< Ercole (Euripide)
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Euripide - Ercole (423 a.C./420 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Esodo
Quinto stasimo Ercole (Euripide)


ercole
Si riscuote dal letargo a poco a poco.
Ahimè!
Traggo il respiro, e quello scorgo ch’io
scorgere devo, l’ètere, e la terra,
e questo arco del sol. Come in un vortice
ero piombato, in un tumulto orribile
del mio spirito; e ardente esce l’anelito
dal mio polmone, ed incomposto e greve.
Oh, ma perché di lacci stretto il giovine
petto e le braccia, io qui mi trovo, come
nave all’ormeggio, ad un troncone avvinto
di marmorea colonna? E a terra sparsi
gli alati dardi, e l’arco, onde alleanza
ebbe il mio braccio, ed essi proteggevano
il mio fianco, ed io loro? All’Ade forse
sono disceso ancor? Tornato appena,
per Euristèo di nuovo ho l’altro braccio
dello stadio percorso? Eppur, di Sísifo
la rupe non è qui, non della figlia
di Demètra lo scettro, e non Plutone.
Stupor m’invade. Dove son? L’ignoro.
Ehi, nessun degli amici, o presso o lungi,
non c è, che sperda questo mio stupore?
Ché nulla io vedo qui che a me sia noto.
anfitrione
Alla sciagura mia, vecchi m’appresso?
coro
Ed io con te: nel mal non t’abbandono.

ercole
Padre, ché piangi e ti nascondi gli occhi,
lungi cosí dal figlio tuo carissimo?
anfitrione
Figlio! ché figlio sei, pur fra i tuoi mali.
ercole
Forse un mal mi colpisce, onde tu lagrimi?
anfitrione
Tal, che, a patirlo, gemerebbe un Nume.
ercole
Orribil, dunque; ma qual sia, non dici.
anfitrione
Da te, se in te pur sei, puoi ben vederlo.
ercole
Qual nuova sorte su me incombe? Parla.
anfitrione
Sí, se d’Ade il delirio ancor non t’occupa.

ercole
Tutto enigmi e sospetti ancor favelli.
anfitrione
Se la tua mente è proprio salda investigo.
ercole
Che delira sia stata, io non rammento.
anfitrione
Sciolgo i suoi lacci, o vecchi? A che m’appiglio?
ercole
E chi li stringe dí: ch’io me ne sdegno.
anfitrione
Non dimandare: il mal che soffri è assai.
ercole
A saper ciò ch’io vo’, basta il silenzio?
anfitrione
Dal trono d’Era, tu non vedi, o Giove?

ercole
Qual male infesto a me di lí provenne?
anfitrione
Non pensare alla Dea, pensa ai tuoi mali.
ercole
Una sciagura annunzi: io son perduto.
anfitrione
Guarda, contempla i figli tuoi caduti.
ercole
Misero me, che visïone è questa?
anfitrione
Ai tuoi figli movesti orribil guerra.
ercole
Di qual guerra tu parli? E chi li uccise?
anfitrione
Tu, l’arco tuo, quel Dio che ne fu causa.

ercole
Come? Che feci? O di sciagure araldo!
anfitrione
Eri folle. Oh, spiegar quanto m’è duro!
ercole
Ed anche la mia sposa ho dunque uccisa?
anfitrione
La tua mano compié tutta la strage.
ercole
Ahi, ahi, m’avvolge un nuvolo di gemiti!
anfitrione
Vo’ piangendo perciò la tua sciagura.
ercole
La mia furia distrusse anche la reggia?
anfitrione
So questo: che per te tutto è sciagura.

ercole
Dove il delirio mi colpí, mi strusse?
anfitrione
Quando la man purificavi all’ara.
ercole
Ahimè, perché la vita mia risparmio,
poi che fatto sono io dei dilettissimi
figli miei l’assassino, e giú dal salto
d’un’erta rupe non mi gitto, o il fegato
mio non trafiggo con l’aguzzo ferro,
per espiar dei figli miei la morte?
O per fuggire all’onta che m’aspetta,
sovra una pira il mio corpo arderò?
Alza gli occhi, e li fissa verso un punto lontano.
Ecco, a impedire i miei divisamenti
di morte, qui Tesèo giunge, l’amico,
il mio parente: ei mi vedrà: lo scempio
del parricidio agli occhi apparirà
del piú diletto amico. Ahi, che farò?
Dove restar coi mali miei soletto
potrò, fuggendo a volo, o inabissandomi
sotto la terra? Oh!, buio, almen, circondi
la fronte mia: troppa onta mi rimorde
pei delitti commessi; e, poi che tanta
macchia di sangue sopra me s’è sparsa,
niun innocente vo’ ch’essa contamini.

