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I. — Le definizioni.
1) Nelle prime sei definizioni Spinoza si costruisce il concetto della sostanza divina infinita, che sarà poi più rigorosamente determinato nelle proposizioni della prima parte del primo libro.
Def. 1. Per causa di sè intendo ciò, la cui essenza involge l’esistenza, ossia ciò, la cui natura non può essere concepita se non esistente.
Noi viviamo in un mondo di cose che nascono e periscono: di cose, la cui natura non esclude che possano cessare di esistere; di cose, che hanno ricevuto l’esistenza da altre cause e perciò dipendono da queste quanto all’esistenza. Vi deve tuttavia essere a fondamento di tutto questo mondo instabile qualche cosa che non ha la sua esistenza da altro, che esiste necessariamente in virtù della natura sua medesima, che è causa sui, cioè è qualche cosa di assoluto, di incondizionato, di ponentesi per virtù sua, non per virtù di altro.
Questo mondo di cose periture ci è dato sotto una duplice forma: da una parte come un mondo di esseri estesi, sempre limitati e determinati da altri esseri estesi: dall’altra come un mondo di attività spirituali limitate e determinate da altre attività spirituali. Due mondi coesistenti in un unico mondo, costituenti due serie parallele che non interferiscono mai: in ciascuna di esse ogni elemento è sempre condizionato da elementi della stessa serie, è sempre una cosa «finita nel suo genere». Qui è già in breve introdotta quella visione parallelistica della realtà, che sarà più ampiamente svolta nel secondo libro.
Def. 3. Intendo per sostanza ciò che è in sè e per sè si concepisce: ossia ciò il cui concetto non ha bisogno di essere formato dal concetto di altro.
A questo mondo di esseri estesi o spirituali, ma tutti egualmente limitati, deve stare a fondamento un essere che non è, come gli esseri estesi finiti, in un altro essere esteso più grande, ma è in sè; e che non è, come i pensieri finiti, la determinazione d’un pensiero più generale, ma è un pensiero che può essere concepito per sè, senza il sussidio di altro pensiero. Questo essere, che è veramente sotto l’uno e l’altro aspetto causa sui, è da Spinoza chiamato sostanza.
La parola sostanza ha nell’uso tradizionale due sensi. «In nomine subslantiæ duæ rationes indicantur; una est absoluta, scilicet essendi in se ac per se...; alia est quasi respectiva sustentandi accidentia» (Suarez, Disp. met., 33). Così anche Descartes. «Per substantiam nihil aliud intelligere possumus quam rem quæ ita existat, ut nulla alia se indigeat ad existendum». Tale è solo Dio: in questo senso Dio solo è sostanza. «Possunt autem substantia corporea et mens, sive substantia cogitans creata, sub hoc communi conceptu intelligi, quod sint res quæ solo Dei concursu egent ad existendum» (Princ. phil., I, 51). La parola «sostanza» è evidentemente presa qui nel primo senso: vedremo anzi che Spinoza non ammette l’esistenza di sostanze nel secondo senso.
Def. 4. Per attributo intendo ciò che l’intelletto apprende della sostanza come costituente l’essenza della medesima.
