< Eros (Verga)
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Cap. XXVI
XXV XXVII

XXVI.


Al cominciar della primavera la contessa Armandi era partita per la campagna, e non s’era più fatta vedere in casa Manfredini; soltanto era ritornata in giugno per due o tre giorni a Firenze, prima di andare ai bagni; ma il caso avea fatto sì che non si fosse più incontrata con Alberto.

La signora Manfredini, senza saper perchè, avea rimandato alla seconda quindicina del mese la partenza per Livorno, e perciò anche Alberti avea ritardato la sua. Velleda non faceva la menoma osservazione; però era divenuta bisbetica, capricciosa, lunatica, e qualche volta anche dura ed ingiusta verso il suo fidanzato. La madre prendeva le parti della figliuola, e faceva prevedere una suocera coi fiocchi, o piuttosto cogli artigli. Allora Velleda avea dei momenti di affezione più espansiva del solito, come degli assalti di pentimento, che col suo carattere sembravano più straordinarî.

Alberto avea tal’alta idea di Velleda, che avrebbe creduto oltraggiarla mortalmente se avesse confessate le ingiustificabili ma invincibili tentazioni di gelosia che l’assalivano di tanto in tanto. Il Metelliani era così ignobile e brutto, che egli non avrebbe giammai creduto possibile un pensiero di Velleda per quell’uomo di cui era geloso. Don Ferdinando era divenuto intanto uno dei più assidui frequentatori del villino Flora. La signora Manfredini trovava sempre modo di far cadere nel discorso questo fatto, e Velleda non poteva fare a meno di esserne lusingata internamente, poichè Don Ferdinando era l’idolo della più alta società, e le più nobili dame erano gelose di cotesta preferenza. Metelliani possedeva quella disinvoltura da gran signore, che adattasi egualmente alla impertinenza e alle belle maniere; l’omaggio rispettoso di quell’uomo superbo e sprezzante verso tutti gli altri, dovea lusingare enormemente l’amor proprio della fanciulla vanitosa; ella avea finito per ringraziamelo con una parola graziosa, con un sorriso, con un’occhiata, sempre però con quell’ombrosa riservatezza che era la sua più bella attrattiva. Alberti soffriva come un dannato, arrossiva e indispettivasi contro se stesso, ma senza potersi vincere. Volere o non volere, era lui solo che in mezzo a tanti sorrisi rappresentasse la parte di uggioso, e la mamma Manfredini glielo faceva intendere in tutti i modi; la figliuola ch’era superbetta, si mordeva le labbra senza dir nulla.

— Vi sareste pentito d’avermi data la vostra parola? gli domandò un giorno, smettendo di giocare colla cagnetta.

— Io!... come?... Ma perchè mi dite ciò?...

Velleda si mise ad inseguire così pazzamente Gemma pei viali del giardino che Alberto non potè aggiungere altro, e non osò buttarsi ai piedi di lei.


Siccome il Metelliani non trascurava occasione per dimostrare la sua premurosa amicizia verso le signore Manfredini, avea insistito per avere l’onore di accompagnarle all’ultima festa a Corte. Le signore avevano accettato. Passando in mezzo a quella folla di uniformi, di decorazioni, di grandezze mondane, appoggiata al braccio di quell’uomo di cui il nome correva sulle bocche di tutti, che portava la testa alta nella casa del Granduca, Velleda sentì qualche cosa di mai provato, che le fece rialzare il capo con un impercettibile movimento, come se avesse voluto gettarsi sulle spalle a guisa di manto reale il ricco volume dei suoi capelli. Ella volse sul principe un’occhiata rapida e sfolgorante, nella quale sembrarono riflettersi lo scintillio delle decorazioni e dei ricami dell’uniforme di lui.

Che brutta sera pel povero Alberti, il quale dovette subirsi la mamma, e vide la sua fidanzata sempre a distanza, che si abbandonava con radiosa spensieratezza al piacere di esser corteggiata! Ei procurò di avvicinarsi alla contessa Armandi, per non rimaner nè solo, nè colla suocera; ma anche la contessa gli volse lo spalle — però senza che se ne fosse accorta, di certo — poichè incontrandolo poco dopo si mostrò amabilissima, prese il braccio di lui, e si mise a girare per le sale.

Dopo aver chiacchierato un bel pezzo d’argomenti diversi gli domandò con accento singolare:

— Si diverte?

La domanda era semplicissima, ma Alberto si trovò imbarazzato a rispondere: — M’accorgo, disse alfine, che non son fatto per cotesti divertimenti.

— Cosa vuole! Qualche volta bisogna sacrificarsi per gli altri. Velleda ci si diverte tanto! cotesto non è un piacere per lei?

- Sì; rispose egli secco secco.

La contessa ebbe uno di quegli scoppi di ilarità che la rendevano formidabile; sicchè Alberto si fece di porpora. Ma tosto ella, per dimostrargli in certo modo la vera causa di quel riso a doppio indirizzo, soggiunse:

— Quel povero Metelliani m’ha l’aria di un rajà indiano, così camuffato e carico di brillanti.