Entra Teseo, seguito da guardie armate, e si volge ad Anfitrione.
teseo
Son giunto, o vecchio, qui, con altri giovani
Atenïesi, che schierati attendono
lungo le rive dell’Asòpo, e reco
d’armi soccorso al figlio tuo: ché fama
degli Erettídi alla città pervenne
che lo scettro di Tebe usurpò Lico,
e indisse a voi guerra e sterminio. Ora io,
per ricambiare il beneficio d’Ercole,
che dall’Averno mi salvò, qui venni,
se pure il braccio mio, dei miei compagni,
giovar vi possa. — Ahimè! Pieno d’estinti
vedo il terreno. Troppo tardi giungo?
Compiuto il male è già? Questi fanciulli
chi pose a morte? E di chi sposa è questa
donna ch’io vedo? I pargoli non sogliono
trovarsi in mezzo alle battaglie: è questo
male ch’io trovo qui, novello e strano.
anfitrione
Re che sul colle dell’ulivo1 imperi.....
teseo
Perché m’appelli con tristi proemi?
anfitrione
I Numi ci percossero coi malanni piú fieri.

teseo
Chi son questi fanciulli onde tu gemi?
anfitrione
Fu lor padre mio figlio; ed or li uccise:
del loro sangue ora ha le mani intrise.
teseo
Usa piú pia favella.
anfitrione
Ubbidir ti potessi!
teseo
O tremenda novella!
anfitrione
Siam da ogni male oppressi.
teseo
Che di’? Come colpia?

anfitrione
Il tòssico dell’Idra centocípite
vibrò, colpito da cieca follia.
teseo
D’Era fu tale impresa. Or, vecchio, dimmi:
chi è colui che in mezzo ai morti giace?
anfitrione
Il figlio, il figlio mio sventurato, che, in pro’
dei Súperi, imbracciò
lo scudo nella pugna di Flegra, dove tanti
sterminò dei Giganti.
teseo
Ahi, piú infelice chi di lui, fra gli uomini?
anfitrione
No, trovar non potrai
uomo di lui piú misero, piú percosso dai guai!
teseo
Perché nel manto asconde il capo misero?

anfitrione
Di te che amico, che gli sei parente,
del sangue dei suoi pargoli
esso vergogna sente.
teseo
Ma per soffrire con lui venni: scoprilo.
anfitrione
O figlio mio, discosta
dagli occhi il manto, gittalo,
del sole offriti al guardo.
Or, contro le tue lagrime
lotta una forza opposta.
Io mi prosterno supplice
a te dinanzi, o figlio,
ed alle tue ginocchia,
alla tua man m’appiglio,
al volto, e spargo il mio pianto senile.
Frena la leonina, la selvaggia tua bile,
che ti sospinge a furia empia di strage,
che vuole ai mali aggiungere
di guai nuova compage.
teseo
Orsú, favello a te, che siedi in tanto
miserabil postura, il viso tuo
mostra agli amici. Oh, tènebra non v’è
di cosí negra nuvola, che possa

celar la tua sciagura. E perché tendi
la mano, e mostri il sangue effuso a me?
Forse perché delle parole tue
il contagio su me cader non debba?
Oh, non mi pesa di soffrir con te:
ché un tempo fui teco felice: al giorno
debbo pensar che tu dai morti regni
mi salvasti alla luce. I cuori in cui
gratitudine invecchia, odio, e chi vuole
goder dei beni, e, quando poi sventura
sugli amici piombò, schiva con essi
affrontar la tempesta. Or sorgi, e scopri
il tuo povero volto, e gli occhi fissa
negli occhi miei: chi generoso nacque,
soffre i colpi dei Numi, e non recàlcitra.
ercole
Vedi, Tesèo. come i miei figli caddero!
teseo
Ho appreso, e il mal che tu m’additi scorgo.
Dolcemente gli scopre il volto.
ercole
Perché dunque il mio volto al sol discopri?
teseo
Non puoi, ché sei mortal, macchiare i Numi.

