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XL.
Dopo vent’anni che non s’erano più visti Alberto e sua cugina s’incontrarono a Firenze, spinti dal turbine della fatalità.
Era il primo giorno delle corse. Le Cascine brulicavano di spettatori; il cielo era azzurro, il sole frastagliavasi fra i rami; i veli, le ciarpe, le piume, svolazzavano; il prato stendevasi come un’immensa tavola di bigliardo, screziato dai vivi colori dei fantini che caracollavano; i cavalli nitrivano, si udivano gai accenti in tutti i dialetti d’Italia, si vedevano dei fiori dappertutto, ai capelli, sui vestiti, nelle carrozze, alle testiere dei cavalli — c’era un profumo di giovinezza, di festa, e di primavera che inebbriava.
Adele era a cavallo presso la calèche di una sua amica di Viareggio, la Rigalli, e rispondeva al saluto delle sue numerose conoscenze inchinando graziosamente il capo, mentre discorreva passava il guanto sulla criniera della sua cavalla; così com’era, col suo amazzone grigio, e nel suo grazioso atteggiamento, era assai leggiadra; la calèche era ovattata, riboccante di fiori, coi jockey ricamati e incipriati, immobili come statue, i cavalli irrequieti, dall’occhio e dal garretto teso. Una folla di curiosi s’era formata vicino a quel bel gruppo.
— Oh, chi vedo! esclamò tutt’a un tratto la signora Rigalli, non è il marchese Alberti quel laggiù, che ci arriva dall’India a cavallo del suo baio?
Adele si volse di soprassalto, e divenne bianca come la sua gorgierina di batista.
Alberti si avanzava al passo; il cavallo era impaziente, colle narici rosse, sbuffava, mordeva il freno bianco di schiuma, e lo scuoteva con bruschi movimenti; il cavaliere era calmo, serio, freddo, e avea la mano di ferro; volgeva gli occhi sulla folla sbadatamente, col sigaro in bocca, e avea l’occhio smorto, il pallore cadaverico, e l’impassibilità quasi tetra. Guardava quella festa come un defunto avrebbe potuto guardarla dalla tomba. Passando vicino alla calèche ci volse gli occhi a caso, la Rigalli lo chiamò col più grazioso sorriso, ed ei si trovò faccia a faccia con Adele; una fiamma rapida come un lampo passò per la prima volta dopo tanti anni su quelle pallide guance. Intanto la Rigalli diceva all’Adele:
— Mi permette che le presenti il marchese Alberti?
— Vuol presentarmi mio cugino? rispose Adele, che era ridivenuta calma e sorridente con un supremo sforzo di volontà e stese ad Alberto il pomo del frustino attraverso la calèche, come se gli stendesse la mano.
— È proprio un cugino d’America dunque!
— Son quelli i benvenuti. Da dove ci piovete, cugino?
— Da Calcutta.
— Son più di dieci anni che non lo si vede più!
— Cosa avete fatto tutto questo tempo?
— L’ho passato in ferrovia e in vapore, cugina mia.
— Vi siete divertito?
— Ma... assai.
La calèche si mosse al piccolo trotto; la signora Rigalli si fece promettere una visita dal marchese, e i due cugini si trovarono accanto, in mezzo al gran viale.
— Volete permettermi di accompagnarvi, cugina? disse Alberto.
— Volontieri.
Ei voltò le briglie, e si mise al passo, accanto a lei, seguiti dal groom di Adele ad una ventina di passi.
— Come trovate Firenze? domandò ella.
— Più bella che mai.
— Vi fermerete parecchio?
— Non lo so io stesso.
— Raccontatemi qualche cosa dei vostri viaggi.
— Cosa volete che vi racconti?
— Ma... quel che avete visto.
— Ho visto, su per giù, delle vie Calzajuoli, degli Arni, delle colline di S. Miniato dappertutto, in grande, in piccolo, e in microscopico: e dei fiorentini gialli, rossi, e neri, che dicono giuraddio un po’ diversamente di noi altri.
— E le donne? domandò ridendo Adele.
— E le donne... quali le hanno fatte gli uomini.
— Non so se devo ringraziarvi del complimento, cugino.
— Ringraziatemene, cugina, che me lo merito. Adele salutò una bella giovanetta che passava in phaeton al fianco di un signore elegante. — Conoscete quella signora? gli domandò.
— No.
— È Cecilia, la figliuola del conte Armandi, adesso maritata Livoretti.
Sul viso d’Alberto passò una nube rapidissima.
— Sono un uomo dell’altro mondo, cugina mia, abbiate la bontà di mettermi al corrente: e della contessa cosa n’è stato?
— È sul lago di Como da due anni a piangere la morte del marito.
— Oh!... E della principessa Metelliani?
— È a Roma, presidentessa di non so qual Congregazione di Carità... Vi sorprende?
— No.
Fecero un centinaio di passi senza dir altro.
— Sapete che ci rivediamo in un modo singolare? disse Alberti tutt’a un tratto.
— Singolare o no, son lieta di vedervi.
Ei la fissò di un lungo sguardo, e poscia:
— Avete molto spirito!
Ella inchinò lievemente il capo.
— Cugina mia, domandò Alberti all’improvviso; che cosa direste se vi facessi la corte?
— La direi la cosa più naturale di questo mondo.
— Dopo quel ch’è stato fra di noi?
— Appunto per quello.
La sua cavalla fece uno sbalzo, e s’inarcò tutta fremente sotto la mano ferma dell’amazzone.
— Siete forte! le disse Alberto.
— Cora è docile; rispos’ella accarezzandola sul collo.
