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IX.
Aveva bisogno di correre, di fuggire, preso da una paura intollerabile, non fidandosi di sostenere un istante di più la vista di Massimiliana, temendo che nel prolungarsi di quell’incontro tutto sarebbe stato detto fra loro. Che cosa era dunque avvenuto? Nulla: uno sguardo, la ripetizione di una parola, un silenzio, un turbamento... nulla; ma le loro anime si erano intese; in quell’istante, egli aveva avuto il sentimento di penetrare nel pensiero di Massimiliana, di occuparlo tutto di sè, di essere unito a lei così intimamente come non era possibile più... Come era avvenuto?.. Egli ricostruiva la scena, rapidamente, dall’incontro con la carrozza di Giulio fino alla sosta dinanzi al rustico altare, e ciò che sopra tutto lo colpiva era la semplicità dell’avvenimento, la facilità con cui in pochi minuti i suoi rapporti con la signorina di Charmory avevano fatto un passo che per tanto tempo egli aveva creduto impossibile. Naturalmente, senza nessuna sollecitazione da parte sua, qualche cosa era successo che metteva fra loro come una intesa, che nessun altro sapeva e che non si sarebbe potuto dimenticare. Già quando egli aveva offerto l’appoggio della propria mano alla fanciulla, ella era stata un momento esitante; poi s’era decisa ad appoggiarvisi: una piccola cosa, senza dubbio; ma la prima volta che l’aveva incontrata, al Museo, ella non glie l’aveva accordata; e non erano forse le piccole cose che egli poteva gustare, incapace come era a guardare in faccia ad una più grande felicità?.. No, egli non si fidava di affrettare una spiegazione finale, non aveva il coraggio di pensare al poi, a quel che sarebbe accaduto di loro quando non avrebbero avuto più nulla da dirsi... e intanto egli cercava nella propria mano l’impercettibile traccia lasciatavi da quella di Massimiliana, e sferzava il proprio cavallo con una ebbrezza crescente... Egli l’amava! l’amava! e avrebbe voluto che il tempo non scorresse più, e che quell’istante di purissima gioia, di emozione ineffabile, quell’unico istante in cui il miraggio, la parvenza, l’illusione secretamente nutrita cominciavano a prendere consistenza, a rivelarsi possibili, si arrestasse, prolungandosi eternamente... La stagione dell’anno che al suo spirito complicato più sorrideva, non era la primavera, la fioritura pomposa di cui egli sentiva la caducità, l’esplosione della vita in cui i germi letali già operavano la loro sinistra bisogna; erano i giorni che il primissimo verde metteva i suoi tenui ricami sul primo fresco celeste. Quell’incanto era scevro d’ogni amaro miscuglio; uscendo dalla bruma assiderata, non restava luogo nel cuore che alla sicura speranza, e la visione del tramonto si perdeva dietro a quella delle lunghe promesse. Di quella stagione spirituale egli aveva ora l’annunzio, ma come dinanzi al prestigioso conseguimento, per opera di qualche potenza soprannaturale, di un voto pazzo di grandezza e di felicità, il trepido smarrimento era in lui più forte del gaudio... Che fare, che dire, quale contegno assumere, in che modo esternare ciò che egli stesso non riusciva a definirsi?.. Ogni ragionamento era abolito, egli non aveva l’agio di riflettere; sentiva solo la necessità di isolarsi, quasi di fuggire quell’emozione che egli portava con sè, e che durava oltre quell’ora. Ma, lontano da Massimiliana, scomparso il pericolo di dover prendere una risoluzione, lo spirito restava libero di contemplare e di sognare. Ora egli non si arrestava agli ostacoli prima temuti, si sentiva come purificato dall’attenzione della fanciulla, come fatto più degno, e non più solo, non più libero di guidarsi a proprio talento. Aveva egli il diritto d’infrangere la delicata catena che stava per legarli reciprocamente? Fin quando egli era stato solo a spasimare, aveva potuto fare di sè tutto lo strazio possibile, ma se anche Massimiliana avrebbe adesso sofferto con lui?..
Egli era ancora sotto l’impero di questi sentimenti quando, ricordatosi, alcuni giorni dopo, dei cortesi rimproveri della contessa, si recò a visitarla. Trovarsi in sua presenza, gli procurava sempre un sereno piacere; la contessa era la sola amica, quasi una sorella di Massimiliana; era, in certo modo, qualche cosa di lei.