ercole
L’empio contagio mio fuggi, infelice!
teseo
Furia ultrice all’amico è mai l’amico?
ercole
Ti sovvenni in buon punto: or ti ringrazio.
teseo
Da te mi venne il bene: or ti commisero.
ercole
E di pietà son degno: i figli uccisi.
teseo
Ti colpisce sventura; ed io ne piango.
ercole
Altri vedesti in piú crudeli affanni?
teseo
Dalla terra i tuoi mali al ciel s’adergono!

ercole
Son dunque in luogo onde colpire io posso.
teseo
Pensi che i Numi a tue minacce badino?
ercole
Son temerarii; e tale io son per essi.
teseo
Taci, ché i vanti il mal tuo non accrescano.
ercole
Al colmo è il male mio, piú non può crescere.
teseo
Che farai? Dove, tanto irato, andrai?
ercole
Morrò, sotterra andrò, donde ora giunsi.
teseo
Dici quanto direbbe un uom qualsiasi.

ercole
Fuor degli affanni sei, tu che consigli.
teseo
Ercole, il saldo ad ogni prova, parla?
ercole
Non a queste: ai dolori anche c’è limite.
teseo
L’amico, il gran benefattor degli uomini?
ercole
Che aiuto non mi danno: Era può tutto.
teseo
Che tu muoia da stolto, il vieta l’Ellade.
ercole
Le mie parole ascolta dunque, come
gli ammonimenti tuoi ribatterò,
ti spiegherò come non è possibile
ora, e da tempo già, per me la vita.

Primo, da un uomo io nato son che uccise
il vecchio padre di mia madre, e, ancora
contaminato, ne sposò la figlia,
mia madre, Alcmèna; e allor che i fondamenti
saldi non sono d’una stirpe, è forza
che sopra i figli la sventura cada.
E Giove, poi — qual che sia Giove — in odio
mi generava ad Era; e non offenderti,
o vecchio, tu: ché te padre, e non Giove
reputo. E mentre ancor suggevo il latte,
la compagna di Giove avventò contro
le fasce mie, perché morissi, due
serpenti occhi di fiamma. E allor che pubere
muscoleggiò tutto il mio corpo, è d’uopo
dire i travagli che affrontai? Leoni,
tricòrpori Tifoni, o vuoi Giganti,
e sterminai, pugnando, dei Centauri
le quadrupedi frotte, e l’Idra, cagna
di cento teste, che, recise, ancora
cresceano; e mille e mille altre fatiche;
e fra i morti discesi, ed il tricípite
cane, custode dell’Averno, a luce,
per obbedire ad Euristèo, condussi.
E questa fu l’ultima prova, o misero
me: che i miei figli uccisi, e di sciagure
colmai la casa. E a tale estremo or sono,
che non posso abitar nella mia Tebe
senza empietà. Se resto, a quale sagra
andrò, d’amici a quale accolta? Io sono
contaminato, e niun mi parlerà.
O in Argo andrò? Se dalla patria io sono
bandito! O forse a qualche altra città?
M’avranno appena conosciuto, e bieco