Tacquero. Andavano al piccolo trotto per uno dei viali al di là del piazzone; il sole, che tramontava come un gran disco infuocato, lo inondava per tutta la sua lunghezza di pulvisculi dorati; alcune nuvole un poco alte sull’orizzonte disegnavansi come larghi sprazzi di porpora e d’oro.
— Che bel tramonto! disse Adele per rompere quel tal silenzio.
Alberto levò il capo, e soggiunse sbadatamente:
— Par d’essere a Belmonte.
— Avete buona memoria, cugino! disse Adele con singolare sorriso. Alberti volle rispondere a quel sorriso.
— È la memoria del cuore, cugina mia.
— Comincereste diggià a farmi la corte?
— Non avete detto che sarebbe la cosa più naturale?
— Cugino mio, cosa pensereste di me se vi permettessi di farmela? domandò Adele alla sua volta, seria seria.
— Avete ragione; rispose Alberto brevemente.
Le tenebre cominciavano a sorgere. Ella guardò di sottecchi quell’uomo singolare.
— Siete stata felice qualche volta? domandò Alberti come rispondendo ad una lunga meditazione.
— ... Sì; disse Adele dopo una lieve esitazione. Per quanto si può esserlo.... E voi?
— Io mi son divertito, rispose egli con accento glaciale. Discorrevano a sbalzi, con lunghe interruzioni, come rispondendo ai pensieri che andavansi svolgendo per la loro singolare situazione. Il marchese di tanto in tanto gettava un lungo sguardo sulla cugina, che cavalcava calma e fiera.
— Non siete vendicativa, cugina? domandò alfine.
— No.
— Che peccato!
— E voi, cugino?
— Io non credo avere il diritto di vendicarmi, poichè nessuno ha torto a questo mondo!
— Teoria comoda!
Ei si rizzò sulle staffe con fredda ed altera serietà:
— Cugina mia, quando m’avete detto che non potevate permettermi di farvi la corte, io vi ho dato ragione!
— C’era tal tranquilla amarezza, tale accento di convinzione nel suo scetticismo, che il seno di Adele gonfiavasi violentemente di tanto in tanto. Ei respirava con forza, a lunghi intervalli; cavalcavano in silenzio e a capo chino.
— Vi ringrazio per quest’ora che non avevo più provato da vent’anni; disse alfine con voce sorda quell’uomo il quale non si commoveva più.
Ella alzò il capo sgomenta, quasi cercando da dove venisse quella voce che la faceva trasalire.
— Torniamo indietro: disse brevemente.
Oltrepassarono il groom che s’era fermato anch’esso, e lo lasciarono molto addietro. Nessuno di loro due osò rompere per qualche tempo il silenzio che seguì. Il passo dei cavalli era sonoro; la luna incominciava a sorgere, e ad insinuarsi fra gli alberi, strisciando sul bianco viale: a poco a poco i cavalli s’erano accostati, e andavano fiutandosi. Alberto prese la mano della cugina, che le cadeva lungo il vestito.
— Lasciatemi... diss’ella dolcemente.
— Vendicatevi! rispose Alberto con voce sorda. È la vostra ora!
— Lasciatemi, ripetè Adele con tanta maggior vivacità per quanto sentivasi divenir più debole. Fra di noi c'è un abisso.
— Vostro marito?
— Chi? diss’ella con voce che lo fece trasalire.
— Gemmati!...
Ella tirò bruscamente le redini, e si rizzò sulla sella, pallida, immobile, con occhi scintillanti.
— Io mi chiamo ancora Adele Forlani! esclamò con voce estinta, ma colla fronte alta.
Il marchese ammutolì.
— Mi credevate maritata? riprese ella dopo alcuni istanti. E parlavate in tal modo alla moglie del vostro migliore amico!...
Ei non rispose.
— Come siete divenuto, Alberto! esclamò dessa celandosi il viso fra le mani.
— .... Vi faccio orrore?
— No... mi fate pietà.
Andavano rasentando gli alberi per non starsi vicini.
— Quanto avete dovuto soffrire per essere così cambiato! diss’ella alfine.
— Lo credete? mormorò Alberti con uno strano sorriso.
— Sì! Tutte le sante credenze che c’erano nel vostro cuore non si sbarbicano senza dolore. Quando mi avete abbandonata per Velleda, quando vi siete invaghito dell’Armandi, quando avete fatto piangere e avete pianto, c’era ancora qualche cosa in voi. Adesso non ci avete più nulla. I vostri occhi asciutti mi fanno paura!
— E voi? diss’egli con voce che sembrava uscire da sotterra: credete ancora a qualche cosa?
— Credo a ciò che fa battere il mio cuore.
Egli sorrise. — Ciecamente?
— Non posso dubitare di quel che sento.
— Io vi ho ingannata a 16 anni!
— Io sono stata per morirne. Come volete che potessi dubitare del sentimento che mi faceva morire?
Alberti non rispose immediatamente. Poi le piantò gli occhi in viso e domandò:
— Voi siete bella, giovane e ricca; come va che non vi siete maritata?
— Ho sempre rifiutato.
— Per chi?
— Per voi.
— Mi amavate?
— Sì.
— Anche dopo il mio tradimento?
— Sì.
Ei rimase pensieroso.
— Cugina mia, disse ad un tratto, con tutt’altro accento e con satanica disinvoltura; io non ho più capelli; nè illusioni; ho quarant’anni e trentadue mila franchi di debiti.
Dapprima Adele rimase come fulminata, cogli occhi sbarrati, quasi ad afferrare il senso di quelle parole che non poteva capire. Tutt’a un tratto si fece rossa come se Alberto l’avesse percossa in viso col frustino.
— Ah! gridò. — Ah!
E fuggì di carriera.