< Eros (Verga)
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Cap. XXIV
XXIII XXV

XXIV.


Un amore così romanzesco dovea sedurre la immaginazione del giovane fantastico. Le sue passioni eterne erano state così passeggiere, le sue impressioni così vivaci e mutabili, che allorquando avea sentito il bisogno di essere fiducioso nel sentimento che riempiva tutto il suo essere, era divenuto inquieto. L’amore di quella altera fanciulla che gli sacrificava le più legittime esigenze, il suo avvenire, e il rivale più formidabile, lusingava ad un tempo la sua vanità e il suo cuore, e insieme il sofisma. Ei vi si abbandonò con ebbrezza, senza esaminare dove potesse condurlo, senza discutere se fosse possibile così come mostravasi.

I due giovani si vedevano spesso; ora regolarmente, ed ora a caso — è vero che aiutavano parecchio il caso. — Il cavallo di Alberto non sapeva passeggiare che fuori di Porta Romana e la signorina Velleda faceva quello che non aveva mai fatto, l’aspettava alla finestra, o sotto le acacie del giardino. Allorquando erano insieme si dicevano ben poco, discorrevano degli argomenti più comuni, che per loro avevano cent’altri significati; i loro occhi si incontravano di rado, le loro mani non s’incontravano mai. La contessa Manfredini aveva l’aria di fiutare il vento.


De Marchi era ritornato da Napoli, e la sua prima visita era stata pel villino Flora. Le trattative pel matrimonio non erano molto avanzate; certuni dicevano anzi che avevano fatto un passo indietro, ma gli interessati erano tutte persone di buona società, e sapevano continuare le loro relazioni in modo da non dar pretesti agli indiscreti, ed ai curiosi; tanto più che degli impegni seri non ne erano mai stati presi officialmente.

In uno degli ultimi ricevimenti di casa Manfredini, De Marchi erasi mostrato più premuroso e galante del solito. Alberti rincantucciato in un angolo soffriva in silenzio. Velleda stava servendo il thè, e passandogli accanto lo vide così pallido e contraffatto. — Che avete? gli domandò. Ei le lanciò un’occhiata febbrile. Velleda passò oltre.

Alberto la seguiva con avido sguardo. La vide passare accanto a De Marchi, che stava appoggiato allo stipite di un uscio, colla mano nascosta nel gilè, colla lente incastrata nell’occhio, bello e sardonico. Alberto non potè udire che cosa colui le avesse detto inchinandosi verso di lei; ma lo vide sorridere, e anch’essa sorrise e arrossì leggermente. Nell’angolo dov’era Alberti si udì un rumore di porcellana che rompevasi; nessuno se ne accorse, o ci abbadò: la signora più vicina non volse nemmeno il capo; soltanto Velleda, dall’altra estremità della sala, volse un’occhiata così rapida e sfolgorante verso quel rumore, che De Marchi s’aggiustò la lente sull’occhio, e guardò anche lui.

La signorina Manfredini continuò a sgusciare fra la folla, briosa e gentile. Infine passò accanto ad Alberto, senza una nube sulla fronte, senza volgere gli occhi su di lui, e gli gettò sommessamente questa parola:

— Seguitemi.

Alberti andò dietro di lei nell’altra sala, e, temendo di far scorgere la sua agitazione, si mise a guardare con grande attenzione il giuoco che non capiva. Poco dopo si trovò vicina la Velleda, disinvolta, scherzando coi giocatori e con coloro che stavano a veder giocare. Avvedendosi di Alberti gli disse: — Non fuma? — e andò a prendergli un sigaro da un astuccio intagliato. — Passate di là senza farvi scorgere — soggiunse così piano che appena egli potè udirla.

Quell’altra stanza era un piccolo gabinetto da lavoro che metteva da una parte nella camera della madre, e dall’altra in quella della signorina Manfredini. C’era un grande scrittoio fra le due finestre, un canapè di faccia, e un piccolo tavolino accanto; fra il canapè e lo scrittoio aprivasi l’uscio della camera di Velleda. La stanza era poco illuminata da una sola lucerna a ventola posata sul tavolino. Alberto aspettò alcuni istanti, inquieto, coll’occhio e l’orecchio tesi; il cicaleccio della conversazione, e le esclamazioni dei giocatori si udivano distintamente, di tanto in tanto il fruscío di una veste passava attraverso l’uscio socchiuso. Tutto ad un tratto apparve Velleda, camminando sulla punta dei piedi con passo rapido e risoluto, e gli prese la mano. Ma nel medesimo istante lo fermò, col braccio teso, e rimase immobile, ansiosa, atterrita, guardando l’uscio dal quale era entrata. Spinse bruscamente Alberto nella sua camera, ed ebbe appena il tempo di chiuderne l’uscio. — Tutto questo accadde in un lampo.

