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XX.
Alberto era giunto a Firenze in una disposizione d’animo singolare — vergognoso di sè, cercando Velleda e temendo di rivederla, avendo spesso dinanzi agli occhi il viso pallido e gli occhi ardenti di febbre della cugina, e bevendo, senz’avvedersene, il fascino di quell’altra e tanto diversa bellezza che l’aveva sedotto, coll’aria che respirava, sembrandogli che il vento delle colline rendesse il profumo di quei biondi capelli, che ogni angolo della città, che l’eleganza dei negozî di mode, il fasto degli equipaggi, il sorriso delle donne avvenenti, la giovinezza che sentivasi gonfiare tripudiante nelle vene, avessero, qualche cosa della Manfredini.
La madre e la figlia abitavano un grazioso villino, piccino e civettuolo, posto a ridosso dell’amena collina di Bellosguardo. Il giardino era diligentemente tenuto, le lance del cancello sembravano dorate ieri, i viali non avevano nè un sasso, nè un filo d’erba, il muro di cinta era tappezzato di pianticelle rampicanti, gli arbusti erano rimondati con cura. La casa era a due piani, semplice, bianca, circondata d’alberi, colle persiane verdi, dietro le quali si vedevano scintillare i vetri.
Allorchè il timido innamorato osò spingere un po’ più innanzi le sue ricerche, seppe che il villino era deserto, e che le signore Manfredini non erano ancora ritornate in città.
Alberti era quasi sconosciuto a Firenze. Quello stato d’isolamento dava una fittizia tenacità alla sua passione anche senza la sua immaginazione, che ostinavasi a mettere il bruno al suo cuore. — Però egli avea vent’anni.
Intanto era sopraggiunto il carnevale, e il giovane Ortis non s’era fatto scrupolo di andare ad un veglione della Pergola, era stato spinto qua e là, ci si era annoiato, ma c’era rimasto a guardare con tanto d’occhi spalancati. Tutt’a un tratto una bella mascherina gli si fermò di faccia, saettandolo di un sorriso indiavolato e con due occhi scintillanti attraverso i fori della maschera.
— Ciao!
Alberto le fissò addosso un lungo sguardo, che valeva per lo meno quanto il ciao.
La mascherina era vestita da paggio italiano del XIII secolo, svelta, fresca, elegante, e sembrava bella come un amore.
— Sai che sei un bel biondino! gli disse nella lingua officiale del palcoscenico della Scala, il paggetto; prendendogli le mani.
— Non capisco il turco, bella mascherina.
— Non capisci che mi piaci?
— E tu? rispose Alberto, diventato ardito anche lui; sei bella?
— Guarda!
Scostò rapidamente la maschera e l’abbagliò.
— Addio, marchese Alberti! disse vicino a lui un’altra voce che lo fece trasalire.
— Sei anche marchese? domandò il paggetto.
— Ti rincresce?
— Sei così bel giovine che puoi essere anche marchese.
— Lasciate cotesta ragazza, disse ad Alberto la voce di prima con accento breve. Sono discesa in platea per voi. Devo parlarvi.
Ei si vide accanto una signora in domino, vestita di nero, tutta velata, senza un gioiello. Di quelle due donne mascherate che si contendevano il suo braccio l’una era modellata come una Venere dal costume attillato: avea i capelli ricci, l’occhio sfolgorante, il collo alabastrino, era rosea, civettuola, affascinante; l’altra non avea che il portamento del capo, l’eleganza della taglia, l’attrattiva dell’accento, il profumo aristocratico del fazzoletto, e le trine che cadevano sul guanto grigio — e bastò. Costei prese il braccio del giovane come cosa propria, e la folla li separò ben tosto dal paggetto. Andavano verso i corridoi dei palchi, la donna mascherata innanzi, salendo le scale con passo franco e leggiero, senza dire una parola, rialzando un po’ i lembi del vestito sulla sottana ricamata. Quando furono arrivati al terz’ordine e nell’angolo più oscuro del corridoio, si fermò all’improvviso, gli prese le mani, lo guardò in faccia e gli disse:
— Traditore!
— Mi conosci? esclamò Alberti attonito.
— Ti rammenti di Belmonte?
Ei le afferrò le mani, ricercandola dappertutto collo sguardo.
— Chi sei? Dimmi chi sei!
— Son tua cugina Adele!
Al primo istante Alberto impallidì, l’attirò vivamente verso la parte più illuminata del corridoio; poi sorrise stentatamente, e mormorò;
— Non è vero.
Anche la donna mascherata sorrise.
— Per chi mi hai tradita?
— Dimmi chi sei? ripetè Alberti cercando di leggere in quello sguardo che luccicava nell’ombra.
— È inutile che te lo dica, giacchè non mi conosci e non mi conoscerai giammai.
— Giammai?
— Giammai!
Alberto la fissava ansiosamente, non osando pronunziare un nome che gli veniva alle labbra con certi impeti, direi, vertiginosi.
— Che vita fai? esclamò alfine colei con bizzarra intonazione di voce. Perchè non ti si vede in nessun luogo? Ami ancora quell’altra?
— Io vado dappertutto, rispose Alberto eludendo la domanda.
— Dappertutto è troppo poco. Vai sabato al ballo a Pitti?
— No.
— Vai! insistè la mascherina con una stretta di mano.
— Ti vedrò colà?
— No.
— Che t’importa allora ch’io ci vada? Ella parve esitare.
— Vuoi che ti dia un segno di riconoscimento?
— Dammelo.
Si tolse il guanto e gli porse la mano bianca come il marmo e venata d’azzurro.
— Te ne rammenterai? gli disse sorridendo, con un accento che gli penetrò sino al cuore.
— Oh!
— Baciala..... Addio.
— Aspetta! gridò Alberto. Non mi lasciare così. Ci rivedremo?
— No! no! te l’ho detto!
Ella s’era svincolata di nuovo, e stava per svoltar l’angolo del corridoio.
— Ti sei innamorato diggià della mia mano? gli disse fermandosi un istante in capo alla scala. Ebbene.... t’ho lasciato almeno un ricordo...... Rammentati di me. Addio.
Il giorno dopo Alberti rivide Velleda all’improvviso, e quando meno se lo aspettava — passava in carrozza dinanzi al Doney, e non s’accorse di lui che s’era fermato sul marciapiedi come se gli fosse mancato il respiro — o non volle accorgersene. Allo svoltar di Santa Trinità la contessina mise a caso il capo allo sportello, e guardò dalla parte di via Rondinelli. Ei vide un istante, attraverso il cristallo scintillante, i capelli biondi di lei.