mi guarderanno, e lungi mi terranno
con questi di parole amari pungoli:
«Non è costui di Giove il figlio, quello
che figli e sposa uccise? E non andrà,
lungi da questa terra, alla malora?»
Per l’uom che un giorno detto fu beato,
ogni rovescio è doloroso: quello
che ognor fra i mali si trovò, non soffre:
ché seco la sciagura a un parto nacque.
Ed a tal punto di sciagura io sono,
che sin la terra parlerà, divieto
mi farà, ch’io tocchi il suo grembo, e il pelago
ch’io l’attraversi, e i valichi dei fiumi;
e sarò pari ad Issïon, che gira
alla sua ruota avvinto. E questo è il meglio:
piú nessuno veder me degli Ellèni
debba, fra cui lieto e felice io vissi.
Dunque, viver perché? Mi giova forse
una vita serbare empia ed inutile?
Di Giove or danzi pur l’illustre sposa,
faccia suonar, col suo calzare, il lucido
pavimento d’Olimpo: a fine addusse
il suo disegno: essa abbatté, scalzò
da sommo ad imo il primo eroe de l’Ellade.
Ad una tale Dea, chi mai preghiere
rivolgere vorrà? Per una donna,
per gelosia del talamo di Giove,
essa l’uomo abbatté ch’era de l’Ellade
benefattore, e immune era di colpe.
teseo
Era t’infligge questa prova, sappilo
sicuramente, la sposa di Giove,

e niun altro dei Numi. Ed io t’esorto
a rassegnarti, ad evitare il peggio.
Niun dei mortali immune è da sciagura,
e niuno degli Dei, se pur non mentono
dei poeti i racconti. Essi non strinsero
nozze fra lor che niuna legge approva?
Per cupidigia di potere, i padri
non avvilîr nei ceppi? Eppur, dimora
hanno in Olimpo, ed è per essi lieve
delle colpe il rimorso. E che dirai
se tu, nato mortale, intollerante
ti mostri alle sciagure, e i Numi no?
Come la legge vuole, ora abbandona
Tebe, e me segui alla città di Pàllade.
Quando pure le tue mani avrai rese,
l’ospizio quivi, e parte dei miei beni
io ti darò: quanti presenti m’ebbi
dai cittadini, allor che sette e sette
giovinetti salvai, ponendo il toro
di Creta a morte, tuoi saranno. Stese
di terra grandi, a me per tutta l’Attica
furon servate; e tue dette dagli uomini,
finché tu viva, ora saranno; e quando
tu sarai spento, e scenderai nell’Ade,
con sacrifici e con marmorei tumuli
Atene tutta onor ti renderà.
Pei cittadin’ sarà fulgido serto
rendere omaggio a un forte eroe, dagli Èlleni
averne fama; la salvezza ch’ebbi
da te, compensi questa grazia mia.
Ch’or d’amici hai bisogno. Allor che i Numi
t’accordano favore, a nulla servono
gli amici. Basta, quando vuole, un Dio.

ercole
Ahimè, lievi conforti ai miei malanni
son questi. E creder non posso io che i Numi
vaghi sien mai d’illeciti connubî,
né che le mani l’un dell’altro avvincano
credetti, o crederò mai, né che siano
soverchiatori l’un dell’altro. Un Dio,
se veramente è Dio, di nulla ha d’uopo.
Dei poeti son queste inani favole.
Ma, pure in tanto mal, m’assale il dubbio
che di viltà, se mai fuggo la vita,
sarò tacciato. Ché, se tu non sai
tollerar le sciagure, innanzi all’arme
d’un nemico, saprai restare impavido?
Di non morire avrò forza: verrò
teco alla tua città. Dei doni tuoi
mille grazie ti rendo. Oh, mille e mille
travagli già patii; né mi ritrassi
mai dinanzi ad alcuno, e mai dagli occhi
pianto versai, né mai pensai di giungere
a tale un punto ch’io versassi lagrime.
Or conviene al destin, sembra, chinarsi.
E sia. L’esilio mio, vecchio, tu vedi,
vedi ch’io sono l’uccisor dei figli.
Tu dà sepolcro ad essi, tu componi
le salme loro, onorali di lagrime
— di farlo a me vieta la legge — , adagiali
sovra il sen della madre, e fra le braccia:
pïetosa concordia; ed io la fransi,
misero me, contro mia voglia. E quando
le salme loro avrai sotterra ascose,
abita ancor questa città. Ben misera

