto posso, alleggerir ti devo
delle fatiche, sí che men ti pesino,
partecipare i tuoi travagli. Assai
tu lavori pei campi: spetta a me
la cura della casa: a chi lavora,
piace, tornando, trovar tutto in ordine.

auturgo

Se poi t’aggrada, va’: tanto, la fonte
lungi non è da questa casa. Ai campi
i bovi io spingo alla prim’alba, e il seme
gitto nei solchi: che per quanto i Numi
in sommo della bocca abbia, un poltrone
che non lavori, non guadagna il pane.
Si allontanano. Quasi subito entrano Oreste e Pilade.

oreste

Pilade, te fra tutti quanti gli uomini
io stimo fido e caro ospite mio.
Solo tu, fra gli amici, a questo Oreste
riguardo avesti, in tal condizione
qual’è la mia: ché m’aggravò d’orrendi
soprusi Egisto: egli, e con lui la madre
mia maledetta, al padre mio die’ morte.

Pel responso del Nume, al suolo d’Argo
giungo, e niuno lo sa, per dar ricambio
di morte a chi m’uccise il padre. Andato
son questa notte alla sua tomba, e lagrime
versai su la sua tomba, e la primizia
d’un ricciolo gli offersi, e d’un agnello
sgozzato, il sangue su la fiamma effusi;
ed ai signori ch’hanno qui l’impero
restai nascosto. Entro le mura il piede
inoltrare non vo’: sosto ai confini,
a una duplice mèta avendo l’occhio:
potere, ove qualcun mi scorga, súbito
passare in altra terra; e far ricerca
di mia sorella, ch’ora vive, dicono,
con uno sposo, e non è piú fanciulla,
sí ch’io seco mi trovi, e dell’eccidio
partecipe la renda, e a punto sappia
quanto avvien nella reggia. Ora, poiché
il suo candido viso Aurora leva,
lunge il passo volgiam da questo tramite.
Forse qualche arator, qualche fantesca
incontreremo, a cui chieder si possa
se in questi luoghi abita mia sorella.
Ma una donna, un’ancella appunto io vedo.
Rase ha le chiome, e sopra il capo reca
una brocca per l’acqua. Interroghiamola,
stiamo: da lei forse potrem raccogliere
qualche parola che all’intento giovi
onde venimmo a questo suolo, o Pilade.
Si fanno da parte.

Entra Elettra, cantando.

elettra
Strofe I

L’orma affretta, ch’è tempo, del piede,
entra in casa, entra in casa, al tuo pianto.

Ahimè, ahimè!
Io son d’Agamènnone figlia,
a luce mi die’ Clitemnestra,
l’odïosa figliuola di Tíndaro.
Me chiamano i miei cittadini
Elettra la misera.
Ahimè, ahi, che gravi travagli,
che vita odïosa è la mia!
O padre, tu giaci nell’Ade:
dalla sposa e da Egisto sgozzato,
tu giaci, Agamènnone.
Su, leva leva la tua funesta
canzone, l’ululo solito desta.

Antistrofe I

L’orma affretta, ch’è tempo, del piede,
entra in casa, entra in casa, al tuo pianto.

Ahimè, ahimè!
Fratello tapino, in qual casa,
in quale città sarai servo,
poi che tu nella reggia dei padri
lasciasti, al destino acerbissimo,
la suora tua misera?
Deh, giungi a salvarmi da questi
travagli! E tu, Giove, tu, Giove,
fa’ sí che lo scempio egli vendichi
efferato del padre. Oh, qui spingi
l’errante suo piede!

Su, leva, leva la tua funesta
canzone, l’ululo solito desta.

Strofe II

Giú questa brocca dal capo deponi,
ché i lai notturni per mio padre intoni
al sorger dell’Aurora.
D’Ade la querimonia,
d’Ade l’inno funereo,
o padre, a te sotto la terra vola:
io lo ripeto ognora,
giorno per giorno, solcando con l’unghia
la tenera gola,
le man’ picchiando alla rasa mia testa,
padre mio, per la tua fine funesta.

Ahi, ahi, la fronte lacera!
Come lunghessi i vortici
d’un fiume, il cigno chiama con le querule
armoniche melodi
Il padre suo carissimo
che d’una rete giacque

nei frodolenti nodi,
cosí lagrimo anche io
pel tuo misero fato, o padre mio,

Antistrofe II

che del tuo sangue facesti vermiglio
l’ultimo bagno, il fatale giaciglio.
Ahimè misera, ahimè!
Della bipenne o furia
amara, o amara insidia
al ritorno da Troia! Oh, non ghirlande
la sposa offerse a te,
non dïadema; ma al duplice taglio,
con onta nefanda,
essa t’espose del ferro d’Egisto;
e accoglie, compagno del talamo, il tristo.

Ahi, ahi, la fronte lacera!
Come lunghessi i vortici
d’un fiume, il cigno chiama con le querule
armoniche melodi
il padre suo carissimo
che d’una rete giacque
nei frodolenti nodi,
cosí lagrimo anch’io
pel tuo misero fato, o padre mio.

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