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Cap. XXXVIII
XXXVII XXXIX

XXXVIII.


Alberti passò una notte terribile. Avea visto, attraverso i vetri di quel balcone, la donna che amava alla follia, accasciata sul canapè, colla testa fra le mani — ella non avea fatto un passo verso di lui, non avea messo un grido, egli non avea potuto stendere le braccia per soccorrerla, o per rapirla alla gelosia del suo rivale; soltanto ciò designava la situazione reciproca con una terribile eloquenza. L’amore di lui esaltavasi al pericolo di lei, al pensiero delle lagrime che non poteva vedere. Fece i più insensati progetti; andò cento volte a spiare le finestre di quella casa. L’indomani seppe che marito e moglie erano partiti all’alba, non si sapeva per dove.

Il giovane ardeva di seguirla, ma dove? Fece tutto quello ch’era possibile di fare per aver notizie di lei; poi sperò che ella gli avrebbe scritto; poi s’accasciò. A poco a poco incominciò a pensare a lei con una dolcezza melanconica, fantasticando sul castello solitario dove il geloso marito l’avea probabilmente rinchiusa, sulle lagrime ch’ella avea dovuto versare, sui ricordi mesti e cari che doveano tornarle alla mente mentre fissava i begli occhi alle stelle... E tutto ciò sarebbe stato possibile forse; ma Armandi conosceva troppo il mondo e le donne per contribuire a fare esaltare colla solitudine la passioncella della moglie. Dopo una breve spiegazione, fatta con garbo e da gente ammodo, entrambi avevano finito per andar d’accordo che quello che c’era di meglio a fare si era d’andare a Baden. La contessa, dopo quella scossa terribile, erasi mostrata quasi riconoscente verso il marito del suo spirito conciliativo, e da canto suo s’era prestata lealmente a riparare il male fatto. Passato il primo sbigottimento, il suo amore, chiamiamolo pur così, avea guardato la cosa dal lato mondano, dal lato dei ragionamenti del marito, e avea fatto giudizio.

Intanto il tempo scorreva sul rancore del marito, sulla melanconia della moglie, e sull’immaginazione di Alberto, come se si fosse incaricato di poter far riunire nuovamente e senza inconvenienti queste tre persone nel medesimo salotto, a centellare il caffè, ciarlando tranquillamente di mode o di politica.

Alberti dopo alcuni mesi avea ripreso le abitudini di una volta. Al principio dell’inverno seppe da un amico che tornava da Baden come l’Armandi fosse stata la più bella, la più elegante, la più allegra signora che si fosse trovata ai bagni. Il baccanale della babele europea estiva faceva crollare in uno scoppio di risa il melanconico castello di carte, dove la sua fantasia abbrunata avea rinchiuso i sospiri della bella, mentre egli dondolavasi sulla poltrona fumando il sigaro. Il suo funesto spirito d’analisi ebbe campo di fargli fare delle lunghe meditazioni, amare, irritanti, che ferivano non solo le sue illusioni giovanili, ma anche il suo amor proprio.

Coll’inverno erano ritornate le rondinelle dell’alta società, ed Alberti seppe che la contessa era andata a Torino col marito. A quella notizia, al sapersela cotanto vicina, sentì divampare in fondo al cuore, non diremo l’amore, ma il desiderio, la curiosità, una certa ostinazione dispettosa, e andò e la rivide. Com’era cambiata! non al fisico, la contessa era sempre giovane e bella; ma il contegno di lei, così strano, così indifferente, ricominciava a montargli la testa o a fargliela perdere. Però l’Armandi non era tal donna da perderci la sua quando non voleva, o da farsi strascinare pel chignon, da una situazione imbarazzante. Finalmente gli rispose dandogli appuntamento in uno dei più remoti viali vicino all’Orto Botanico.

Allorchè il giovane la vide discendere dal fiacre da nolo, sentì battersi il cuore come una volta, più forte di una volta forse. Ella gli venne incontro un po’ esitante, e gli stese la mano.

— Volete che montiamo in carrozza? le domandò.

— No.

— Perchè non rimandate il vostro legno in tal caso?

— Lasciatelo lì.

Alberto tacque, e presenti tutto quello che ella dovea dirgli con la sua voce pacata.

Fecero alcuni passi in silenzio. L’Armandi non s’era accorta del braccio che offrivale il marchese.

— Sentite, Alberto, gli disse alfine, dobbiamo separarci.

Ei sentì scoppiargli in cuore, montargli alla testa, affogargli la voce nella gola, tutto ciò che avea sofferto, temuto e sperato per lei — non disse motto, non le rivolse uno sguardo. — Ella gli strinse la mano.

— È necessario! soggiunse.

— Lo volete?

— È necessario. Mio marito mi ha perdonato, ma sa tutto... ed è qui... Cosa volete che faccia?...

Successe una breve pausa.

— A che pensate? diss’ella.

— Penso che veramente non dovete amarmi più, se l’ultima volta che mi vedete potete avere il coraggio di dirmi addio in presenza del vostro fiaccheraio, per impedirmi che almeno vi lasci vedere le mie lagrime.

— Come siete ingiusto!

— È vero, perdonatemi... Soffro tanto! esclamò tristamente e scuotendole le mani.

Ella non rispose, e voltò indietro per ritornare lentamente verso il fiacre che l’aspettava.

— Vi domando un ultimo sacrificio: lasciate Torino.

— Non vi basta che rinunzi a vedervi?