Vedendo entrare Ermanno nel suo boudoir, la signora di Verdara aveva leggermente sussultato; ma, scambiati i saluti, la sua conversazione con un’amica che le stava vicina aveva ripreso con una vivacità più grande. Ella parlava continuamente, saltando da uno ad un altro soggetto, rivolgendosi poco verso il giovane, prodigando un cara continuo alla sua compagna, come per indurla a non andar via. Sul punto di trovarsi da sola a solo con lui, il coraggio l’abbandonava. Nei giorni trascorsi dall’ultimo incontro, ella aveva molto pensato ed ogni lusinga era caduta per lei. L’imbarazzo sorpreso fra i due giovani quand’ella li aveva raggiunti, la fuga di Ermanno, lo sguardo col quale Massimiliana lo aveva un poco seguito, l’espressione di profondo raccoglimento che le si era dipinta sul viso, non le permettevano più di dubitare che i due giovani si amassero. Eppure, ella aveva aspettato ansiosamente, volendo avere da lui stesso la conferma delle sue apprensioni, volendo sapere fino a che punto fossero giunti... ma nell’ora d’affrontare la prova, una strana esitazione s’impadroniva di lei; avrebbe voluto differirla, si persuadeva che erano preferibili le beate illusioni alla crudele certezza... Con una stretta al cuore ella vide quindi alzarsi l’amica, che accompagnò fino all’anticamera. Però, quel momento di solitudine era bastato a farle riacquistare la padronanza di sè stessa; guardatasi un istante allo specchio, aveva gettata indietro la testa, irrigidendosi contro il pericolo; e rientrata nel salotto dove Ermanno l’aspettava in piedi: «Dunque?...» esclamò, con una espressione indefinibile, abbandonandosi un poco sul divano e fissando un enimmatico sguardo sul giovane. «Eccomi venuto a fare onorevole ammenda!» rispose questi, inchinandosi. «Ho meritato i suoi rimproveri; sia così generosa da perdonarmi...»
La contessa aveva un poco socchiusi gli occhi, immobile nell’angolo del divano, facendo soltanto girare col pollice l’anellino passato al dito più piccolo. Poi, scossa un poco la testa: «No, non la rimprovero,» disse, «non ne avrei il diritto... tanto più che lei, lo so bene, preferisce la solitudine, i suoi studii... E trovo, dopo tutto, che ha ben ragione! Questo mondo dal quale siamo circondati non vale il più piccolo dei sacrifizii che noi gli facciamo...» Suo malgrado, un tono leggermente amaro dava a quelle parole un secondo senso; però, nel timore di lasciarsi scorgere, ella accoglieva adesso con un sorriso più franco il laborioso complimento che Ermanno veniva svolgendo: «Il mondo astrattamente preso, sì; ma lei converrà meco nell’ammettere che il mondo collettivo risulta di tanti piccoli mondi presi insieme, in qualcuno dei quali noi possiamo trovare il nostro proprio simile, vuol dire chi divide le nostre idee, i nostri gusti, le nostre tendenze...» — «Un’astronomia morale, allora?» interruppe la contessa, sorridendo. «Con questo,» replicò Ermanno, «che non occorrono telescopii; le scoperte si fanno ad occhio nudo...»
La signora di Verdara chinò il capo, in atto che poteva parere di adesione a quel modo di vedere, un ringraziamento pel complimento che vi si racchiudeva, o anche il desiderio di mutar discorso. Ella sentiva che era molto più difficile di quanto non avesse pensato il disporre le cose in modo da strappare una confessione ad Ermanno; ma tale difficoltà l’agguerriva, le faceva sostenere con la consueta sicurezza i rischi di quella conversazione. «A parte questa comunicazione... interplanetaria,» riprese, disponendosi meglio nel suo soffice cantuccio, «il così detto consorzio civile non lo seduce punto?» — «Poco, per lo meno...» rispose l’altro, ma aggiungendo tosto, come una protesta: «Io non vorrei, intanto, che lei mi credesse un fatuo...» La contessa Rosalia fece dei segni di denegazione. «Bisognerebbe non conoscerla... Un tempo, viaggiò?..» — «E tornai completamente ricreduto sul conto di questa specie di distrazioni. Ho finito, guardi, per farmi una filosofia mia propria: trovo che il più saggio è di lasciarsi vivere, senza volontà...» — «È già averne una il non volerne avere...»