— Cosa fai qui? domandò la contessa Manfredini entrando.

— A momenti mi si stacca un bottone dal guanto....

— Sei pallida...

— Non mi sento bene.

— So tutto... Ho visto il marchese Alberti...

— Mamma!...

— L’ho visto attraverso lo specchio, ti dico, quando ha lasciato cadere la tazza... Non mancò di fare uno scandalo... Costui vuol comprometterti ad ogni costo!

La giovanetta fu sublime per presenza di spirito, ed ebbe uno di quei tratti d’audacia che hanno soltanto le signorine del gran mondo. — Ci ascoltano, mamma! esclamò con accento supplichevole. La contessa volse uno sguardo furtivo verso la stanza accanto dove giocavasi, ed uscì.

Velleda, pallida, strema di forze, e più bella che mai, entrò risolutamente dov’era Alberto.

— Ebbene? gli disse fermandoglisi dinanzi.

Egli avea tutto udito. — Perdonatemi! mormorò. Ero geloso!...

— Di chi?

— Di colui!...

— Sareste qui se aveste il diritto di essere geloso? rispose ella con nobile semplicità.

Il giovane volse attorno uno sguardo commosso, quasi reverente, come se il profumo verginale di quella cameretta avesse qualcosa d’augusto, e le cadde ai piedi.

— È vero!... Cosa avete fatto, Velleda!..

— Ho fatto la sola cosa che potesse provarvi come vi ami; rispose la giovinetta, senza una sola vibrazione nella voce.

Alberto osò allacciarla colle braccia, e accostarle alla fronte le labbra tremanti. Ella socchiuse gli occhi, e si abbandonò mollemente. Ad un tratto trasalì, lo respinse con vivacità, e stette ad ascoltare. — Mio Dio! esclamò.

In un lampo raffermò il viso e lo sguardo, uscì con un movimento felino, e si trovò faccia a faccia colla madre, e colla contessa Armandi.

La contessa non si sente bene; disse la Manfredini. Hai qualche cordiale nella tua camera?

— Nulla, mamma! rispose Velleda con insolita vivacità.

L’Armandi s’era buttata sul canapè, e malgrado il suo gran male sembrava stesse assai meglio della ragazza ch’era pallida come un cencio. Ella avea rivolto un’occhiata rapida e penetrante su di Velleda, e s’era scusata alla meglio.

— Qualcosa troverò; disse la Manfredini dopo aver saettato alla sfuggita uno sguardo acuto sulla figliuola.

— Andrò io, mamma! esclamò costei, di cui l’angoscia terribile tradivasi nell’accento. Ma prima che ella potesse gettarsi dinanzi all’uscio, la madre era entrata precipitosamente.

L’Armandi prese la mano della fanciulla, per ringraziarla, senza distogliere gli occhi da quelli di lei.

La signora Manfredini ritornò quasi subito, perfettamente calma, tenendo in mano una boccettina che fece odorare alla contessa. La madre e la figlia non si rivolsero uno sguardo.

Il rimedio parve giovare immensamente alla contessa, e dopo cinque minuti ella ritornava in sala al braccio della signora Manfredini. Velleda si fermò ancora un po’ dinanzi allo specchio per aggiustare qualche piccolo disordine della sua toeletta, senza neppur volgere gli occhi sullo specchio. Ella accompagnò con un lungo sguardo attraverso lo specchio le due signore, e allorchè fu certa di esser sola, si precipitò nella sua camera, e la scorse tutta in una sola occhiata. Non c’era nessuno. Corse alla finestra, alta un primo piano dal suolo, e la trovò socchiusa, soffocò un grido, e cadde sui ginocchi.


Il giorno dopo, alle quattro, il marchese Alberti presentavasi alla contessa Manfredini, e le chiedeva la mano di madamigella Velleda.

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