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X.
In quel tempo fu recato in villa un invito pel ballo della contessa Armandi.
Andarono in una magnifica sera d’autunno. Le siepi fiorite esalavano vigorosi profumi; le sonagliere dei cavalli avevano un non so che di festoso; le fruste dei postiglioni scoppiettavano allegramente; l’ultima squilla dell’avemaria moriva in lontananza, coll’ultimo raggio di sole che colorava di tinte opaline uno strappo di cielo.
Il giardino della villa Armandi era illuminato, la scala adorna di fiori, tutte le finestre brillavano come le lenti di una lanterna magica. — Alberto guardava avidamente — attraverso un iride di tappezzerie, di colori, di dorature e di specchi; vedevasi un via vai di gente in festa; nelle sale olezzavano profumi soavi, brillavano gemme superbe ed occhi vellutati, c’era un suono di musica, di frasi leggiadre, e di raso che frusciava — e in mezzo a tutto questo c’era una donna più bella, più elegante di tutte le altre, che si chiamava la contessa Armandi.
Era un’aristocratica bellezza: l’occhio nero, superbo profondamente e voluttuosamente solcato, l’andatura, la voce, ed il gesto molli, gli omeri candidi e profumati come foglie di magnolia, ondulanti in linee pure, carezzate dalle trecce nere ed elastiche, il seno squisitamente modellato nell’avorio, marmorizzato da sfumature azzurrine, vaporoso pei veli ricamati, lo strascico della veste susurrante in modo carezzevole dietro di lei, la punta dello scarpino di raso che luccicava di tanto in tanto come una lingua serpentina, la fronte altera e il sorriso affascinante. — Ella aveva 40 anni.
Allorchè si trovarono faccia a faccia con Velleda, coteste due donne leggiadre in modo diverso, scambiarono un’occhiata che avrebbe potuto dirsi il luccicare di due spade da duellanti, mentre s’inchinavano graziosamente. — La contessa sorrise all’Adele, al signor Forlani, e si voltò a guardarlo mentr’egli si allontanava.
Tutti gli sguardi seguivano la signorina Manfredini; sembrava infatti che le grazie della sua persona sorridessero trovandosi nel proprio elemento; nella sua elegante disinvoltura c’era un che d’impaziente, di avido, di febbrile, che luccicava nei suoi occhi, e dilata vasi colle rosee narici, mentre ella agitava il ventaglio chinese. Anche Alberto sorprese sè stesso a seguire la direzione di tutti gli sguardi, e fissava lungamente la contessina; poscia, inquieto, cercò cogli occhi l’Adele.
Velleda stava presso l’étagère, circondata dai più eleganti giovanotti, come una cerbiatta attorniata da una muta di cani; ma la cerbiatta teneva testa da tutte le parti, col brio, col sorriso, con una parola, con un gesto, spiritosa, caustica, leggiadra e impertinente. Due o tre volte volse a caso gli occhi su di Alberto, e ad un tratto gli fece segno col ventaglio di avvicinarsi; prese il braccio di lui e si allontanò.
— Non ne potevo più! disse ridendo.
Il povero giovane si sentiva tutto sossopra.
— È naturale che tutti le facciano la corte.... balbettò.
— Vorrebbe farmela anche lei? diss’ella con un accento e un sorriso singolari.
Alberto ammutolì, e a lei il sorriso morì sulle labbra. Passeggiavano lentamente per le sale, ella battendo col ventaglio il tempo di un valzer che suonavano.
— Com’è bello! esclamò Alberto.
— È Strauss, rispose ella distratta.
— O perchè non si balla un giro?
— A proposito della corte? — diss’ella sorridendo.
Alberto volle sorridere colla medesima disinvoltura, ma ci riescì assai male.
— Ebbene.... disse; sì!
— No! rispose ella col medesimo tono, ma un po’ più recisamente.
Il giovane insistette con insolito calore; ella diveniva più capricciosa e più ostinata, scuoteva il capo con certa grazia risoluta, e mordevasi le labbra con certo sorrisetto malizioso, appoggiando le spalle all’étagère, e stringendo il ventaglio nelle mani. Di tanto in tanto, senza che se ne avvedesse, raggi seduttori le scappavano dagli occhi. Ad un tratto senza dir nulla, mentre sembrava più ferma nel rifiuto, appoggiò mollemente il braccio alla spalla di lui, e si lasciò andare.