Ma come riconciliare nell’unità della sostanza la dualità profonda degli esseri estesi e dei pensieri, che costituisce il mondo? Spinoza introduce a questo fine il concetto di attributo. Cartesio già aveva notato (Princ. phil., I, 52) che l’esistenza della sostanza non può essere avvertita da noi se non per mezzo di attributi, proprietà, per via delle quali essa può agire su di noi. Spinoza fa dell’estensione e del pensiero due unità infinite (infinite ciascuna nel suo genere, nella sua sfera), irreducibili, che esprimono a noi, come attributi, la natura unica della sostanza. Ma sono questi attributi (secondo Spinoza) reali maniere d’essere della sostanza o forme subbiettive, sotto cui si nasconde per il nostro conoscere la sua natura impenetrabile? Certo, la questione dei rapporti degli attributi e della sostanza è nella filosofia di Spinoza uno dei punti più scabrosi. Non sembra però che dobbiamo intendere la sostanza come un inconoscibile che si traduce poi subbiettivamente per noi nei due attributi. Contro questa interpretazione stanno passi decisivi. Eth., II, 1: «Cogitatio attributum Dei est, sive Deus est res cogitans». Ib., II, 2: «Extensio attributum Dei est, sive Deus est res extensa». Ib., I, 9: «Quo plus realitatis aut esse unaquæque res habet, eo plura attributa ipsi competunt» (ripetuto quasi letteralmente in Ep. 9). E nel Tractatus brevis è detto che l’estensione e il pensiero sono veri attributi di Dio «per i quali noi possiamo conoscerlo quale è in sè e non quale agisce esternamente a sè» (Tr. br., I, 2, 28). Quindi possiamo con la maggioranza degli interpreti intendere gli attributi come vere manifestazioni obbiettive della sostanza. Certo con questo non sono risolte tutte le difficoltà. Anzitutto vi sono dei passi che favoriscono esplicitamente l’interpretazione contraria. Nell’Ep. 9 è detto: «Per substantiam intelligo id quod in se est et per se concipitur, hoc est cuius conceptus non involvit conceptum alterius rei. Idem per attributum intelligo, nisi quod attributum dicatur respectu intellectus, substantiœ certam talem naturam tribuentis». E l’esempio citato in appresso conferma quest’interpretazione. Un corpo che riflette egualmente tutti i raggi di luce ci appare bianco: in sè è perfettamente piano, non bianco; Spinoza paragona il color bianco all’attributo. — In secondo luogo è una difficoltà grave la questione dell’identità dei due attributi. «Substantia cogitans et substantia extensa una eademque est substantia, quæ jam sub hoc, jam sub illo attributo comprehenditur» (Eth., II, 7, schol.). Quindi la diversità degli attributi dal punto di vista assoluto è nulla: nella sua realtà vera la sostanza è unica ed ha più attributi solo in quanto appresa dall’intelligenza sotto questo o quell’aspetto.
Come si concilia tutto questo? Noi dobbiamo assumere che gli attributi sono ben distinti, ma non separati: è l’intelletto nostro che li isola. Gli attributi, se noi potessimo apprenderli nella loro totalità ed unità, ci esprimerebbero una natura unica; la sostanza sarebbe non un complesso di attributi paralleli e separati (come sono per noi l’estensione ed il pensiero), ma una sintesi viva, un’unità conciliante in sè la molteplicità degli attributi. Perciò Spinoza dice (Eth., I, 6, coroll.) che «in rerum natura nihil datur præter substantias earumque affectiones», perchè il concetto di attributo coincide con quello della sostanza: l’attributo è un aspetto reale della sostanza, appreso nel suo isolamento. Tutti gli esseri particolari (potremmo dire quindi con parole più semplici) ci appariscono come semplici determinazioni d’una totalità infinita. Posta la dualità irreducibile degli esseri estesi e degli esseri coscienti, noi dobbiamo porre due di queste totalità: un’estensione infinita, un pensiero infinito. L’uno non si riduce all’altro: entrambi sono l’infinito. Tuttavia noi non possiamo ammettere due infiniti: essi debbono costituire due aspetti dell’essere infinito. Poiché la mente nostra li concepisce chiaramente e distintamente, come le due unità supreme dell’essere, noi dobbiamo veramente vedere espressa in esse la natura dell’essere supremo: solo noi non vediamo come essi siano due ed uno: noi sappiamo di doverli pensare come unità, ma quest’unità suprema rimane inaccessibile alla nostra intuizione.
Def. 5. Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro e si concepisce anche per mezzo di altro.
Senza entrare per ora in tutti i complicati problemi dei rapporti della sostanza con gli esseri particolari, Spinoza determina qui questo rapporto solo in quanto definisce gli esseri particolari e finiti come modi, ossia affezioni, determinazioni (e perciò limitazioni, negazioni parziali) degli attributi, cioè della sostanza. Così un corpo è un modo, una determinazione, una limitazione della sostanza in quanto estesa. I modi non costituiscono la sostanza come i fattori una totalità: essi sono semplici determinazioni, negazioni: la sostanza, nella sua unità e totalità, è prima dei suoi modi. E in quanto la sostanza è anche il pensiero che contiene in sè tutti i pensieri finiti, la ragione universale e suprema, essa non contiene solo in sè materialmente tutti i modi, ma li contiene anche idealmente, sotto di sè, come determinazioni logiche, le quali procedono necessariamente da un concetto universale. Perciò siccome ogni modo è sempre (come meglio vedremo) per un aspetto estensione, per un altro aspetto pensiero, è legittimo dire che il modo è ciò che è sempre contenuto in altro e concepito per mezzo di altro: mediatamente o immediatamente esso è nella sostanza e può essere pensato solo per mezzo della sostanza. — In questa definizione di Spinoza è stata criticata l’espressione «in alio esse», come tolta da rapporti spaziali e perciò metaforica ed ambigua. Si è obbiettato che allora nello stesso senso si dovrebbe dire che gli attributi sono nella sostanza. Basta a questo riguardo tenere ben chiaro il concetto della sostanza come realtà suprema, di cui i modi sono semplici limitazioni: la sostanza è come la totalità potenziata, nella quale il modo è contenuto non come parte positiva o fattore, ma come negazione parziale e depotenziamento. Gli attributi non sono invece nella sostanza, perchè sono la sostanza: sono qualche cosa di originario e di infinito, che sebbene non adegui qualitativamente la sostanza, è però quantitativamente, cioè nel suo genere coestensivo alla sostanza e perciò è con essa nel rapporto di identità, non nel rapporto di determinato a determinante.
