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3. | A D. Paolo Leopardi. - Casa.1 |
Recanati 28 Gennaio 1812.
Amico carissimo. Ricevo in questo momento il plico che voi m’inviate, accompagnato da una obbligantissima lettera. Essa è ben degna per la sua brevità di esser commendata da’ Lacedemoni, e dagli altri popoli della Grecia, i quali dovendo rispondere in lettera ad alcuna inchiesta non iscrivevano talvolta, che la semplice parola «nò». Il piacere che voi mi avete fatto col torre a copiare il mio picciol Compendio di logica non vi sembrerà forse sí grande quanto lo è in realtà. Un buon copista è assai raro, ed io non reputo lieve vantaggio l’averne ritrovato uno che sia conforme al mio desiderio.2 Il restauratore dell’Italiana Poesia Francesco Petrarca lamentavasi che, avendo egli in poche settimane condotto a fine il suo libro latino De Fortuna etc., non potea dopo piú anni averne copia che pienamente il soddisfacesse, poiché di mille errori eran ripiene tutte quelle ch’egli avea avute da’ vari copisti. Se io fossi vissuto al tempo di Petrarca, e l’avessi udito lamentarsi meco in tal modo, avrei facilmente appacificate ed acquietate le sue querele coll’insinuargli di darvi a copiar la sua opera; e son certo che malgrado la sua delicatezza in questa materia, egli ne sarebbe rimasto soddisfatto. Né crediate che il mestier del copista sia da disprezzarsi. Teodosio, uno de’ piú grandi Imperatori d’Oriente, s’impiegava ancor egli nel copiare gli altrui scritti, e non vivea che del denaro ricavato da questa non ignobil fatica. Voi potrete dirmi, che Teodosio non operava in tal modo perché di sé degno riputasse un tal genere di lavoro, ma solamente per un effetto della sua profonda umiltà e virtù Cristiana; ma io per convincervi di quanto ho preso a dimostrarvi, vi apporterò un altro esempio. Non ci dipartiam dal Petrarca. Egli avendo intrapreso di fare un viaggio, non ben mi rammento per qual fine, e ritrovata cammin facendo un’opera di Cicerone, di cui non avea per anche contezza, non istimò cosa vile il copiarlo da capo a fondo. Ma è omai tempo di finirla, poiché mi avvedo che avendo fatto l’elogio dello stile laconico sto per cadere nei difetti dello stile Asiatico. Sono affezionatissimo per servirvi di cuore, Giacomo Leopardi.
- ↑ Dall’autografo, ch’è nella Biblioteca Labronica di Livorno. - Giacomo e i fratelli usavano scherzosamente chiamare Don Paolo la sorella Paolina, dal fatto che, portando ella di solito i capelli corti e una vesticciola scura assai vicina a un abito talare, nei giochi all’altarino, che spesso facevano insieme, era delegata a celebrare la massa. — Con la zia Ferdinanda, Paolina Leopardi (1800-1869) è forse l’altra sola donna che abbia ad un tempo compreso ed amato Giacomo; e ciò non soltanto per il vincolo del sangue, ma più ancora per l’affinità spirituale e sentimentale. Anche nel fisico Paolina somigliava a Giacomo: nata immaturamente, ebbe complessione piuttosto gracile; bassa di statura, di carnagione olivastra, riproduceva il fratello specie negli occhi e nel naso arcuato, e, purtroppo, anche nella gibbosità. Con tale fisico sgraziato, con un’intelligenza pronta o vivace, con una sensibilità quasi morbosa, non è maraviglia che anch’ella fosse, come il suo grande Giacomuccio, destinata alle delusioni e al dolore. Fece coi fratelli quasi gli stessi studi: lavoravano parecchie ore del giorno, sotto la disciplina del prete Sanchini, sedendo a quattro tavolini posti in fila, e voltandosi reciprocamente le spalle per non distrarsi. Compiuti gli studi, la giovinetta, che ormai toccava i vent’anni, si die’ a riempire le vuote ore delle sue giornate con la lettura di romanzi, soggiacendo alla malattia di quel tempo. I genitori compresero che la miglior cura di quella romantica malattia era un marito; e quindi, senza troppa fretta ed entusiasmo, cominciarono a pensare all’eventualità di questo matrimonio. Ma due fatti ne rendevano ardua l’esecuzione: l’appariscente bruttezza della povera fanciulla, e la poca dote che la famiglia poteva assegnarle. Di qui tutti i mancati matrimoni di lei; e non furono pochi, a cominciare da quello col Peroli nel ’21. Dopo il romanzesco matrimonio di Carlo con la cugina Mazzagalli, fatto clandestinamente e contro il divieto dei genitori, che causò l’uscita definitiva di lui dalla casa paterna, le occasioni e probabilità di nozze per Paolina si fecero sempre più scarse, finché non cessarono del tutto. Ciò non ostante, negli ultimi anni della sua vita, rimasta sola e padrona assoluta del patrimonio dalla madre magnificamente ricostituito, Paolina, cedendo alle lusinghe interessate di amiche ed amici, non ismise un ingenuo desiderio di poter piacere, unito a più ingenue velleità di galanteria civettuola, adornandosi di abiti dalle fogge e dai colori vistosi, punto convenienti al suo fisico e alla sua età. Si procurò da ultimo anche il diversivo dei viaggi; e memore delle lodi che Giacomo le aveva fatte del clima di Pisa nella stagione invernale, di salute cagionevole com’era, volle anche lei recarsi a svernare nel 1869 in quella città; dove, in séguito a una bronchite presasi in una gita a Firenze, morí nel marzo di quello stess’anno.
- ↑ Sebbene la buona e affezionata sorella ponesse tutto il suo impegno nel copiare i lavori del fratello, pure, e per la sua minuta e saltellante scrittura (che Pierfrancesco chiamava «i pulcetti»), ben diversa da quella calligrafica di Carlo, e per qualche inavvertenza, non sempre riuscí a contentare pienamente l'accuratissimo e meticoloso Giacomo, che più volte dové intervenire a correggere di sua mano sviste ed errori, specie d'ortografia e d'interpunzione.