La contessa tacque un istante, quasi per godere della momentanea superiorità che la sua puntata le dava. Ermanno, inchinatosi, aveva detto, con un discreto sorriso: «Toccato!» trovando in quelle parole dell’amica un’allusione al proprio stato d’animo, alla dolcezza di cui si sentiva pieno, intanto che con un’ipocrisia della quale si rimproverava secretamente, parlava d’indifferenza e di rassegnazione... «Ha visto i d’Archenval?» chiese ad un tratto la contessa, fissandolo. «No, dall’altro giorno che siamo stati insieme.» — «Povera viscontessa!» esclamò la signora di Verdara, guardandosi una mano e riprendendo a far girare l’anellino. «Come fossero poche le sue sofferenze, bisognava che suo marito le desse sempre nuovi motivi di dolore...» Ermanno, il cui interesse era tutto concentrato sugli stranieri dell’Hôtel des Palmes, chiese allora con una certa vivacità: «In che modo?..»
Troppo preoccupata per trovare da sè un artifizio da indurre il giovane a rivelare i proprii sentimenti, la contessa Rosalia si era ricordata a tempo della conversazione avuta col marito. Non era stato all’annunzio della probabile partenza del visconte, che Giulio le aveva fatto nascere i primi dubbii, nella previsione del dolore che la lontananza di Massimiliana avrebbe prodotto in Ermanno? Questa dunque era la riprova migliore e più semplice: all’annunzio di quella partenza Ermanno non avrebbe saputo più padroneggiarsi... Ma, a misura che il momento di mettere in atto il suo disegno si avvicinava, ella sentiva rinascere più forte il proprio imbarazzo. Era la repugnanza di fingere, era la paura di sentire un’amara conferma, era sopra tutto l’intuizione del tormento che avrebbe inflitto ad Ermanno. Egli stava lì, presso di lei, pieno di confidenza, in una intimità dolce, aprendole il proprio pensiero, dandole la prova desiderata di apprezzare la sua amicizia sopra ogni altra; ed ella, freddamente, studiatamente, si sarebbe servita di mezzi inquisitorii per strappargli il suo secreto? L’amore non era dunque principalmente, prima di tutto, tutela della persona amata, cura gelosa di risparmiarla, sacrifizio del proprio interesse all’interesse altrui?.. Poi, che cosa sperava ella? che cosa poteva dargli ed ottenere da lui?.. Quante volte non si era fatta disperatamente quella domanda! La coscienza della perduta sua libertà, degli ostacoli materiali e morali attraverso ai quali avrebbe dovuto passare, si faceva in quel momento più viva; ma, nello stesso tempo, con la certezza della propria inferiorità dinnanzi a Massimiliana, rinasceva la sua gelosia, cadevano i suoi scrupoli, si dissipava la sua ingenua fiducia nella possibilità della sincera amicizia fra l’uomo e la donna... Risolutamente ella quindi rispose: «Il visconte fa un giuoco d’inferno... Ha perduto finora qualche cosa come ottantamila lire, e non ha pagato i suoi debiti...»
Ermanno s’era lasciato sfuggire un moto di stupore. Egli sapeva che d’Archenval era un giuocatore appassionato; non sospettava però che fosse arrivato fino a quel punto, e i vincoli che univano Massimiliana al visconte erano troppo stretti, perchè egli non fosse dolorosamente colpito da quella notizia. «Non ha pagato!..» ripetè; ma, dopo una breve reticenza, aggiunse prontamente: «Il visconte è un gentiluomo; farà onore alla sua parola!» — «Certo!» riprese la contessa; «nessuno ne dubita; ma la perdita non è indifferente e se crescesse... Credo che, per questo, i nostri amici lasceranno presto Palermo...» — «Lasceranno Palermo?...» E le due parole gli erano sfuggite, rapidissime, in un sussulto istintivo di tutta la persona, mentre con le mani contratte egli stringeva il suo cappello fin quasi a piegarlo...