Ella ballava alla tedesca, un po’ diritta, col capo alto, e il braccio disteso. Di tanto in tanto gli diceva qualche parola senza importanza, o scuoteva con grazia inimitabile la sua bionda testolina. Si fermò all’improvviso, un po’ rossa, un po’ smarrita, svincolò con impazienza impercettibile la mano che ancora egli le teneva, gli lanciò a bruciapelo uno sguardo singolare, viso contro viso, e impallidì leggermente.
— Non ballo più, gli disse, sono stanca.
La contessa Armandi era lì presso ed esclamò:
— Che bella coppia!
Velleda rispose con un grazioso inchino. Alberto, passando accanto a uno specchio, vi gettò uno sguardo e poscia arrossì di averlo fatto; ma nello specchio sorprese due grandi occhi che lo seguivano amorosamente dal fondo di un canapè; andò verso la povera Adelina, che stava modestamente rannicchiata fra due mamme, e che sembrò rianimarsi come lo vide venire e gli sorrise cogli occhi.
— Non balli? domandò il cugino, allorchè furono soli.
— Non mi hai invitato a ballare; rispose Adele timidamente carezzevole.
— Ci son tanti giovanotti!....
— Non voglio ballare cogli altri....
— Perchè?
— Perchè.... perchè.... perchè non voglio.
Ei chinò il capo, tuttora bollente del soffio che Velleda aveavi gettato, e si allontanò sopra pensiero. Stava da qualche tempo nel vano di una finestra, colla fronte sui vetri, guardando nel buio, allorquando udì, un fruscìo di vesti vicino a lui, e si trovò accanto la contessa Armandi.
— Non balla il cotillon? gli domandò.
— No, contessa.
Ella sembrò volere aggiungere qualche altra parola ma gli fece un segno col ventaglio, sorrise e si allontanò. Ei seguiva macchinalmente cogli occhi il turbinìo di quella danza in mezzo alla quale la contessa stava come una regina, di cui tutti si contendevano un sorriso un giro di valzer. Improvvisamente quella regina andò diritto verso di lui, gli gittò come una sultana il suo fazzoletto, ricamato, gli mise sulla spalla il braccio splendido di gemme e di nudità, e fra le braccia la vita sinuosa ed elastica — poi, quand’ebbe finito di ballare, lo ringraziò con un sorriso.
— Voglio conoscerla meglio, gli disse; facciamo un giro.
Tutti gli sguardi si volsero su quell’uomo fortunato e quell’altera beltà che passavano. Egli pensava al giorno in cui l’aveva vista mollemente distesa nella sua carrozza, fra una nuvola di polvere e di velo.
Entrarono nella stufa, profumata, silenziosa, oscura. La contessa sedette. Il discorso andava a sbalzi, scucito, con certa bizzarria capricciosa che ella sapeva dargli, strisciando per tutti i zig-zag serpentini sui quali ella voleva farlo passare, brioso, civettuolo, elegante come lei. Poi ella non disse più una sola parola, appoggiò il mento sulla mano, e guardò qua e là con occhi disattenti; il fisciù alitava lieve lieve, e gettava una certa dolce ombra livida sul seno d’alabastro; ella apriva e chiudeva macchinalmente il suo ventaglio, e faceva scrosciare le stecche fra di loro. Tutt’a un tratto piantò in volto ad Alberto uno sguardo e un sorriso singolari, e gli disse:
— Ma noi ci compromettiamo orribilmente, marchese! Si alzò ridendo, e si allontanò.
Allorchè gli ospiti di villa Forlani lasciarono la festa erano le due del mattino. La notte era buia, il cielo senza stelle, la campagna paurosa. Di quando in quando il vento mugolava fra le gole lontane. Adele un po’ melanconica stava nel fondo della carrozza, avviluppata nel suo mantello. Velleda teneva il viso allo sportello. Alberto respirava a pieni polmoni.
— Che bella sera! esclamò.
Velleda gli rivolse una rapida occhiata.
I sogni di quella notte! popolati di tutte le larve dell’amore, di tutte le febbri della giovinezza, di tutte le lusinghe della vanità, di tutte le ebbrezze dei piaceri! — Povera Adele! se avesse potuto indovinarli!