Def. 6. Per Dio intendo l’essere assolutamente infinito, cioè una sostanza costituita da infiniti attributi, dei quali ciascuno esprime un’essenza eterna ed infinita.
Il concetto della sostanza svolto nella defin. 3 è qui completato nel senso che non solo deve essere l’unità degli attributi dell’estensione e del pensiero (i soli a noi noti e che sono il nostro punto di partenza), ma deve comprendere in sè tutti gli infiniti attributi possibili. L’essere finito è l’essere «de nihilo participans» (Cog. met., II, 3). L’essere perfetto non deve involgere in sè nessuna negazione: deve perciò comprendere non solo quanto apprendiamo come realmente esistente, ma anche quanto pensiamo come possibile, purché non implichi contraddizione. In questo senso la sostanza è una sola cosa con Dio: «Deus sive substantia constans infinitis attributis» (Eth., I, 11). Quindi Dio deve comprendere in sè anche tutte le infinite forme di essere, che noi possiamo pensare solo in astratto: questo pensiero astratto è come il presentimento degli infiniti aspetti dell’essere, che in Dio sono reali, ma che sono inaccessibili al conoscere umano.
Con questa definizione Spinoza trasporta semplicemente nel campo dell’operare la distinzione dell’in se esse ed in alio esse. Ciò che è in sè è mosso nell’agire solo dalla necessità della sua natura autonoma; quindi il suo agire è necessario nel senso che esclude la necessità di agire altrimenti da quanto la sua natura esige: ma questa necessità, nell’essere perfetto, non è una limitazione, non è un’imperfezione. Quando si dice che l’essere perfetto esclude ogni imperfezione, non si dice con questo che all’essere perfetto manchi l’imperfezione: la negazione d’una negazione non è una negazione. Così quando si dice che l’essere perfetto agisce necessariamente secondo la sua perfetta natura, non si dice con questo che il non poter agire come un essere limitato od imperfetto sia una necessità che lo diminuisce o lo costringe: che anzi questa necessità, che è identica con la sua natura perfetta, è ciò che lo pone al disopra di ogni possibile coazione. Invece ciò che è in alio agisce secondo la necessità ricevuta da altro e perciò non può comprendere perfettamente se stesso nè come essente, nè come agente; perchè ciò che è in altro, deve anche esser pensato, compreso per mezzo di altro (def. 5): la necessità, secondo cui agisce, è una necessità esteriore, non sua, una coazione.
Def. 8. Per eternità intendo la stessa esistenza, in quanto si concepisce come discendente necessariamente dalla sola definizione della cosa eterna.
Alla distinzione dell’in se esse e dell’in alio esse, della libertà e della necessità coatta Spinoza fa seguire la parallela distinzione dell’eternità e del tempo: laddove le cose finite fluiscono nel tempo, l’essere uno e perfetto, la sostanza, è perennemente quello che è, perchè l’esistere suo è fondato nella sua natura immutabile. L’esistere delle cose finite è un durare, anche se lo penso senza limiti: perchè il durare è un mutare, è un’esistenza che io sento scorrere, perchè vi è in essa qualche cosa che finisce o che può finire: in ogni istante vi è qualche cosa che non è più e qualche cosa che non è ancora. Una durata invece che sia immutabile, sempre uguale a se stessa in tutte le sue parti, avente il suo fondamento in sè, non è più una durata (temporale): è un essere immobile che si confonde con la natura immobile della cosa stessa, è l’eternità: «œternitas nil est prœter divinam essentiam» (Cog. met., II, 1).