La contessa, che aveva pronunziata l’ultima frase lentamente, quasi tremando, ma studiando, senza averne l’aria, l’espressione di Ermanno, aggiunse con uno stento più grande dopo l’atto sfuggitogli: «Credo anzi che sia una decisione già presa...» Era uno stupore doloroso, una fissità esterrefatta nello sguardo, una sospensione del respiro sulle labbra semiaperte, che si scorgevano in Ermanno; era la conferma fatale, era la certezza che il suo pensiero, il suo cuore, tutto l’essere suo dipendeva oramai da Massimiliana, che la sua vita era indissolubilmente legata a quella di lei, che nulla, null’altro esisteva per lui... Rosalia di Verdara aveva sentito tutto il sangue affluirle con violenza al cuore, le mani aggelarlesi; ed il suo proprio dolore si raddoppiava col rimorso, con la compassione per l’angoscia infinita che infliggeva ad Ermanno. «Le rincresce?..» trovò ancora la forza di aggiungere, stringendo una mano con l’altra. E come egli restava muto, anelante: «È dunque vero... che ama Massimiliana?...»
Era stata lei a dirlo per la prima! Passandosi automaticamente una mano sulla fronte, Ermanno si era finalmente scosso, dicendo, come in sogno, a frasi spezzate e lente: «Oh! signora contessa... Io non lo credevo ancora... cercavo d’illudermi... non volevo crederlo!.. Ma l’idea di perderla... Io le ho mentito, guardi, affermandole poc’anzi di non sperare più nulla, di non aver volontà... Io non potrei, io non posso più vivere senza di lei!...» Egli era stupito del suono della sua voce fattasi a poco a poco animata, con la strana sensazione di uno sdoppiamento interiore, come se l’uomo che parlava a quel modo, che rivelava finalmente la sua passione, che la precisava con parole irrevocabili, non fosse e non potesse essere quello stesso che ascoltava quelle parole. Egli non possedeva più la poca libertà di spirito che la sua natura gli consentiva, era spinto incosciamente da una forza tanto più potente quanto più a lungo compressa; non poteva scorgere la decomposizione che si era fatta nei lineamenti della donna a misura che egli era venuto confessando tutto quel che aveva nell’animo...
E il tormento della contessa era diventato ineffabile. Ella si vedeva dinanzi colui che aveva fatto battere più forte il suo cuore, l’uomo che ella aveva amato, in secreto, come un essere superiore; quell’uomo era chinato verso di lei, con un’espressione supremamente appassionata, nello sguardo, nella voce; dalle sue labbra uscivano parole infiammate... e quelle parole, il fuoco di quella passione, erano per un’altra; egli dichiarava a lei, che era vissuta della sua vita, di non poter vivere senza quell’altra... Era uno spasimo così acuto, che finiva per diventare una specie di voluttà, era una compiacenza ammalata che ella sentiva nascere dentro di sè, di vuotare fino in fondo l’amaro calice, di misurare tutta la profondità della propria disperazione... «Dunque...» riprese, con voce che si studiava invano di parer ferma, ma il cui tremito sfuggiva all’uomo troppo occupato di sè, «dunque, non le ha detto ancora nulla?..» — «Come avrei potuto?» riprese allora Ermanno, rapidamente, quasi ansioso di dir tutto e presto, «come avrei potuto, se io stesso non volevo credere a me stesso? se io non mi credevo degno di lei? se io non ardivo neppure sognare che ella si fosse accorta di me?...» — «E invece?» insisteva la contessa, col feroce bisogno di torturarsi. «Io non so... non posso sapere che cosa pensi di me la signorina di Charmory... So questo... che il pensiero di perderla...» — «Perchè non la sposa?»
Era ancor lei che formulava per la prima quella conclusione imposta dalla logica delle cose; ella ancora che preveniva il pensiero di Ermanno!... A misura che ascoltava la confessione di lui, che le si faceva manifesta l’intensità di quell’amore, ella si sentiva divenire estranea a lui, vedeva abolirsi ogni più ipotetico diritto sull’uomo che amava. Egli non poteva vivere senza la signorina di Charmory, Massimiliana era perfettamente libera di sè; in nome di che cosa poteva ella dunque opporsi alla loro felicità? Tutti i ragionamenti suggeriti dall’amor proprio, tutti i sofismi sostenuti dall’egoismo, cadevano dinanzi a quella persuasione; ella non poteva esser più nulla per Ermanno; era scartata, messa in disparte, annichilita; ma, nel tempo che riconosceva la ragionevolezza di tutto ciò, ella aveva la sensazione d’un peso enorme che gravasse sul suo cuore e che lo stritolasse, lentissimamente...