— Alberto saettò sul rajà romano uno sguardo che l’Armandi sorprese.

— Senza adulazione, sa ch’è un bel trionfo il suo? gli disse. Non dipenderebbe che da Velleda di vedersi deporre ai piedi tutti quei ninnoli, e di aversi la corona di principessa allo sportello della carrozza!...

— Se le fossi grato di una simile preferenza mi parrebbe d’insultare la mia fidanzata; rispose Alberto, cercando di adattarsi all’aria scherzosa dell’Armandi, ma con troppa vivacità.

La contessa gli piantò in viso uno sguardo acuto e un sorriso incredulo, e gli disse tranquillamente:

— Ella è geloso!

— Io?... di colui!...

— Superbo!...

E si mise a solfeggiare col ventaglio la musica che suonavasi. — Ta... ta... ta... Vogliamo sederci qui?

Cambiò discorso e si misero a guardare il via vai della folla. Poco dopo passavano la contessina Manfredini e il principe Metelliani. L’Armandi non avea detto una sola parola, ma troncò a mezzo la frase incominciata, e li seguì semplicemente collo sguardo. Velleda rivolse loro da lungi un grazioso cenno del capo.

— Verrà anche lei a Livorno? domandò l’Armandi al principe.

— Sì.

— Ma la Toscana se lo ruba addirittura!

— Non domando di meglio che d’essere rubato, bella contessa.

Ella scoppiò a ridere ironicamente, ma si fece rossa. — S’accomodi! gli disse, volgendogli a mezzo le spalle.

Anche Alberto s’era fatto di fiamma in viso, lanciò a Don Ferdinando uno sguardo provocante, e gli disse colla voce leggermente tremante:

— È singolare però che ella cerchi da un pezzo inutilmente.

Velleda si morse le labbra, e colse il primo pretesto per allontanarsi.

— Cosa avete fatto, malaccorto! esclamò l’Armandi allorchè furono soli. Vi siete perduto!

— Come?... perchè?...

— Avete fornito a Velleda le armi che ella cercava!... Lasciamoci, lasciamoci!


Le signore Manfredini partirono com’erano venute, insieme ad Alberti. Velleda parlò poco, e smontando da carrozza gli porse la mano come al solito. Ei la lasciò un po’ bruscamente.

Il giorno dopo, andando al villino Flora gli fu detto che le signore erano in giardino; ma ci trovò soltanto Velleda, che stava passando in rivista i suoi fiori. La ragazza lo salutò freddamente, continuò a discorrere per un cinque minuti col giardiniere di cardenie e di magnolie, rispondendo con monosillabi alle domande di Alberto, e poscia s’incamminò lentamente verso casa, precedendolo di qualche passo. Prima di giungere all’uscio si fermò su due piedi, e gli disse, voltandosi verso di lui:

— Signore, vi prego di ripigliarvi la vostra parola. Alberto rimase un istante sbalordito. — Perchè? balbettò.

— Non ci abbassiamo entrambi con spiegazioni superflue: voi sapete il perchè assai meglio di me. Siete liberissimo di seguire le vostre inclinazioni, ma vi prego di rispettarmi tanto da non farmene spettatrice. Lasciamoci tranquillamente, da gente ammodo, da buoni amici, sinchè vi è tempo.

Alberti non diceva una parola, e rimaneva come di sasso, fissando lei che giocherellava in aria distratta coi fiori che aveva côlto. — Sentite, Velleda! esclamò quindi con uno slancio d’affetto; vorrei poter baciare la sabbia che calpestate!... Grazie!...

La contessina lo guardò attonita. — Di che?...

— Siete gelosa!... Dunque, mi amate ancora! Velleda aggrottò il sopracciglio, e parve un istante turbata ed esitante. — Chi v’ha detto ch’io sia gelosa? rispose poscia alteramente.

— Ma dunque?... Ma perchè?.. Ma allora perchè volete lasciarmi?

Dopo alcuni istanti la giovinetta rialzò Il capo che teneva chino, e rispose lentamente:

— Perchè non ci conveniamo.... Ci siamo sbagliati. Rimediamoci finchè siamo in tempo.

— E il rimediarci non vi costerà nulla? domandò Alberto pallido come cera.

— Nulla; diss’ella dopo alcuni istanti.

— Rimediamoci allora!

Fecero alcuni passi in silenzio.

Noi partiremo doman l’altro per Livorno; riprese Velleda con voce calma. Questa sera andremo in casa Armandi, e domani faremo le ultime visite di congedo; quindi saremo occupatissime sino al momento della partenza; così potremo far tacere le ciarle degl’indiscreti per adesso. Durante la stagione dei bagni avremo poi tutto il tempo per disporre le cose nel modo più conveniente....

Alberto s’inchinò in silenzio.

— È inutile che riveda vostra madre? le domandò.

— È inutile; sa tutto.

Ella gli stese mollemente la mano, sfiorò appena quella di lui, ed entrò in casa.

— Povera Adele! mormorò Alberto, come se allora soltanto indovinasse quel che avea dovuto soffrire la povera cugina, quando il più acuto dolore della vita l’aveva addentata.

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