sarà per te la vita; eppure, aiutami
a sopportare i miei tormenti, e vivi.
V’uccise, o figli, il padre vostro, quello
che vi die’ vita; e non cogliete il frutto
delle fatiche mie, la fama ch’io
procacciarvi cercavo, il piú bel dono
d’un padre ai figli. E tristi grazie resi,
misera, a te, che il letto mio serbasti
immacolato ognor, badando all’opere.
Ahimè, sposa, ahimè, figli, ahi, me tapino,
quanto misero io sono! E separarmi
debbo dai figli e dalla sposa. Ahi, lugubre
gioia di questi abbracci! Oh, per me lugubre
compagnia di quest’armi! In dubbio io sono
se conservarle debbo, oppur lasciarle:
ch’esse, battendo al fianco mio, diranno:
«Uccidesti con noi figliuoli e sposa:
l’assassino dei figli in noi tu serbi?»
Ed io le porterò su le mie spalle?
E perché mai? — Ma, pur dell’armi privo,
onde le glorie mie compiei ne l’Ellade,
datomi in preda ai miei nemici, morte
d’obbrobrio troverò. No, non le devo
lasciare, anzi serbarle, anche se soffro.
In una cosa assistimi, Tesèo.
Vieni in Argo con me, del can d’Averno
con me fissa il compenso, affin che il cruccio
non mi spinga dei figli a qualche eccesso.
O suol di Cadmo, o popolo di Tebe,
tutti le chiome recidete, il lutto
prendete tutti, al tumulo dei figli
movete, e tutti ad una voce, i morti

e me piangete: ché morti siam tutti.
Era ci sterminò con un sol colpo.
teseo
Sorgi, o tapino, bastano le lagrime.
ercole
Non posso: irrigidito io sono tutto.
teseo
Dunque, abbatte sciagura anche i piú saldi.
ercole
Ahimè!
Pietrificato io qui scordassi i mali!
teseo
Taci: la mano a chi t’assiste porgi.
ercole
Bada: il tuo peplo il sangue imbratterà.
teseo
Non ci pensar, l’imbratti. Io non lo schivo.

ercole
Privo di figli, un figlio io trovo in te.
teseo
Il braccio al collo mio cingi: io ti guido.
ercole
Fida coppia d’amici! E quanto è misero
l’un d’essi! — O vecchio, ecco gli amici veri.
anfitrione
Madre di generosi è la sua patria.
ercole
Fa’, Tesèo, ch’io mi volga, e i figli veda.
teseo
Perché? Sollievo ti darà tal farmaco?
ercole
Lo desidero. Oh, il padre almeno abbracci!
anfitrione
Figlio son qui! La mia brama previeni.
Si abbracciano.

teseo
Piú non rammenti i tuoi travagli antichi?
ercole
Troppo di questi men penosi furono.
teseo
Niun loderebbe questa tua mollezza.
ercole
Molle un tempo non fui: tale or ti sembro?
teseo
Troppo: l’intrepido Ercole, dov’è?
ercole
E che cos’eri tu, laggiú tra gl’inferi?
teseo
Quanto a baldanza, il piú gramo degli uomini.
ercole
E perché dici allor che il mal m’abbatte?

teseo
Andiamo.
ercole
                         O padre, addio!
anfitrione
                                                  Mio figlio, addio.
ercole
Come t’ho detto, dà sepolcro ai figli.
anfitrione
Ed io, da chi l’avrò, figlio?
ercole
                                                  Da me.
anfitrione
Qui verrai?
ercole
                              Quando avrai sepolto i figli.....
anfitrione
Ebbene?

ercole
                         Io farò sí che tu da Tebe
venga ad Atene. Ora al sepolcro i figli
accompagna, corteo misero. Ed io,
che a turpe fine la mia casa addussi,
come dietro alla nave il palischermo,
seguo Tesèo. Chi preferisce l’oro
e la ricchezza ai buoni amici, è folle.
Si allontana con Teseo, Anfitrione segue le salme dei fanciulli, il coro s’avvia anch’esso all’uscita.
coro
Ed io ti seguo in fiero lutto immerso:
ché in te l’amico mio piú fido ho perso.


  1. [p. 301 modifica]Il colle dell’ulivo è Atene, che, come è noto, ebbe da Pallade in dono tale pianta.

Note

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