«Perchè.... infatti....» rispondeva frattanto Ermanno, cercando le parole, «perchè io non ho la forza, il coraggio necessario a parlare, a risolvermi, a credere in me stesso... ma perchè sento pure che se ogni speranza dovesse essermi tolta, io non so che cosa avverrebbe di me...» Un fosco lampo si era acceso nel suo sguardo, mentre egli si prendeva la fronte in una mano. «Mi perdoni, signora contessa!..» riprese dopo un istante, «mi perdoni se io non mi sono saputo frenare, se le ho parlato troppo di me... È che la mia esistenza è molto triste! che ho sofferto tanto! che non ho nessuno a cui confidarmi!..» Rosalia di Verdara aveva sentito passarsi un brivido di commozione per tutto il corpo, intanto che l’altro, con voce rotta, le diceva tutta la solitudine della sua vita, i suoi precoci dolori, le lotte del suo spirito ammalato, la sfiducia da cui si era sentito sempre più vincere, fino al desiderio di sparire, di rientrare nel nulla; e il raggio di speranza che era ad un tratto brillato, il nuovo soffio di vita che gli aveva allargato ad un tratto il petto oppresso, quando aveva cominciato a conoscere la signorina di Charmory. La commozione della contessa si faceva amaramente tenera; ella vedeva che quell’amore era necessario ad Ermanno come la luce, come l’aria, e che sarebbe stato ucciderlo il contrariarlo. Chi poteva dunque volere il suo male?.. Era il suo diritto di vivere, di esser felice dopo una miseria spirituale la cui esistenza ella non sospettava neppure, la cui rivelazione erale causa di un turbamento profondo. Tutta presa dalla pietà, la gran leva del cuore muliebre, ella sentiva spegnersi, soffocarsi, estinguersi la voce che reclamava per lei — in nome del suo amore trascurato, neppure scorto, e colpevole, ed impossibile — con un bisogno crescente di devozione e di sacrifizio, rassegnata all’idea della felicità di lui per opera d’un’altra, ma volendo contribuire al suo conseguimento perchè quello era anche l’unico modo di attaccarsi ad Ermanno, di partecipare alla sua vita, di aver qualche dritto su lui... «L’idea di doverla perdere» continuava il giovane, nella foga della sua confessione, «la possibilità della sua partenza, non mi s’affacciava allo spirito; io vivevo nella tranquilla sicurezza di essere presso di lei, contento di poterla vedere, di poterle parlare, quando avessi voluto... Ed ella parte! ed io non so, mio Dio!...» Come egli s’interrompeva, riprendendosi la testa nella mano: «Io non credo» disse la contessa, con voce ferma, «che lei sia indifferente a Massimiliana...» Facendosi allora più vicino alla sua compagna, pendendo dalle sue labbra, nell’attesa d’una confidenza fattale dalla fanciulla: «Come lo sa?» chiese egli, vivacemente. «Me ne sono accorta...» — «Oh! signora contessa!..»
Con un gesto appassionato, Ermanno le aveva preso una mano. Egli la stringeva con la stessa forza del naufrago che s’afferra ad una tavola, in mezzo al mare. Non era ella la sola amica, la sorella di Massimiliana? Era una sorella anche per lui; per la prima, si era a lei confidato... Egli non pensava più alla stranezza della situazione, non sapeva più come aveva trovata la risoluzione necessaria a parlare; o meglio, lo sapeva fin troppo, nel pericolo ancora soprastantegli di perdere Massimiliana... Egli sapeva però che bisognava uscire da quel limbo d’angoscia, e che per uscire da quel limbo un soccorso impensato gli s’offeriva... «Oh! signora contessa... lei che le vuol bene come una sorella, vorrà domandarle se è vero?... dirle tutto quello che io non saprei... che non potrei dirle ancora io stesso?...»
Nella penombra del salottino, la contessa aveva chiuso gli occhi, abbandonando la sua mano nella mano calda e fremente di Ermanno. Ad un tratto, l’aveva svincolata, alzandosi. «Sì... vedrò... alla prima occasione...»
Egli non si era accorto del suo pallore mortale, del tremito delle sue labbra; non si era neanche accorto che lo congedava. Mentre la contessa cercava istintivamente un appoggio con una mano, egli le stringeva ancora l’altra, dicendo confuse parole di fervida gratitudine e di trepida speranza.