— E mio marito?

— Ebbene, partirò.

La contessa continuava ad andare innanzi.

— Volete proprio che vi dica addio dinanzi al cocchiere? mormorò il giovane con tutta l’amarezza che gli rodeva il cuore.

Ella si fermò, voltandosi appena verso di lui, gli strinse la mano, e senza rialzare il velo gli disse:

— Addio!

Le labbra del giovane tremavano senza che potessero profferire una sola parola. La vide allontanarsi lentamente, e montare in carrozza.

Poi si asciugò di nascosto una lagrima — l’ultima.


Il giorno dopo partì davvero, per un altero rispetto della sua parola, o per un dispettoso amor proprio. Il vedere rompere con tanta indifferenza tali legami l’avea ferito profondamente, ma avea tanto amato quella donna, e tanto diversamente dalle altre, che fra di loro parevagli dovesse sussistere sempre un vincolo indissolubile; il suo dolore avea certa voluttà che gli piaceva assaporare andando a seppellirsi in campagna; ma la sua campagna era troppo vicina a Milano, e gli amici non tardarono ad andare a farvi una partita di caccia — par distrarlo. — Così seppe dopo qualche tempo quello che non avrebbe dovuto sapere: il capitano Marteni, nell’assenza del conte Armandi, che era in Allemagna con una missione diplomatica, comprometteva un pochino la contessa, e la contessa si lasciava compromettere. Alberto corse a Torino, e colla ingiusta e malsana curiosità del rivale riescì a convincersi davvero che il capitano era precisamente quello che dicesi un successore in tutte le regole.

Allora andò a cercare del capitano Marteni.

Lo trovò che faceva colezione. Il capitano, al ricevere il suo biglietto di visita, si era rammentato di lui, forse un po’ troppo, e l’invitò a prender posto alla tavola, da vecchio amico. Alberto rifiutò freddamente, dicendo che lo scopo della sua visita non permettevagli di fermarsi a lungo. Il capitano si fece serio, vuotò il bicchiere che aveva offerto, e levò il capo come per ascoltare con maggior attenzione.

— Non avremo bisogno di molte parole per intenderci; disse Alberti. Ella è soldato e gentiluomo, e troverà la cosa perfettamente naturale. Noi siamo rivali, non occorre fare il nome della donna che amiamo o che abbiamo amato. Son venuto per cercare di comune accordo un pretesto per battersi senza che sia compromesso il nome di quella persona.

Il capitano parve riflettere alquanto.

— Anzitutto, rispose, mi permetta una domanda: Lei è dalla parte di chi ama, oppure dalla parte di chi ha amato?

— Cotesto non preme sapere.

— Domando scusa, preme moltissimo.

— Signore, sembrami che divaghiamo! disse Alberti con una sfumatura d’ironia provocante.

Il capitano conservò la più perfetta calma.

— Scusi, avrei dovuto incominciare da un’altra domanda: Ella crede d’essere stato il primo amante di quella dama?

— Signore!...

— Caro marchese, son capitano nei carabinieri, e come tale sono un po’ soldato, e un po’ legale; ragioniamo adunque, poichè a bucarsi la pelle c’è sempre tempo. Se Ella è convinto di non essere stato il primo amante di quella signora, come probabilmente io non sarò l’ultimo, e s’è convinto del pari che noi ci succediamo regolarmente, in questo caso chi di noi due avrebbe più diritto di sfidar l’altro? Ella, perchè io son venuto dopo di lei, od io perchè Ella mi ha preceduto?

— Cotesto è invertire singolarmente la quistione.

— Semplifichi, rettifichi pure; son qui ad ascoltare.

— Non son venuto a dirle, nè ho bisogno di dirle, quali siano le mie opinioni su quella signora; e sembrami che non occorrano tante parole fra due gentiluomini per bucarsi la pelle, com’Ella dice.

— Caro marchese, non ha rettificato nulla, e si aggrappa alla provocazione come uno che non abbia migliori ragioni da metter fuori. Ma io ho più anni di lei, sono ufficiale, ho due medaglie, di quelle che danno il diritto di esser sempre calmo, e posso permettermi di credere che occorrano proprio tutte le possibili spiegazioni fra due uomini di cuore, prima di mettere mano ai ferri, soprattutto allorchè sono seduti, come noi, dinanzi ad una buona tavola. Ella viene a sfidarmi per amor proprio, per dispetto, piuttosto che per gelosia; senza pensare che colloca il suo amor proprio fra il quarto e il sesto di coloro che avrebbero gli stessi suoi diritti. Da canto mio, allorchè verrà l’ora del mio successore, gli stringerò la mano da buon camerata — in parola d’onore! — come le propongo di stringere questa che le stendo. Ora, se coteste ragioni non le bastano, e cerca proprio un pretesto, mi dica che questo bicchier di vino che le offro è cattivo, io le getto la bottiglia alla testa, e mi metto a sua disposizione.

Alberti alzò lentamente il bicchiere, e bevve.

— Bravo così! esclamò Marteni stringendogli calorosamente la mano.

— Un’ultima parola, signore... Da quanto tempo... Ella è il mio successore?...

— Perchè cotesta domanda?

— Per farci su le mie riflessioni; rispose Alberti con un amaro sorriso. È una domanda che non riguarda menomamente quella signora, in parola d’onore!

— ... Da quasi due mesi...

— Grazie! risposa Alberto dopo un po’ di esitazione.

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